Home Speciali Speciale Beastie Boys: le canzoni scelte dalla redazione di Rumore

Speciale Beastie Boys: le canzoni scelte dalla redazione di Rumore

0

Il numero estivo di Rumore luglio/agosto 2020 (lo trovate tra gli arretrati) aveva in copertina i Beastie Boys con la speciale intervista al quarto beasties Money Mark, a cura di Luca Gricinella. I ragazzacci bestiali sono stati il motore newyorkese fondamentale che ha saputo unire hardcore, rock e rap come nessun altro al mondo. Una band che ha ricodificato non solo un immaginario hip hop, ma proprio un’idea di inclusione di generi, di culture, di approccio e attitudine. Adam Yauch (MCA), Michael Diamond (Mike D) e Adam Horovitz (Ad-Rock) erano assieme un qualcosa di unico che funzionava solo perché erano loro. Uno di quei super robot invincibili – e qui il video di Intergalactic sembra fatto apposta. Spesso demenziali, casinari, con uno spiccato senso per le freddure. Prendersi sul serio era l’ultima delle preoccupazioni, ma cercare di evolversi di disco in disco era una loro ossessione, ovviamente tra una gag e l’altra. Hanno incontrato sul loro percorso eccellenti produttori, musicisti e beatmaker riuscendo a completarsi; arrivando oltre, dove altri non avevano provato, rischiando quasi sempre. Teste matte con cognizione. Agli inizi diremmo un 80%-20% ma poi le percentuali si sono bilanciate col tempo. A raccontarli recentemente è stato Spike Jonze che nel 2020 ha pubblicato un libro di foto e diretto il documentario ufficiale del trio in esclusiva per Apple Tv, e qui nell’editoriale dove si racconta la nascita della copertina di To The 5 Boroughs. Ora siamo orfani di MCA da alcuni anni, e di conseguenza dei BB, ma il loro mondo costruito su amicizia, rap e hardcore è ancora così vasto che ci sarebbe molto altro da dire. (Nicholas David Altea)

(estratto dal numero di luglio/agosto)

1 (You Gotta) Fight For Your Right (To Party!) (Licensed to Ill, 1986)

Certo, le cose non vanno sempre come uno s’aspetta. Magari lo avrà pensato Bruce Springsteen, guardando l’edonismo reganiano di metà anni 80 impadronirsi dei versi disillusi di Born In The USA, per farne passerella di lustrini. Lo avranno pensato Adam Yauch e il suo compare Tommy Cushman (un’imberbe costola hard rock dei Beasties, con Cushman alla chitarra e Yauch al basso, appunto), vedendo il destino di quella beffarda parodia di party songs per universitari americani che è Fight For Your Right (To Party). Dovevano essere versi spruzzati come inchiostro (non tanto) simpatico, in faccia agli eserciti di frat boys dei college, derisi per il loro encefalogramma abbattuto da sbronze e testosterone mal gestito. No, le cose non vanno sempre come uno s’aspetterebbe. Uscito come quarto singolo tratto dall’esordio Licensed To Ill, nel 1986 (il lato B era Paul Revere), l’insana creatura viene schizzata come un proiettile nelle stanze della gioventù di mezzo mondo, dal celebre video girato da Ric Menello e Adam Dubin. I tre Beasties diventano le icone paradossali del party hard menefreghista. Fra citazioni dell’inevitabile Animal House (film di John Landis del 1978, bibbia delle commedie universitarie USA) e il tanfo di uova marce risultante dalla mega battaglia a torte in faccia sul set, Rick Rubin (che produce il pezzo) perfeziona il matrimonio fra chitarroni e rap, già testato con successo l’anno prima con Walk This Way dei Run DMC. A Marzo ’87 la top ten americana viene conquistata, proprio grazie alla propulsione di quella comunità adolescente, che doveva essere il bersaglio del pezzo. Da quel momento i Beasties faranno di tutto per rinnegare l’iconica immagine da furfanti white trash del video, cominciando a massacrare il testo durante il tour del 1987. L’inno apocrifo viene offerto al pubblico in modo sempre più estremo, con tanto di danzatrici seminude in gabbia e birra buttata sulle teste del pubblico. La burla che diventa un esercizio quasi disperato di distruzione di un’immagine non voluta. Non la risuoneranno mai più dal vivo dopo quel 1987. Ci torneranno solo nel 2011, con un mini film surreale (Fight for Your Right Revisited) che ipotizza un possibile dopo festa. L’urlo sardonico (Partyyyyyyy!) solo un’eco. (Mauro Fenoglio)

