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Speciale Fugazi: le canzoni scelte dalla redazione di Rumore

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(Credit: Courtesy of Fugazi)

L’occasione di questo speciale sui Fugazi a nome di tutta la redazione è abbastanza facile da intuire: nel numero di aprile, disponibile in edicola e su app, il nostro Andrea Pomini ha raggruppato virtualmente tutti e quattro i membri (più il produttore di Repeater, Ted Niceley) per celebrare i 30 anni di un disco fondamentale. Al di là della celebrazione del disco, riuscire a ritrovare tutti e quattro sulle stesse pagine in un’intervista corale, è a dir poco impossibile. Insomma, un piccolo grande evento.

(Un estratto del numero di aprile)

I Fugazi sono stati il punto di interconnessione tra qualcosa che non era più post punk e qualcos’altro che non era ancora post hardcore, rigettando parte del passato e rimodellandosi sui loro ascolti molto lontani da quello che si può immaginare: roba hip hop, funk, reggae e altro. Il dinamismo sonoro e cromatico della band di Washington non è facile da riassumere. Bisogna letteralmente prendere tutti i pezzi della discografia e rimetterli assieme per averne un’idea più o meno chiara. Come successo con i R.E.M., abbiamo chiesto alle firme della nostra redazione di segnalarci e raccontarci una canzone per loro importante in qualche modo. Non è una classifica e non è un “best of” (che suona davvero male parlando di Fugazi). Ne è uscito un pezzo pieno di aneddoti, ricordi, concerti rovinati e delusioni. (Nicholas David Altea)

(Credit: Courtesy of Fugazi)

1 Waiting Room (Fugazi EP, 1988)

Molto paziente lo deve essere di sicuro, Ian MacKaye.
In una scena di Salad Days, eccellente documentario di Scott Crawford sul punk a Washington negli anni 80, racconta come ancora oggi (il film è del 2014, ma non facciamo fatica a pensare che la situazione non sia cambiata) ci sia gente che lo chiama al telefono e gli rompe i coglioni sullo straight edge. Ragazzini che gli dicono “Hey, sai cosa? Sono ubriaco!” pensando di farlo incazzare, robe così. Che razza di nervo scoperto deve aver toccato, scrivendo quel testo per i Minor Threat nel 1981, se ancora ne porta addosso lo stigma oggi, che ha appena compiuto 58 anni e ha passato una vita intera a dimostrare che è molto altro? Passano per gruppo dalla “filosofia straight edge”© persino i Fugazi, per dire, che non hanno mai neanche lontanamente affrontato l’argomento su disco o dal vivo, e tutto per una canzone che ha scritto uno di loro, due gruppi e due secoli prima, e altri hanno casomai trasformato in dettame. Mentre MacKaye continuava a riempire i suoi scaffali di funk e reggae, generi con protagonsiti per lo più sobrissimi, e bootleg di Jimi Hendrix, noto salutista.

L’uomo è abituato da sempre ad avere a che fare con aspettative e pressioni, insomma. E lo è anche verso la fine del 1986, quando insieme al bassista Joe Lally e al batterista Colin Sears forma i Fugazi. Vuole suonare qualcosa di diverso, soprattutto. Si è stufato dell’hardcore e della violenza che sempre più caratterizza i concerti di quel genere, crede che l’energia possa prendere altre strade. Nel giro di pochi mesi Brendan Canty sostituisce Sears, e verso la fine del 1987 arriva pure Guy Picciotto come voce alternativa e sorta di hype man, figura mutuata dal rap di contraltare della voce principale, ora amico ora nemico.

