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Intervista a The Dining Rooms: “I gatti sono belli, autonomi, liberi e affascinanti e non ti puoi mai fidare completamente di loro”

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di Mauro Fenoglio

Un sodalizio nato nella comunità alternativa milanese di fine anni 80. Stefano Ghittoni (Subterranean Dining Rooms e Peter Sellers and The Hollywood Party) e Cesare Malfatti (La Crus). Dall’esordio nel 1999 (Subterranean Modern, Vol. 1), l’ostinata ricerca dell’eleganza come segno distintivo, che vada oltre il puro vezzo stilistico. Partendo dalla lezione del trip hop sulla lentezza come motore, l’arte della sovrapposizione dei campioni, il velluto dell’elettronica morbida europea di fine secolo e il jazz assimilato dai grandi del passato. Un metodo di lavoro che si consolida nel tempo, attraverso piccole variazioni, nuove possibilità ed ispirazioni. Senza mai preoccuparsi davvero di dover dichiarare alcuna appartenenza geografica e senza chiudersi all’arricchimento che portano le collaborazioni con altri. Ghittoni e Malfatti, The Dining Rooms, attraversano insieme 11 album (incluse le raccolte di remix), l’alba e il crepuscolo di quello che abbiamo conosciuto come downtempo, per giungere al nuovo Art Is The Cat, appena pubblicato e disco italiano del mese di Rumore a gennaio 2020. Eleganza inalterata e interventi vocali più numerosi, rispetto al passato. C’è anche il primo pezzo in lingua italiana. Album italiano per pura casualità, diranno loro, così poco interessati (per fortuna!) alle dinamiche musicali dello stivale. Ma questa volta, accanto alla conferma della certificata cura per composizione e arrangiamento, cifra aurea del duo, le suggestioni del disco, forse inconsapevolmente, tracciano nuove linee immaginarie, per avvicinarli idealmente alla grande composizione strumentale italiana degli anni 70. Art Is A Cat s’affaccia al balcone delle bellezze della miglior tradizione italiana, con elegante discrezione e senza ossessione alcuna. Una meravigliosa casualità? Ne parliamo direttamente con loro.

I Dining Rooms suoneranno al Viva! Festival in Valle d’Itria, in Puglia.

Ho notato che il nuovo disco vira in maniera più decisa sul formato canzone (con interventi vocali) rispetto al passato. Era la direzione che volevate prendere? Se sì, perché?

Cesare Malfatti: “La deriva verso la forma canzone non è stata una scelta premeditata, avevamo molti esperimenti che sarebbero poi rimasti strumentali mentre in altri il mio tentativo di trovare alcune variazioni sul campione principale ha portato Stefano a trovare una melodia cantabile. Inoltre, due brani cantati da Sean erano due mie precedenti canzoni. Un brano cantato da Georgeanne era una canzone sviluppata da Jake Reid su un vecchio brano strumentale Tdr“.
Stefano Ghittoni: “Rispetto all’album precedente, che era interamente strumentale, questo nuovo si pone sulla scia di Experiments in Ambient Soul e Ink, ballate soul e folk inframezzate a strumentali cinematici, a volte anche scuri e sperimentali, questo nuovo album in più ha il numero elevato delle tracce vocali, mai così numerose”.

Cosa significa il titolo Art Is A Cat? (molto intrigante, per altro)

S.G.: “Art Is A Cat è un frammento di uno dei testi che ho scritto per l’album, un testo secondo me molto bello, astratto e profondo ma anche molto reale, con una piccola citazione dei Joy Division nella lirica. Quando stavamo cercando il titolo all’album ho pensato potesse essere bello usare questo gioco di parole. Art Is A Cat è affascinante perché è una frase che apre un mondo anche se probabilmente non significa niente di specifico, o forse significa tutto. I gatti sono belli, autonomi, liberi e affascinanti e non ti puoi mai fidare completamente di loro”.

Il vostro sodalizio è molto oliato, siamo all’ottavo album, credo. Come vi dividete i compiti fra di voi?

