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Intervista ai June of 44: “Con il nostro ritorno diamo una seconda vita alle canzoni che avevamo lasciato in sospeso”

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di Doriana Tozzi

Sono trascorsi ventuno anni da Anahata, ultimo capitolo della “prima vita” dei June of 44 che in soli cinque anni, tra il 1994 e il 1999, contribuirono a scrivere un nuovo capitolo della storia del rock definendo nuove forme di math-rock e slowcore. In realtà proprio quell’ultimo lavoro del quartetto di Louisville aveva lasciato i fan con un po’ d’amaro in bocca, con quelle otto tracce prodotte e partorite troppo velocemente e che, pur mantenendo il loro approccio non convenzionale, non erano all’altezza dei lavori precedenti. Eppure proprio a quel disco era spettato l’arduo e indegno compito di mettere il punto ad una carriera fino a quel momento costellata di scintille di genialità in grado di infuocare le mirabolanti architetture strumentali della band. Fortunatamente, anche se a distanza di circa 20 anni, oggi il discorso riprende esattamente dal punto in cui si era interrotto, rivisitando alcuni episodi di quel periodo alla luce delle esperienze maturate dai singoli membri del gruppo in questi ultimi due decenni e allo stesso tempo guardando al futuro. Galeotto, per il loro ritorno sulle scene, fu il concerto svoltosi a Catania nel 2018 per festeggiare il 30° compleanno degli Uzeda, da tempo amici del combo americano. Per quell’occasione Jeff Mueller, Sean Meadows, Fred Erskine e Doug Scharin si sono ritrovati e hanno deciso di far rinascere la band dalle ceneri di Anahata, approfittando dell’occasione del concerto per rimettersi a lavoro sui brani che maggiormente meritavano una seconda chance. Si inaugura così la seconda vita della band, di cui Revisionist: Adaptations & Future Histories In The Time Of Love And Survival, distribuito in Europa da La Tempesta e in America da Broken Clover, sancisce la prima prova su disco. Di questo nuovo disco, delle collaborazioni e degli ultimi 20 anni chiacchieriamo con Jeff e Sean in questa intervista.

Quando uscì Anahata sembrava che steste cominciando a sperimentare le estreme conseguenze della contaminazione tra suoni e ritmi sempre più disparati ma poi avete sciolto la band. I diversi elementi che si incontrano in questo LP si possono definire secondo voi un modo per riprendere il discorso da dove lo avevate lasciato oppure preferite considerare questo lavoro un nuovo inizio?

Jeff Mueller: “Dopo i nostri primi 3 o 4 dischi era chiaro che avevamo bisogno di cambiare direzione se volevamo mantenere il nostro equilibrio creativo, cercando di attingere più diplomaticamente da ciascuna delle nostre preferenze e approcci. All’inizio l’estetica della scrittura delle nostre canzoni era in gran parte guidata dalla mia passione per l’ambiente musicale di Louisville e Chicago e dalle reazioni che le idee di Sean sui contenuti provocavano in ognuno di noi. La scrittura di Anahata è stata estremamente difficile per me che non sono un chitarrista dotato di troppa immaginazione, sono un po’ goffo e preferisco fare a modo mio come musicista, facendo affidamento soprattutto sulle sensazioni e sulle emozioni. Fred e Doug invece sono musicisti straordinari ed è una fortuna suonare con loro, benché mentre lavoravamo alle canzoni di Anahata, su idee provenienti da nastri con bozze di canzoni non sviluppate provenienti da registrazioni improvvisate, a volte non riuscivo a tenere il passo con loro. Loro vanno a 100 miglia all’ora e a me ci vuole molto più tempo per sviluppare le mie parti e accompagnare le idee degli altri. Dal mio punto di vista non eravamo affatto pronti per registrare quell’album, ma per le necessità dettate dal tempo riservato in studio e le esigenze del calendario siamo andati avanti lo stesso con le sessions. Secondo me è stato il lavoro più disordinato e meno riuscito della nostra discografia, perfino Fishtank (si riferisce a In the Fishtank 6, del 1999, sesto EP della serie ideata dall’etichetta indipendente Konkurrent, che dal 1996 al 2009 ha invitato alcune band a registrare EP di 20 – 30 minuti durante i loro tour in Olanda, ndr), che è stato scritto, registrato e mixato in soli due giorni, è più organizzato”.