Il modo in cui i Fugazi si presentano al mondo, il primo pezzo del loro primo disco (e quello che significativamente diventerà anche il loro pezzo più noto), la dice lunga su questa voglia di muoversi, non solo metaforicamente. Comincia un basso, con una linea che deve tanto al reggae filtrato attraverso i Ruts, e quando il resto del gruppo entra si sentono il funk sincopato dei Meters, l’immediatezza dei cori punk rock o di certo rock da stadio, le voci incrociate di cui sopra. Lungo tutto il pezzo la tensione si accumula, ma quando arriva al culmine tutto si ferma, e si ricomincia da capo. Vuoi pogare a gomitate? Vuoi tuffarti alla cieca su chi sta sotto? Ci spiace. Non siamo noi a vietartelo: è la canzone stessa. Puoi ballare però. Volevi i Minor Threat? Non farò gli stessi errori, perché ora so. (Andrea Pomini)

2 And The Same (Margin Walker, 1989)

Se state leggendo spero avrete almeno un disco dei Fugazi a casa, magari però non vi è capitato di comprare il vostro primo disco dei Fugazi a 16 anni. A me sì. E mi sento molto fortunato per questo. Avevo risparmiato qualcosa durante l’estate e come ogni anno, rientrato dal mare, mi sono recato in pellegrinaggio da Chroma Dischi. Era l’inizio dell’anno scolastico ’89/’90. Un amico mi aveva registrato su cassetta la compilation dei Minor Threat del 1983 e dei Fugazi avevo letto su Rockerilla. Quando mi sono ritrovato davanti quel primo piano sbrodolato, ho preso in mano il vinile di Margin Walker per cercare di capire cosa c’avesse in faccia Ian MacKaye. Non nascondo che il pensiero è andato subito lì, ma poi mi son detto che al massimo potevano essere i rimasugli di una torta alla panna spiaccicata durante un movimentato festino straight edge. Nella foga di pagare e tornare in cameretta per ascoltare il disco ho lasciato lì il 45 giri W Il Lunedì! de I Barbieri che, ovviamente, non ho mai più ritrovato: lasciamo perdere.

Margin Walker l’ho ascoltato allo sfinimento. Non è la miglior prova discografica dei quattro di Washington D.C. ma è stato il mio primo amore. E tale rimane. La storia dell’EP è più o meno nota, in parte raccontata nel clamoroso speciale di Andrea Pomini su Rumore che trovate in edicola. I Fugazi si erano imbarcati nel loro primo estenuante tour Europeo: 39 date tra metà ottobre e metà dicembre del 1988. Per tenere viva e fotografare l’energia sprigionata sui palchi di mezza Europa, a fine tour si sono fermati a Londra nei Southern Studios di John Loder con l’idea di registrare il primo album. La stanchezza e l’impossibilità logistica di suonare tutti assieme in presa diretta, costringendoli a registrare la batteria a parte e ricorrere alle sovraincisioni, hanno reso quell’esperienza pesante e il risultato deludente per il gruppo. Niente primo album, allora. Giusto un EP di sei pezzi.

Ma io, sedicenne di provincia, cosa ne potevo sapere di tutti questi cazzi? Per me è stata un’epifania. Punto. A colpire al centro del petto And The Same, il secondo pezzo del lato A, con quell’inizio incerto su cui s’innesta il giro di basso liquido e blue-eyed funk di Joe Lally che non sarà quello di Waiting Room però… Dopo 40 secondi di cigolio di chitarre, quasi in punta di piedi entra la voce che d’improvviso s’imbizzarrisce nei due versi That Is If You Believe In Race/And That Were Born In The Right Time Or Place. Boom. Strofa, ritornello, strofa, ritornello e chiusura a sfumare con il ping pong action-reaction che ancora mi fa pensare al povero Ian pronto a reagire e mollare un cazzotto al buontempone che gli ha spiaccicato la torta in faccia. Ok, è una canzone politica, antirazzista, contro la cultura reazionaria che alimenta l’industria delle armi e della morte. Il testo è ermetico, intelligente, finanche premuroso. Ma io ho ancora quella torta in mente. (Manuel Graziani)