C.M.: “Da un paio di album Stefano è diventato molto bravo a utilizzare Ableton Live quindi tutto il lavoro parte da lui, poi tutto arriva a me per risuonare alcuni campioni non utilizzabili e per sviluppare armonicamente queste idee. Successivamente i brani ce li rimandiamo almeno un altro paio di volte o per rivedere le strutture o per aggiungere altri strumenti. Infine, portiamo il tutto in studio per registrare le voci o altri strumenti. Lì si decide tutto e si mixa per arrivare al prodotto finale”.
S. G.: “Il modus operandi è sempre lo stesso ormai da un bel po’. Ci siamo formati nel 1998 ma in realtà lavoravamo insieme anche prima. Diciamo che nella prima fase la mia scrittura/ricerca del sample consisteva soprattutto nella sovrapposizione di dischi attraverso il mixing o immaginarsi il loop che avrei poi realizzato in studio. Da quando ho il mio piccolo home studio, che poi è un laptop fondamentalmente, riesco a sviluppare in modo più concreto le mie idee e quindi riesco a proporre brani molto più sviluppati, gli sketches come mi piace definirli. Ovviamente questo semplifica molto il lavoro in studio, nel senso che riusciamo a ottimizzare al meglio il tempo speso perché arriviamo già sapendo cosa fare, avendo già pre-prodotto tutto in precedenza”.

Come vedete l’evoluzione di quelle musiche che (per oziosa semplicità) inglobiamo nel termine downtempo, dai vostri esordi ad oggi?

S. G.: “Questa è la domanda delle 100 pistole. C’è stata una grande evoluzione perché sono cambiate molte cose. Noi stessi per un periodo ci siamo un po’ staccati dalla formula, per poi ritornarci. Diciamo che c’è stata una globalizzazione del ritmo e quindi tutti i ritmi sono a disposizione, in questo range sta all’artista muoversi. Un artista come Bonobo è l’emblema di questa cosa: partito dalla battuta lenta è ormai quasi una multinazionale dei beat, tanta è la varietà di quelli che usa. Lo stesso si può dire di Four Tet: il suo primo disco era fondamentalmente trip hop. Ormai è diventato praticamente un produttore elettronico molto più spinto. Sono casi che mantengono comunque un’identità. Altri invece si sono un po’ persi. È il caso degli Zero 7, per esempio, partiti da un disco inarrivabile per stile e bellezza, approdati a una cosa che non sai bene cosa sia. Direi che anche qui per muoversi bene, è necessario una grande dose di consapevolezza di quello che si vuole raggiungere. Consapevolezza e attitudine dovrebbero essere la base, per tutte le persone che si muovono nella musica e nell’arte in generale. Purtroppo, molto spesso non è così”.
C. M.: “Non so se la musica downtempo si sta evolvendo, credo che sia un genere con alcune caratteristiche ben definite e se si evolvesse diventerebbe un altro genere”.

Stefano, come ti sei trovato nel ruolo di cantante, dopo tanto tempo che non imbracciavi il microfono?

S. G.: “Ho sempre avuto un rapporto controverso e dialettico con il ruolo di cantante, nel senso che fondamentalmente non mi sono mai considerato tale, anche quando facevo solo quello ai tempi di Peter Sellers and The Hollywood Party. Anzi, penso che il cambio di ruolo, da cantante a ‘produttore/non musicista che suona’ abbia dato longevità alla mia carriera depurandola da tutta una serie di tossine da ansia da prestazione ed egocentrismi vari. Detto questo mi piace cantare, in modo estemporaneo però, fuori dal ruolo consolidato. L’ho fatto ultimamente anche per GDG Modern Trio, progetto ‘milano-ravennate’ che ho con Bruno Dorella e Francesco Giampaoli. Devo dire che mi è sempre venuto naturale abbozzare liriche e melodie sulle tracce. Però fino ad oggi con The Dining Rooms avevo solo scritto e mai interpretato. In questo album mi sono divertito a fare un po’ di tutto, ho rifatto un sample vocale, scritto un paio di testi ed alla fine addirittura cantato un pezzo che mi sembra un po’ la chiusura del cerchio, tra le varie fasi del mio percorso artistico”.

Ci parlate delle vocalist utilizzate per il progetto?