Avete dichiarato che, sebbene in questo lavoro ci siano “revisioni” e “adattamenti” (rubando due parole del titolo) di canzoni già pubblicate, nonché remix e outtakes, la considerate completamente “nuova musica”. C’è un brano su tutti che secondo voi sancisce più degli altri il distacco dalle vecchie versioni?

Jeff Mueller: “Personalmente non lo considero tutto completamente nuovo. Il nostro amico Jay Ryan (bassista dei Dianogah nonché autore di poster e illustratore, ndr) ha dichiarato che alcune delle nostre canzoni sono cresciute e migliorate molto dopo che le abbiamo suonate per alcuni mesi dopo averle registrate. Il nostro processo è sempre stato quello di scrivere e registrare in tempi davvero molto brevi, nella maggior parte dei casi, nei nostri primi dischi, c’era giusto una struttura iniziale della canzone che ci aiutava a orientarci verso un arrangiamento completo e funzionale. Su Anahata, come accennato poco fa, abbiamo iniziato con gli scarti e alcune canzoni riuscivamo a malapena a suonarle prima di registrarle. Quando abbiamo ricominciato nel 2018, abbiamo concordato collettivamente che comunque almeno due canzoni di Anahata erano migliorate molto con il tempo, ReRecorded Syntax e No Escape, Levitate in particolare, mentre altri brani al di fuori di quell’album così come il disco Fishtank si erano sviluppati in canzoni significativamente diverse. Quando Sean ha suggerito di prendere in considerazione un album composto da materiale rielaborato, è stato logico per noi includere tutto ciò che sembrava più forte, sviluppato o suonato significativamente meglio rispetto a quelle ultime due uscite. Se dovessi scegliere una singola traccia che affermi il concetto del disco direi Cardiac Atlas“.

Personalmente invece ho riconosciuto una svolta maggiore in un pezzo come A chance to cure is a chance to cut your face remixato dai Matmos, dove fondete atmosfere elettroniche con situazioni noise in cui rumori e ritagli sonori schizofrenici creano effetti ipnotici. Proprio a questo pezzo tra l’altro avete deciso di affidare l’apertura del disco. Qual è stata la ragione di aprire il sipario sulla vostra seconda vita artistica con un pezzo così potente?

S.M.: “Speravamo di espandere concettualmente quello che rappresenta la musica dei June of 44 e come viene realizzata. Siamo sempre stati costantemente sperimentali nel nostro approccio ed eravamo entusiasti di coinvolgere i Matmos per il loro modo di creare avventure sonore e per il modo in cui si approcciano al suono in generale, che non potrebbe essere più diverso da ciò che fanno i June of 44. Volevamo che la gente pensasse alla nostra musica in modo nuovo e i Matmos hanno davvero compreso le nostre intenzioni, siamo entusiasti per come hanno rivisto il nostro brano”.

J.M.: “All’inizio degli anni 90 ho collaborato con Drew dei Matmos in una band electro-rap e ci siamo incrociati più volte negli scorsi… ehm, 30 anni ormai! Abbiamo sempre cercato di rimanere in contatto e aggiornarci sui nostri reciproci nuovi progetti. Quando è venuta fuori l’idea di far remixare la versione inedita di Cut your face, del 1996, ci è venuto spontaneo pensare a loro. Adoro quello che fanno. Aggiungo alla risposta di Sean, per quanto riguarda il posizionamento nella tracklist dei remix di Matmos e di John (McEntire dei Tortoise, ndr), che la loro posizione non è affatto casuale. Sarebbe stato ovvio, per questo tipo di contributi, inserirli alla fine di ogni lato, ma eravamo così entusiasti di ciò che ognuno di loro ha fatto, nonché grati per la loro generosità, che abbiamo pensato di mettere invece proprio le loro canzoni in primo piano su entrambi i lati, sfidando le aspettative, nel bene e nel male!”