3 Blueprint (Repeater, 1990)

Mai amato il pubblico che prendeva il sopravvento sull’artista, dal vivo. Anche fisicamente. Quelle bolge spaventose che ti guardavano spiritate come a dire “Noi, siamo la scena” e si passavano il microfono per urlare, male, le canzoni che io ero venuto ad ascoltare cantate dal gruppo. Mai amato gli artisti soverchiati dal proprio mito (o dalla presunta purezza, durezza, violenza sonora ecc ecc) e musicalmente evaporati rispetto a ciò che avevano permesso ad altri di far di loro. Ma i Fugazi, non sono in questo novero. Un attimo prima, qualche metro ancora. Andrebbe ricordato più spesso che, sempre sia lodata la loro coerenza etica o politica che dir si voglia, hanno scritto grandi brani. E Blueprint è uno dei migliori. Con quell’intro già foriero di devasti che, peraltro, arrivano senza esondare. Entrate e uscite, la classica canzone che ne contiene altre. Tagli secchi e botte precise. Attendere e colpire: molto post punk stilizzato Dischord, cioè la pietra angolare di quel suono consegnato ai suoni catalogabili. Alcune frasi chiave: “Non importa cosa è stato venduto, è quello che stai comprando”. Già, ridotta a significati forse non voluti, è anche la risorsa di scelta ultima del capitalismo. Cosa compri, dove, perché. Ma anche quel “Nevermind” con cui irrompe Ian McKaye, parola chiave punk se ce n’è una, che annoda Pistols e Nirvana. Ho guardato qualche video, quando la facevano dal vivo, come spesso capitava con i Fugazi, era mille volte più potente. E sofferta. L’intro ti inchioda. Cercate i live alla Sacred Heart Church di Washington D.C. e quello alla Performance Hall di Nashville, a due voci la prima e a frustate la seconda. Fanno impressione. E il pubblico non invade, racchiude. Salta, suda e “vive” di loro. Si può chiedere di più? (Maurizio Blatto)

4 Sieve-Fisted Find (Repeater, 1990)

Basterebbero le due versioni di Sieve-Fisted Find su YouTube, quella eseguita dal vivo International Pop Festival di Olympia, e quella alla Chiesa del Sacro Cuore di Washington D.C., a convincere anche i più riluttanti dell’imperturbabile superiorità dei Fugazi nell’anno di grazia 1991, l’alba di un decennio che avrebbe visto cambiare molte cose nella musica indipendente americana. Rodato il repertorio tratto dal debutto dell’anno precedente, Repeater, i Fugazi sono già irraggiungibili per qualunque altra realtà post hardcore. La band in quel 1991 è un oliato meccanismo percussivo dove scappamenti, pignoni, tamburi e ruote dentate si muovono con incredibile sincronia in uno spettacolo emozionante. Sieve-Fisted Find di Repeater è l’esatto centro, un’esplosione di collera repressa, schiacciata tra l’epicità di Blueprint e gli spigoli puntutissimi di Greed. Ricorda una versione più irosa e meno dispersiva, più dritta al bersaglio, dell’interplay chitarristico dei Sonic Youth. Dal vivo compare nelle scalette già nel marzo del 1989, a dimostrazione del fatto che la band crede nel pezzo. Scritto da Guy Picciotto con la collaborazione di Joe Lally e Brendan Canty, Sieve-Fisted Find è il brano che finalmente legittima la presenza autoriale di Picciotto. Porta con sé la poetica emotiva dei Rites Of Spring, quella dell’Estate del 1985, anno di grandi sovvertimenti delle prospettive dell’hardcore punk. Sieve-Fisted Find è il frutto di quella poetica piena di attesa, sospensione, inestricabilità: il problema intrecciato alle proprie soluzioni che apre il brano, e il pugno che come un setaccio non riesce a trattenere la sabbia, definiscono un nuovo modo di scrivere e intendere il mezzo (post) hardcore: impressionista, intimista, proiettato verso un mondo adulto.  (Andrea Prevignano)