S. G.: “Ci sono molte tracce vocali in questo doppio album, alcune sono voci storiche, che ci hanno accompagnato in questi anni, altre assolute novità. Due canzoni sono cantate da Georgeanne Kalweit, una scritta da lei e l’altra solo interpretata su una lirica scritta da Jake Reid che aveva già cantato con noi ai tempi di Lonesome Traveller. Altri due brani sono con Sean Martin. Originariamente scritti da Cesare, Sean li aveva cantati prima che fossero pubblicati da Cesare in italiano. Una delle due canzoni è stata pubblicata anche su 7” con un remix di Massimo Martellotta dei Calibro 35 nel lato B. Poi ci sono un po’ di cittadini del mondo giusto per farci capire che la nostra società è ormai meticcia, checché ne dicano alcuni pagliacci. L’italo marocchina Rahma Hafsi canta un brano mezzo in inglese e mezzo in arabo. La giovanissima italo salvadoregna Beatrice Velasco Moreno canta tre brani in inglese. Beatrice è un’amica di mio figlio maggiore e l’ho scoperta casualmente mentre stava cantando una canzone nel salotto di casa nostra durante una festicciola tra giovani, ho pensato fosse una voce molto bella e siccome stavamo pensando agli ospiti vocali le ho chiesto se volesse provare a cantare alcune canzoni, che erano già pronte e avevano bisogno solo del cantante. Lola Kola, stilista, cantante, performer e danzatrice, poi canta il primo brano in italiano della nostra produzione, altra intrigante novità”.


Come siete arrivati al primo brano in italiano della vostra carriera?

S. G.: “Ad essere precisi con Cesare avevamo già fatto delle cose cantate in italiano ai tempi di Colori, il mio primo album solista e un brano di quelle sessions, Nera Signora, era stato addirittura usato dai La Crus. Però in effetti per The Dining Rooms è la prima volta ed è anche insolito. È stata una cosa un po’ casuale, un po’ forse, inconsciamente cercata. In una tragica circostanza, dovuta al lutto della mamma di mia moglie, ho ascoltato un brano di una grande interprete italiana che lei le aveva dedicato durante la cerimonia funebre. Questo brano divenne il sample di partenza di uno degli strumentali dell’album con un piccolo frammento di voce, quando il brano fu finito ho pensato poteva essere interessante sviluppare il frammento vocale e farlo diventare una ballad, considerando anche il fatto che uno dei miei brani più belli di sempre è What Does Your Soul Look Like (Part 1) di Dj Shadow (quello con il sample di Gianni Nazzaro per intenderci) a cui l’atmosfera di questo brano, chissà perché, mi riportava. Ho contattato, tramite il mio amico di vecchia data Hugo Sanchez, Lola Kola che avevo conosciuto durante la presentazione del film Ninfa, quello sulla scena musicale femminile del Pigneto, e che sapevo essere parte importante di Tropicantesimo, la serata club creata da Hugo al Fanfulla di Roma, in cui Lola è cantante e performer. Le abbiamo mandato la base, su cui ha sperimentato una parte vocale che mi ha rimandato e che io ho poi ritagliato e editato, facendola diventare una canzone. Siamo molto contenti del risultato finale”.

Pensate di tornare su brani in italiano in futuro? Magari per un album intero?

S. G.: “Onestamente non saprei, personalmente penserei di no ma non si può mai dire. Se succederà comunque non sarà non per un album intero a meno che non ci sia commissionato”.
C. M.: “Un album intero non credo. La lingua madre dei Dining Rooms rimane l’inglese, anche se Nella Sua Loca Realtà è un’eccezione che potrebbe anche ripetersi…”

Ho sempre trovato che il vostro percorso vivesse in delicato equilibrio fra le suggestioni della nuova elettronica “morbida” di fine 900 e la fascinazione per i grandi maestri italiani di composizione degli anni 70 (Morricone, Alessandroni, Umiliani…). Curiosità per il presente alimentata da una tradizione ineludibile. In tal senso questo album mi sembra quasi un punto d’arrivo. Forse fa un po’ ridere, pensando alla vostra lunga carriera. Mi sono spinto un po’ oltre, in questa lettura delle cose?

