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Intervista ai Devils: “Siamo apparsi alla Madonna”

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Il duo garage punk The Devils ci racconta il nuovo album, le collaborazioni con Mark Lanegan e Alain Johannes, il rock’n’roll di Carmelo Bene

di Andrea Valentini

In circolazione (e attivissimi) dal 2015, i napoletani The Devils – ossia Gianni Blackula (chitarra/voce) e Switchblade Erika (batteria/voce) – sono un duo di cattivissimo garage punk-rock’n’roll-blues. Avete presente i Coma Cose? Ecco, loro sono i Coma Cose forgiati all’inferno, educati in un bordello di satanisti e ninfomani, che arrivano a casa vostra per ribaltare le vostre poche e traballanti certezze. Dopo due album per la label specializzata Voodoo Rhythm, approdano al terzo lavoro sulla lunga distanza, che uscirà il 23 aprile per Goodfellas. Il titolo promette benissimo – Beast Must Regret Nothing – e l’ascolto delle 11 tracce conferma l’impatto visivo: si fa sul serio. Per buona pesa, aggiungiamo che a produrre l’album è stato Alain Johannes (musicista e producer che ha lavorato con pezzi da novanta come Queens Of The Stone Age, Chris Cornell, PJ Harvey, Mark Lanegan e Them Crooked Vultures); in più, nel brano Devil Whistle Don’t Sing c’è un featuring nientemeno che di Sua Maestà Lanegan in persona. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i due diavoli partenopei per farci raccontare genesi, retroscena e aneddoti legati al disco.

Questo disco è nato pre-pandemia, giusto? Non è uno dei tanti “figli del Covid”…

“Abbiamo registrato a Napoli nell’ottobre del 2019. Poi Alain, il produttore è tornato in America e si è subito ammalato… una brutta polmonite. È stato fermo a letto quasi tre mesi – sospettiamo che si fosse preso il Covid, fra l’altro. Quando si è ripreso ha mixato i pezzi, a Los Angeles, fra febbraio e marzo. Da lì, però, è partita l’apocalisse della pandemia… noi siamo rimasti un po’ lì a pensare sul da farsi, abbiamo provato ad aspettare tenendolo in cantiere quasi un anno. Ma alla fine non ce l’abbiamo più fatta: secondo noi non aveva senso attendere ancora, nella speranza di ricominciare a suonare in giro e fare promozione… e se le cose ripartissero fra tre anni? Magari allora saremo pure morti e non ci saremo più! (ridono)”.

Sono quindi pezzi che hanno più di un anno, questi.

“Sì, infatti non ci siamo mai fermati, abbiamo continuato a scrivere cose nuove. È anche per questo che non aveva proprio senso attendere ancora per pubblicare il disco”.

I due album precedenti sono usciti per Voodoo Rhythm di Rev. Beatman, ora siete passati all’italianissima Goodfellas. Come mai questo cambio?

“Sinceramente è una cosa che è venuta naturale a tutte le parti coinvolte. A noi non è mai piaciuto avere dei “rapporti a lungo termine”… diciamo che cambiando non è che per forza si cresce, però se non si cambia non si prova mai a crescere. Quindi dopo avere fatto le cose nello stesso modo, con la stessa etichetta, per i primi due dischi, abbiamo sentito il bisogno di nuovi stimoli. Abbiamo anche ampliato un po’ i nostri orizzonti musicali, cambiato produttore: ci sembrava quasi fisiologico cambiare anche etichetta. Comunque con Goodfellas avevamo già lavorato in precedenza, perché si occupava della distribuzione in Italia dei nostri dischi su Voodoo Rhythm e ci siamo sempre trovati molto bene con loro. Siamo comunque ancora in ottimi rapporti con Beatman: anche nell’ultimo tour che siamo riusciti a fare in Svizzera a ottobre – prima che richiudessero tutto per la seconda ondata Covid – abbiamo suonato con lui e con altri gruppi Voodoo Rhythm”.

Avete accennato a un allargamento degli orizzonti musicali. In effetti Beast Must Regret Nothing mi pare un po’ meno violento e feroce – è più pensato, emotivo, con sfumature più evidenti, pur non snaturando il vostro genere e sound.