5 KYEO (Steady Diet Of Nothing, 1991)

I Fugazi funzionano bene da frangiflutti. Se penso al 1991 mi torna una mischia rugbistica con Steady Diet Of Nothing e altre memorabili uscite di quell’anno a spingere energicamente contro cose brutte. Tipo concorsi da stravincere, fidanzate che prendono il classico treno senza ritorno, e poi servizi di leva tra furgonati e decreti delegati. Steady Diet Of Nothing sono 36 minuti e 18, mica come quei discotti che per un prezzo conveniente offrono molte ore di ottima musica. La sintesi di Kyeo (keep your eyes open) è che tutto tace ma tieni gli occhi aperti. Certo, puoi trovarla su antiwarsongs.org, ma il tallonatore è lì pronto ad accendere il gioco, e quando si parte il rasoio della chitarra ti dice che sì potremmo essere anche noi eroi ma che c’importa dello scudo, ce ne compreremo un altro. L’incedere epico del Picciotto si spegne lentamente, per inerzia, e in quella pausa c’é senso, ma poi Ian parla e urla senza recitare, sempre comunque sobrio, mai tronfio come un arrivato che sfoggia canzoni da pub progettate a tavolino. Non vi faremo a pezzi, ovvio, ma battuti non usciremo, tranquilli. Lottando. Vero, son tempi in cui puoi dettare questa storia ad un computer senza toccare una tastiera, ma mi tengo Steady. Diet. Of. Nothing, perché “se guardi le scalette dei concerti, siamo tornati a quelle canzoni quasi più che a quelle di ogni altro disco” (Rumore aprile 2020, pag.34). Chissà poi perché. (Fabio Striani)

6 Rend It (In on the Kill Taker, 1993)

È l’anno di grazia 1993. I Fugazi sono la band di cui nessuno s’azzarda a parlar male. Modello d’etica per tutti gli addetti ai lavori (che spesso li citano anche solo per darsi un tono alternativo), riferimento di vita per i fedelissimi che s’aggrappano al feedback delle loro chitarre. Il sogno proibito di ogni teen spirit sembra avverarsi in quel 1993: i quattro di Washington vanno a Chicago, precisamente ai CRC studios, a registrare il loro terzo album con un’altra colonna dell’epica alternativa del periodo, Steve Albini. Registrano insieme un mare di pezzi, fra cazzeggi e partite a dadi. Alla fine, la cosa non funziona. Rispetto immutato fra i partecipanti, ma ritorno a DC. Per mettere insieme l’album con i fidi Ted Niceley e Don Zientara. In On The Kill Taker è il ponte fra il prima e il dopo dei Fugazi. Fra il furore dei concerti della prim’ora e la maturità sperimentale dell’ultima parte degli anni 90. Rend It è il manifesto di quella trasformazione. Prima traccia del trittico più sospeso e sorvegliato dell’album. Seguono 23 Beats Off e la strumentale Sweet And Low. Insieme dicono di una band che inietta i principi del rumore in sequenze che respirano in sospensione, fra pieni e vuoti. Hardcore e post rock primigenio. La sequenza di Rend It spiega tutto: una dissonanza elettrica introduce la disperazione a cappella di Guy Picciotto. “Perché non vieni a casa mia / perché non mi trascini fuori”. L’amore come dipendenza e resa. Una chitarra dall’arpeggio dolente, che sembra uscita da Spiderland degli Slint, apre alla melodia torturata del ritornello. “L’ho detto, voglio che tu mi aiuti”. La rabbia di Blueprint raggrumata nel tunnel dell’autoanalisi. I vuoti e i pieni, il prima e il dopo. La mia canzone d’amore”, come declama Picciotto, “Andata a male”, alla fine. Talmente personale che sei anni dopo, nella colonna sonora del documentario Instruments, la presentano in versione demo. Registrata in ansia acustica con un quattro piste da Picciotto. Un incubo ipnotico. A suo modo, uno spartiacque. (Mauro Fenoglio)