S. G.: “Non penso ti stia spinto oltre, figurati, penso però anche che questo disco non sia un punto di arrivo, o almeno non lo abbiamo mai sentito così. Il nostro essere ostinatamente un gruppo meticcio, sempre aperto alla contaminazione e alla collaborazione, ha creato una specie di bolla all’interno della quale ci muoviamo e dove le cose possono succedere, quindi siamo per definizione un gruppo in movimento. Ovviamente, il movimento è circoscritto alle cose che amiamo: quindi le colonne sonore come dici tu, l’elettronica soffice, i beat dell’hip hop, il dub, il soul ma anche il folk. Questi ingredienti a volte si mischiano, in altre uno di loro può diventare predominante e mangiarsi gli altri. Questo per dire, che non sappiamo mai cosa succederà, è l’attitudine che ci guida e fino ad ora non ci ha quasi mai tradito. Detto questo, penso anche che Art Is A Cat sia un disco riuscito bene. Nonostante abbia all’interno tante anime, ha una precisa identità. Che poi è la nostra: quella di un gruppo abbastanza fuori dal mondo e dalle dinamiche consolidate, un gruppo ‘liberato’”.
C. M.: “Non credo che Art Is A Cat possa essere considerato un punto d’arrivo. Ogni volta che con Stefano iniziamo delle nuove composizioni, non abbiamo mai ben presente quale sarà la versione finale dei brani. Penso che questo succederà anche nel prossimo album. Anche perché ad ogni album cambiamo metodo di lavoro!”

La vostra è una musica che tende a “suggerire” ambienti e sensazioni con arrangiamenti e testi, piuttosto che imporle. Vedete ancora spazio per lavorare con la “suggestione” nel pop italiano contemporaneo, che sembra sempre più orientato invece su linee melodiche molto marcate e componenti narrative più dirette?

C. M.: “Sicuramente ci sentiamo di far parte del contemporaneo italiano perché siamo italiani ma di italiano abbiamo poco e di pop probabilmente niente. Di partenza sperimentiamo su musica strumentale che inevitabilmente viene composta senza un obiettivo comunicativo preciso. Cerca solo di esprimere i nostri gusti e le nostre sensazioni nel momento in cui viene composta. Successivamente il testo cerca di esprimere le suggestioni della base strumentale, nel pop italiano succede il contrario. È il testo, il concetto che si vuole esprimere a generare la base strumentale e l’arrangiamento”.
S. G.: “Siamo un progetto che sta molto sul confine a livello globale, non è neanche un confine tra i generi ma proprio una attitudine e una voglia di misurarsi con tante cose, tra tutte le cose con cui ci sentiamo di confinare non c’è sicuramente il pop, soprattutto per come viene concepito in Italia”.

C’è qualche progetto nella musica italiana contemporanea che vi piace? Qualche collaborazione che vi potrebbe affascinare in futuro?

S. G.: “Sia io che Cesare abbiamo una vita artistica parallela, nella quale facciamo parecchie cose. Con alcune delle persone con cui mi sarebbe piaciuto collaborare, alla fine ci ho collaborato davvero. Sono uno abbastanza intraprendente. Per esempio, Bruno Dorella, con cui ho addirittura due progetti: GDG Modern Trio (tra l’altro con Francesco Giampaoli degli ormai sciolti Sacri Cuori) e Tiresia (duo ci musica ambient). Anche Francesco è un artista che rispetto molto e quindi lo possiamo mettere nella lista. In questo periodo poi, ho iniziato una nuova avventura che si chiamerà Le Petit con il romano Donato Scaramuzzi, più conosciuto come Dozzy. Sarà un progetto di musica elettronica tra dub e midtempo; stanno uscendo cose molto interessanti e pubblicheremo qualcosa entro la fine del 2020. Sono molto contento, ed anche onorato, della collaborazione con Dozzy, perché è un artista che ho sempre stimato e apprezzato. Per il futuro, sicuramente mi piacerebbe collaborare con Wow. Il loro disco Come la Notte è il mio preferito del 2019. Qui però si ritornerebbe probabilmente all’italiano come lingua nella canzone”. (ride ndr)
C. M.: “Ultimamente ho scoperto MACE e Venerus. Ecco con loro mi piacerebbe davvero fare qualcosa!”

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