2 No Sleep Till Brooklyn (Licensed to Ill, 1986)

Se l’attacco del pezzo non vi suscita un brivido, se non alzate immediatamente il volume a mille per gridare “Broooooooklyyyyn!” beh, lasciatevelo dire, siete delle brutte persone. Siamo solo nel 1986, anno di lancio della carriera ufficiale, mainstream, del trio, ma qui ci sono già quasi tutti gli elementi che andranno a caratterizzare – e a fare la fortuna – dei Beastie Boys. La cazzonaggine fuori tempo massimo, il gusto per la parodia verso lo status quo musicale, i ritornelli da stadio ed il primo dei tanti omaggi alla loro amatissima New York. La chitarra che subentra da subito, settando il mood del pezzo, è suonata da Kerry King: la sua band, gli eroi del trash metal Slayer, hanno appena dato alle stampe il capolavoro Reign In Blood. Il punto di unione fra questi due universi apparentemente lontanissimi fra loro è Rick Rubin, che produce sia il classico di Araya & company sia License To Ill, l’esordio dei ragazzi bestiali nonché uno dei dischi maggiormente celebrati degli ultimi 40 anni. Assieme a  Fight For Your Right compone la deriva chitarrosa di album rappuso: non certo una novità, considerando che i suoni grezzi hanno accompagnato i primi passi della band, quando questa era ancora un quartetto (con Kate Schellenbach alla batteria) e suonava punk hardcore. Gli anni ’80 sono anche quelli in cui la musica si fa immagine e questo pezzo non fa differenza: il video che accompagna la canzone, e che diventerà una vera e propria icona di Mtv, ironizza sul genere allora dominante – l’hair metal – ma anche sulla diffidenza dei gestori di club verso il rap, stile che proprio in quegli anni stava finalizzando la propria transizione da intuizione di strada a tiranno delle classifiche. Il pezzo, amato tanto dalla band quanto dai fan, diventerà il brano di chiusura di ogni concerto, entrando nelle scalette dei live per non uscirvi più. (Davide Agazzi)

3 So What’cha Want (Check Your Head, 1992)

So What’cha Want è il secondo singolo dell’album che ha finalmente portato i Beastie Boys a guardare in faccia un pubblico vicino al loro modo di essere, Check Your Head. Dopo il boom di Licensed to Ill e il flop commerciale di Paul’s Boutique, il nuovo corso inizia ufficialmente con un biglietto da visita che trasuda hip hop a ogni rima, Pass The Mic. Due mesi dopo, a disco ormai uscito e tour già in corso, si punta invece su questa canzone che, durante le registrazioni, ha fatto dire ai ragazzi insieme a Money Mark e, soprattutto, al produttore musicale eletto, Mario Caldato Jr., “ok, ci siamo, l’album adesso è pronto”. Sporcando il groove di I’ve Been Watching You dei Southside Movement (pezzo che, negli anni, è stato campionato da vari artisti), il trio rilancia proprio l’attitudine di Pass The Mic: MCA, Mike D e Ad-Rock ribadiscono tutta l’abilità nell’incastro delle voci che, alternandosi, rendono il brano quanto mai dinamico, e aggiungono buone dosi di ruvidezza e sana insolenza, parti fondamentali della loro formazione adolescenziale che, nel video psichedelico di Nathanial Hörnblowér (l’alter ego di culto di MCA), sono ancora più accentuate anche grazie a quelle movenze che stanno diventando un loro marchio di fabbrica. Non a caso So What’cha Want diventerà presto e resterà una delle hit dell’intera discografia della band, molto amata dai fedelissimi, seconda, forse, solo a Sabotage (che arriverà un anno e mezzo dopo anticipando l’album “gemello”, Ill Communication). Notevoli anche il remix firmato Soul Assassin con la strofa finale di B-Real che ammonisce su un tema a lui molto caro (“So, keep your hands off the hash!”) e lo skit fantasma alla fine del Root Down EP in cui appare a sorpresa il beat del brano in tutta la sua compattezza però attraversato da rime in giapponese, probabilmente rubate a un programma radiofonico nipponico dedicato a MCA, Mike D e Ad-Rock. Tanto per non dimenticarsi che, con i Beastie Boys, la risata è sempre in agguato. (Luca Gricinella)