7 Last Chance for a Slow Dance (In on the Kill Taker, 1993)

Tra il 1995 e il 2000, dalle superiori di un istituto tecnico di un paesino di provincia del cazzo della bassa padana, decido di fuggire seppure da pendolare e andare, alla cazzo, a fare Scienze Politiche a Bologna. Fra la stazione e Strada Maggiore c’è via Petroni, al civico 9 il Sesto Senso, dove ti noleggiano dei cd che manco ti sogni di trovare nei negozietti di paese che ti fanno pagare un cd 40.000 lire perché “è d’importazione”. Fra i primi cd da prendere punto In On The Kill Taker. Nei primi anni dell’università dovendo prendere il treno per tornare a casa non ho il tempo di farmi amicizie. Verso la fine del 1997, però, indossare il merchandise di una band significa fare parte della stessa tribù anche se non ci si conosce: a lezione e in fila per gli esami comincio a conoscere qualcuno attaccando bottone per la maglia di quello e quell’altro gruppo. Non ho la patente, per cui molti concerti me li perdo. Ad un certo punto nel 1999, la mia “Revolution Summer“: trovo una ragazza che ascolta i gruppi della Dischord, vive vicino alla stazione e ha la patente e pure la macchina a disposizione: praticamente un sogno. La storia è destinata a durare poco perché dopo il classico anno sabbatico, classico del 50% dei fuorisede che vanno a vivere a Bologna verso ottobre, la tipa decide di cambiare vita e laurearsi in 3-2-1 in giurisprudenza per fare l’avvocato e lasciarsi alle spalle la parentesi punk. Verso fine estate non la sopporto più ma la tollero perché l’1 ottobre suoneranno i Fugazi al CPA a Firenze e io non li ho mai visti. Prima che il concerto cominci, però, la lei ha la bella idea: decide di farmi uno scherzo in voga a quei tempi, un falso messaggio di addebito di una ventina di mila lire, una cifra enorme per me all’epoca, da parte di Omnitel. In panico totale passo metà del concerto, almeno fino a Blueprint (15esima canzone su 29) al telefono col servizio clienti. Quando realizzo che mi sto perdendo il mio primo (senza sapere che sarà l’ultimo) concerto dei Fugazi, decido di lasciar perdere l’ingiusto addebito. Arrivo quasi di fronte al palco e attaccano Last Chance For a Slow Dance, da quel momento la mia canzone preferita dei Fugazi: visto che nei gruppi come loro, per me, sono i testi e l’attitudine a far la differenza. La differenza la canzone la fa perché parla della morte dell’ex ragazza del fratello di Ian MacKaye (Alec) con un approccio ben lontano da un giudizio tranchant che potrebbe dare un testo dei gruppi straight edge figli degeneri dei Minor Threat. Il tempo che la canzone finisca e la tipa mi raggiunge solo per dirmi beffarda che il messaggio di addebito era un suo scherzo, e anche se sa che mi ha rovinato il concerto non si scusa manco per il cazzo. Al banchetto della band si prende il cd dove c’è Last Chance For A Slow Dance. La mattina prima di uscire per l’ultima volta dalla casa di Raffaella, futuro avvocato che per una estate nel 1999 ha avuto la fase punk, sostituisco la copia che ho nel mio lettore cd con l’originale di In On The Killtaker che lei ha comprato la sera prima, e vado a prendere il treno. (Marco Pecorari)

8 Do You Like Me (Red Medicine, 1995)

C’era una VHS duplicata (con copertina fotocopiata in b/n) che girava sempre nel videoregistratore, in camera mia. In piena botta di punk rock e hardcore melodico, Minor Threat Live, al 9:30 Club @ Washington era qualcosa che ti apriva un altro mondo, un’altra etica dell’universo punk che però non era punk, ma hardcore. L’avevo consumata. Arrivava dalla tavernetta di casa di un mio amico dove ci rinchiudevamo lì, fuori dal mondo, ad ascoltare punk rock e hardcore melodico e, per altri della compagnia, ska e reggae. Era un po’ la terra di nessuno e di tutti, a (quasi) qualsiasi ora del giorno. Uno o due anni dopo mi ritrovai al Libraccio dall’amico Cestino, e a un prezzo modico mi ero portato a casa il cd usato di Red Medicine dei Fugazi. Percorso quantomeno necessario se ami i Minor Threat e Ian MacKaye. Tempo di pagare, metterlo nel lettore cd portatile, guardare che non mi avessero fregato la mia city bike nera devastata e pedalare verso casa, che arrivano le prime impressioni. Potrei dire con sommo godimento e voce sicura: “Sì, sono stato fulminato, erano un figata della madonna”. Una sorta di illuminazione sulla via di casa. Potrei, ma mentirei spudoratamente. Semplicemente non l’avevo capito. Non ci avevo capito proprio niente. Non decodificavo nulla. Mi mancavano alcuni pezzi di un puzzle ancora troppo complesso per me. L’intro rumoroso di Do You Like Me, le chitarre parzialmente dissonanti, il cantato un po’ urlato un po’ no e poi ancora: psichedelia, dub, noise; tutto insieme. Solo dopo avrei notato la citazione di Spiderland degli Slint capovolgendo la copertina. Certo, avessi iniziato da Repeater l’effetto sarebbe stato diverso. Poi quella voce che continuava a chiedermi “Do you like me? / Do you like me? / Do you like me?”. Sembrava un messaggio subliminale. Gli avrei risposto: “Senti caro Guy Picciotto e compagnia bella, non posso dire che mi piacete. Posso dirvi che mi piacerete, so che mi piacerete e non poco, ma non ora e in questo momento”.