D’altra parte a voi è sempre piaciuto andare controcorrente. Tornando alle novità di questo disco, inoltre, un’altra cosa che si nota subito sono i suoni più potenti e aggressivi rispetto al passato ma anche molto più definiti, sia per quanto riguarda gli strumenti che per la voce. Non credo sia solo merito delle tecniche di registrazione più avanzate rispetto agli anni 90. Avete cercato un maggior impatto, oltre a curare le architetture dei brani?

J.M.: “Prima di tutto grazie per averlo notato. È stato un onore registrare con David Lenci, ha fatto un ottimo lavoro catturando l’energia che speravamo di sprigionare con la sessione. Sulla base della tua affermazione sembra quindi che abbia fatto un lavoro perfetto. Le tecniche di registrazione che abbiamo utilizzato erano in realtà abbastanza simili a quelle degli anni 90, dato che le tracce base erano tutte registrate in analogico su nastro da 2″, infatti i miei amplificatori per chitarra erano più piccoli e molto più vecchi di qualsiasi cosa con cui avessi mai registrato! Per quanto riguarda la definizione negli strumenti e nella voce, personalmente ho lavorato molto sulla chiarezza della mia chitarra e della mia voce e forse ciò ha contribuito a definire in maniera più forte questi elementi”.

S.M.: “Sì, eravamo entusiasti di lavorare con David Lenci e infatti gran parte della qualità della registrazione è influenzata proprio dall’approccio di David nel registrarci dal vivo. Nel momento in cui stavamo registrando, abbiamo cercato di suonare le canzoni in maniera tale da poter ottenere i suoni giusti. Questo disco in realtà è piuttosto semplice per come è stato registrato, ci sono una quantità minima di sovraincisioni. Piuttosto abbiamo preferito concentrarci sull’espressività dei suoni”.

Di un paio di rivisitazioni mi piacerebbe conoscere l’evoluzione. La prima è quella di Cardiac Atlas, che Jeff ha nominato prima. In questa nuova versione gli arrangiamenti diventano minimali e oscuri e il brano si dipana per circa 7 minuti. Il secondo è Post-Modern Hereditary Dance Steps, che, come lascia presagire il “post” inserito prima del titolo originale, sfonda i confini del post-punk (durando anche la metà dell’originale). Come si sono sviluppate queste “revisioni”?

J.M.: “L’evoluzione di Cardiac Atlas può essere in gran parte attribuita alla sala prove del nostro amico Diego a Bologna. Mentre stavamo provando lì, nel 2019, quasi tutte le nostre canzoni suonavano diverse e migliori, la stanza era semplicemente perfetta. Ho sempre voluto cambiare un po’ l’atmosfera di Cardiac Atlas, darle più distensione, tranquillità, per dare più spazio alla voce e alla storia che la canzone cerca di raccontare. Fred aveva alcune idee sulla voce, Doug aveva delle idee sull’arrangiamento, volevamo tutti che le parti di chitarra di Sean saltassero fuori un po’ di più rispetto alla versione precedente… è stato un flusso continuo di ispirazioni. Probabilmente continueremo ancora a lavorarci anche in futuro! Post-Modern Hereditary Dance Steps era originariamente su Fishtank ma la lunghezza del brano in quel disco era determinata dalle modalità di quella sessione, dal collage di strumenti e dal montaggio, ed è largamente influenzata da Zlaya, l’ingegnere del suono con cui abbiamo lavorato all’epoca. Quando adattammo la canzone a quel live set, le idee di arrangiamento originali e la lunghezza complessiva hanno ridotto la sensazione di urgenza che avrebbe dovuto dare più vitalità al brano”.

A parte un outtake del ’96, la selezione dei pezzi riguarda i vostri episodi più recenti. Come mai non avete rimaneggiato anche qualcosa dei vostri primi album?