4 Sabotage (Ill Communication, 1994)

Pochissimi brani di Ill Communication sono arrivati pronti in studio per essere registrati. Mario Caldato Jr, meglio conosciuto come Mario C, era il produttore insieme alla band, oltre che ingegnere del suono e mixer del quarto disco. Storico amico di Money Mark (tastierista dei Beastie Boys) con cui ebbe uno studio assieme e in cui mossero i primi passi, Mario Caldato Jr è stato in parte l’artefice della nascita a doppia ripresa di Sabotage. Mentre la band era in studio al Tin Pan Alley, Adam Yauch giocando con il pedale superfuzz del basso tira fuori questo riff e lo prova per un po’. Ad un certo punto si aggiunge il percussionista Eric Bobo con i timbales, poi Mike D alla batteria spinto da Mario C segue il ritmo; Money Mark attacca con una nota sull’hammond marchiato Leslie e infine Adam Horovitz ci aggiunge un accordo rock di chitarra.

Sabotage è stato il primo pezzo registrato per quell’album ma era solo strumentale, senza un senso, senza un’idea per il testo o il tema. Era nato semplicemente da una jam session e aveva un difetto: era troppo rock per i Beastie Boys che volevano non ripetersi come in passato. Ad-Rock (Adam Horovitz) provò a metterci la voce ma non funzionò. Rimase lì, nel limbo, mentre si andava avanti con campioni e registrazioni di Ill Communication. A due settimane dalla chiusura del disco, Sabotage non ci sarebbe stata. Ad-Rock però questa volta pensa di avere l’illuminazione e va direttamente a casa di Mario C per registrare la voce. Sbam! Era perfetto: pronto in due take il rappato su un microfono Sennheiser MD 421. Coro aggiunto successivamente, due aggiustamenti e il pezzo diventa una bomba a orologeria pronta a esplodere il 28 gennaio 1994. A tutto questo aggiungeteci un video-parodia clamoroso in stile telefilm americano poliziesco anni 70 con baffi e capelli finti, occhiali Ray-Ban Aviator d’ordinanza, pistole, macchine e inseguimenti; il tutto diretto da Spike Jonze e perfino censurato: “Listen all’a’y’all, it’s a sabotage”. (Nicholas David Altea)

5 Three Mc’s and One Dj (Hello Nasty, 1999)

Siamo nel 1998 e la band ha già in curriculum una morte e una risurrezione commerciale – ma anche, in generale, la sensazione di aver vissuto tre vite. L’ultimo disco lungo uscito è Ill Communication, vecchio di quattro anni, e la sensazione – anche visti gli spin-off usciti nel frattempo – è che i Beastie Boys torneranno sul mercato con un’opera ancor più complessa e stratificata, magari un disco strumentale, magari il disco crossover definitivo. La band ha un’altra idea in testa, e una dichiarazione programmatica già pronta: “we’re just three mcs and one dj“.