“In effetti bisogna tenere conto del fatto che i primi due dischi sono stati fatti in pochissimo tempo: registrati, mixati e impacchettati in tre giorni al massimo. Ed erano frutto dell’urgenza che ci muoveva… sono usciti fuori di getto, in tutti i sensi. Per questo nuovo album abbiamo investito molto più tempo in studio – abbiamo registrato in 15 giorni – e il mixaggio è stato fatto negli USA dedicandoci tempo e maggiore cura. Poi sono un po’ mutati i nostri ascolti”.

Alain Johannes ha partecipato in qualche modo alla stesura dei brani o vi ha guidati?

“Abbiamo scritto un solo pezzo in studio, con Alain – la title track. Tutti gli altri brani esistevano già e sono un po’ il risultato dell’evoluzione che abbiamo avuto negli ultimi anni di vita e di musica. Lui ci ha aiutato negli arrangiamenti e ha suonato alcune parti in studio”.

Nel disco nuovo c’è un pezzo – che a me piace molto, fra l’altro, per quel che conta – intitolato “I Appeared To The Madonna”: una citazione di Carmelo Bene. Da dove vi è venuta l’idea?

“Lui per noi è come una divinità… o qualcosa del genere! Siamo molto appassionati di teatro, oltre che di musica. Mettendo da parte per un momento l’aspetto palesemente provocatorio di Bene, che l’ha reso famoso presso i più, a noi ha sempre colpito – e ci ha molto interessato – il suo studio dei suoni e dell’aspetto musicale del suo teatro. Per la maggior parte dei critici italiani lui era semplicemente “l’antipatico”, ma c’è tantissimo in più. Grazie a lui abbiamo scoperto anche tante letture che ci hanno affascinato: Lacan, diversi filosofi nichilisti, Emil Cioran… insomma Carmelo Bene è proprio nelle nostre corde, così come lo sono il blues e il rock’n’roll. E il rock’n’roll è anche Carmelo Bene. Poi era doveroso omaggiarlo, per noi, perché è un personaggio che è morto dimenticato e mai veramente capito – ed è un vero peccato, perché ha rappresentato un aspetto fondamentale della storia culturale italiana”.

Nel corso degli ultimi 5-6 anni ho visto che avete avuto un’attività live fortissima – tanti concerti e tour. La domanda sorge spontanea, come diceva Lubrano: riuscite a vivere della vostra musica, pur non proponendo un genere facile o commerciale, oppure avete anche dei lavori “regolari”?

“Siamo, anche se la parola non ci piace molto e non la vorremmo dire, dei “mestieranti” (ridono). No, non lavoriamo: da quando abbiamo formato i Devils abbiamo abbandonato qualsiasi tipo attività lavorativa e situazioni legate alla vita personale. Ci siamo dedicati solo a questo, alla musica e a suonare il più possibile: siamo diventati i Devils… e basta!”

È una cosa rara, qui da noi.

“Infatti suoniamo più all’estero che in Italia. In tutta onestà riusciamo a campare della nostra musica perché suoniamo un sacco fuori dall’Italia… se avessimo dovuto tirare avanti solo con le cose fatte in Italia, non ce l’avremmo mai fatta a vivere di musica. Certo, se continua così, con la pandemia, fra non molto dovremo inventarci qualcosa… prostituirci, darci al crimine…” (ridono)

Veniamo a Mark Lanegan. Ovviamente non è venuto in studio con voi, ma avete avuto modo di sentirlo, avete avuto qualche contatto con lui?

“No, nessuno, Mai. Non abbiamo avuto l’opportunità di ringraziarlo, ma nemmeno il coraggio di farlo! Pensa che livello! Quando eravamo in studio a Napoli, Alain gli fece sentire le nostre registrazioni, e Lanegan ne fu entusiasta. Lanegan non è il tipo che fa featuring con chiunque, è davvero ultraselettivo e questo è risaputo. Quando Alain stava missando il disco a Los Angeles e gli ha proposto questa collaborazione, non riuscivamo a credere che lui avesse accettato. Alain ha fatto sempre da tramite tra noi e lui per la sua partecipazione a Devil Whistle Don’t Sing

Mi pare di avere notato un cambio di direzione a livello di immagine: il prete e la suora sono stati sostituiti da un look da biker movie/sexploitation. Come mai?

“Abbiamo deciso di andare direttamente alla fonte: prima per noi il “male” erano i preti, le suore, la Chiesa… ora siamo arrivati al nocciolo. Direttamente all’uomo”.

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