J.M.: “Parlando per me stesso, come ho anche fatto capire prima, le versioni originali dei primi album mi piacevano invece quelle di queste canzoni non mi sono mai sembrate complete sin dall’inizio e quindi questo è stato un modo per dar loro una seconda vita”.

Prima abbiamo solo velocemente citato John McEntire dei Tortoise, produttore del disco e artefice di uno dei due remix, oltre a quello dei Matmos. Come l’avete coinvolto nel progetto?

J.M.: “Noi abbiamo sempre cercato tramite i nostri dischi di attirare nuovi ascoltatori anche se a volte questo voleva dire perdere i precedenti! Quando Mickey (Darius, della Broken Clover Records, ndr) si è offerto di lavorare a un album con noi, la sua idea di realizzare per noi qualcosa di insolito combaciava perfettamente con i progetti sui quali stavamo già lavorando. Come ha accennato Sean prima, il nostro intento, forse con questa release più che con qualsiasi altra, era di stravolgere l’idea che si può avere di un disco dei June of 44, oltre ovviamente a rivisitare quello che consideravamo un lavoro incompiuto. E nessun disco poteva quindi essere più strano e adatto di questo per coinvolgere personalità come quella di John, già immerso nei nostri mix, e dei Matmos, con cui già volevamo collaborare da tempo. Non c’era momento migliore per chiedere la loro collaborazione e siamo felicissimi che abbiano accettato!”

Avete un bel rapporto con il nostro paese, visto che, oltre ad aver deciso di tornare insieme proprio in occasione del concerto di Catania di cui parlavamo prima, avete anche inserito in questo lavoro un contributo di Massimo Mosca dei Three Second Kiss che recita in italiano dei versi scritti per voi alla fine di A past to face. A parte gli Uzeda e i Three Second Kiss, quali altri artisti italiani vi piacciono?

J.M.: “C’è una band di Ostia chiamata Zu di cui sono sempre stato un fan. Poi ci sono i Tapso II di Catania che fanno musica molto bella. Sacha Tilotta inoltre ha recentemente pubblicato un disco davvero bellissimo intitolato Crash at Corona, disponibile su Bandcamp. È davvero bellissimo. È stato registrato durante il lockdown per il coronavirus, qualche mese fa”.
S.M.: “Ci sono molti musicisti e artisti italiani che amo. Ad esempio amo davvero tantissimo la scrittura e le sonorità sognanti dei Verdena“.

Qual è stato il cambiamento che vi è piaciuto di più nella musica in questi ultimi 20 anni e cosa invece ritenete sia peggiorato rispetto alla vostra “prima vita”?

J.M.: “Quando con la band ci siamo fermati, la musica in streaming era appena nata: il suo contributo vigoroso ed efficace alla distruzione della comunità di negozi di dischi ed etichette indipendenti un tempo fiorenti è stata di gran lunga la cosa peggiore che è successa alla musica in questo periodo. Ironia della sorte, lo streaming ha reso però accessibile un’incommensurabile mole di musica diffondendo un’infinita varietà di artisti che altrimenti non avrebbero avuto modo di farsi ascoltare. Una delle cose più grandi che sono successe negli ultimi 20 anni, invece, sono i Girls Rock Camps organizzati in tutto il mondo, in cui giovani ragazze possono esprimersi liberamente attraverso la musica, che diventa un mezzo per sensibilizzare nei confronti della disuguaglianza di genere. Quale modo migliore c’è che consegnare loro una chitarra o un microfono e lasciare che facciano sentire a gran voce i loro punti di vista?”

Purtroppo in Italia i Girls Rock Camps non sono ancora arrivati e anzi speriamo che a qualcuno, leggendo questa intervista, possa venir voglia di organizzarli. Ad ogni modo, passando dal passato al futuro, mi viene in mente che quel “future histories” nel titolo di questo disco fa pensare che ci saranno molte altre “storie future”. Possiamo sperare quindi in un vostro prossimo album di inediti?

S.M.: “Lo speriamo anche noi. Suonare la nostra musica, questa del passato ma anche la musica futura, è quello che ci piacerebbe poter fare sempre”.

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