La band ha incontrato MixMaster Mike (colonna degli Invisibl Skratch Piklz) poco prima di iniziare i lavori per quello che diventerà Hello Nasty. Lui è un blasonatissimo supereroe del giradischi, i Beasties una band che sta cercando di capire a cosa porterà la nuova mutazione. Il mondo se n’è andato avanti per conto proprio, l’hip hop americano ha da poco risolto il conflitto Death Row/Bad Boy lasciando per terra i cadaveri di Pac e Biggie, c’è il rap-metal, ci sono le canzoni ultrapop coi ritornelli. La perizia strumentale di MixMaster Mike apre lo spazio per qualche momento roots: tre microfoni e un mixer, una base da far paura, le liriche picaresche dei tre, e via andare. È un periodo bizzarro, voglio dire, l’aria che tira è bizzarra. I Beasties di Ill Communication erano ancora percepiti come un’avanguardia musicale, quelli di Hello Nasty reclamano per la prima volta (e con un orgoglio commovente) le loro credenziali old skool.  Finisce così che Three Mc’s and One Dj diventerà il pezzo-simbolo della maturità del gruppo, l’inno all’hip hop della band, e decisamente uno dei pezzi favoriti dei Beastie Boys, di cui gireranno un video eccezionale e che terranno in scaletta dal vivo fino all’ultima data del gruppo. (Francesco Farabegoli)

6 An Open Letter To NYC (To The 5 Boroughs, 2004)

Ho sempre avuto un debole per le grandi città: Milano (nel mio piccolo), Berlino, Istanbul, New York. Infatti appena ho potuto mi sono trasferito nella prima, pur abitando un paio di km fuori dai suoi confini e, ogni volta che ne ho avuto l’occasione, ho passato diversi giorni nell’ultima, che è la più grande città del mondo, non per dimensioni ma per importanza. Organismi viventi costituiti da una moltitudine di persone e infrastrutture che interagendo fra loro costruiscono un universo complesso e articolato fatto di relazioni, regole, problemi, soluzioni, idee, cultura e civiltà. Perché le città questo sono: la culla della nostra civiltà e della nostra cultura. Un luogo dove persone molto diverse e idee molto diverse vengono a contatto fra loro, si mischiano e diventano qualcosa di nuovo, migliore. An Open Letter To NYC è una lettera d’amore, ma non solo, al luogo che più di ogni altro incarna tutto questo. Una lettera dedicata a una città ferita e impaurita dagli attacchi dell’11 settembre, dove ogni persona di origine araba era (è?) vista come potenziale terrorista. I Beastie Boys, che lì hanno vissuto quasi tutta la vita, vogliono ricordare alla loro città i motivi per cui le sono così affezionati e il pezzo è un inno a quello che NY ha sempre rappresentato, prima di quel giorno che ha cambiato tutto. Oltre a passare in rassegna tutti i luoghi più significativi, An Open Letter To NYC si rivolge ai suoi abitanti e diventa soprattutto un inno all’unione, all’antirazzismo, alla diversità come valore aggiunto e all’accoglienza: “Asiatici, mediorientali, neri bianchi, New York tu lo fai succedere”, “Una casa per molti, non hai mai rifiutato nessuno, accetti persone da qualsiasi luogo vengano”, “Grazie per averci dato una casa, dalle tue porte a Ellis Island siamo passati a frotte”. Questa ultima frase è più che mai significativa e dice una cosa tanto semplice quanto potente: qui siamo tutti migranti.

Una sorta di monologo a tre che fa da contraltare a un altro uscito poco prima, che esprime invece un odio equamente distribuito su tutte le etnie di NY, in un perfetto esercizio di politically corrrect al contrario: quello de La 25a Ora di Spike Lee. 

In un momento in cui tutte le grandi città sono ferite, impaurite e stanno vivendo forse il periodo più difficile della loro storia, An Open Letter To NYC diventa più che mai attuale e importante, un pezzo da mandare in diffusione in ogni metropolitana, bus e luogo pubblico, dove si guarda sempre più con sospetto chi ti sta vicino. Per ricordarci che senza le città e i loro abitanti (ma anche chi ci gravita senza viverci) e la naturale propensione di queste all’accoglienza e all’inclusione, la nostra cultura e la nostra civiltà sarebbero immensamente più povere. (Luca Doldi)

Edizione cartacea – Abbonati qui
Edizione digitale – Abbonati qui

Leggi anche gli speciali della redazione su R.E.M., Fugazi, Chris Cornell dei Soundgarden e Grant Hart degli Hüsker Dü.

Exit mobile version