I testi di Do You Like Me, racconta Guy: “Sono una specie di collage di tre idee separate. Inizia come una canzone d’amore, poi si trasforma in un commento sulla costruzione di una prigione, mentre l’economia della crescita negli Stati Uniti si avventa in una fantasia sulla distruzione del quartier generale di questo appaltatore della difesa, Lockheed e Martin Marietta che si erano appena uniti per creare un settore dell’industria della difesa di proporzioni terrificanti, poi la canzone torna in se stessa”.

Do You Like Me era un invito che non sapevo ancora cogliere. Avrei dovuto rispondere “À demain, à demain, à demain, à demain”. C’era qualcosa che mi diceva: non ora, aspetta, non ora. D’altra parte: I am a patient boy, I wait, I wait, I wait, I wait(Nicholas David Altea)

9 Break (End Hits, 1998)

È il 1998 e io ho 20 anni, quell’età strana in cui ti senti capace di tutto e padrone di nulla. Avevo scoperto i Fugazi da non molto, grazie al precedente Red Medicine ed aspettavo il nuovo album come poche altre cose al mondo. End Hits l’ho amato anche oltre quelli che sono i suoi effettivi meriti artistici: la ruvidezza degli esordi si era – per certi versi – calmierata, lasciando spazio ad una seconda fase della carriera del gruppo più votata alla sperimentazione e ad un intimismo melodico e meno spigoloso, che poi troverà il proprio apice nell’opera conclusiva del quartetto, The Argument. L’album è, e rimane, un disco di transizione, benedetto però da una delle più efficaci tracce di apertura mai scritte dalla band. Quello che subito mi colpì del pezzo fu il testo, minimale ma centrato, dritto al punto, un cazzotto nell’anima, radiografia lirica di una generazione senza ideali e dal futuro più che incerto. Il contrasto fra il nichilismo di quelle poche parole e la quasi insensata e incomprensibile leggerezza con la quale venivano pronunciate esaltavano ulteriormente il senso di straniamento. Un inno all’insoddisfazione perenne, al trionfo vile dell’infelicità: non potrei chiedere di più, e allora perché non mi basta mai? L’eterno inseguimento di un imprecisato obiettivo inafferrabile, nascita e morte, costruzione e distruzione in un ciclo interminabile, un loop chiamato vita dal quale si spera di uscire. 
Vivi, possibilmente.
Uno schema da distruggere, da rompere asap. 
Quel Break! urlato a più riprese nella coda del pezzo è il perfetto contraltare alla vacuità espressa in apertura: tiratemi fuori di qui, non ne posso più. 
Grazie. 
E adesso, cortesemente, break! (Davide Agazzi)

10 I’m So Tired (Instrument Soundtrack, 1999)

Di origine ebraica, nato in Afghanistan, cittadino statunitense e residente a New York. Quattro mesi dopo l’11 settembre 2001, queste combinazioni genealogiche del filmmaker Jem Cohen mi erano sembrate incredibili a fronte dell’attualità, della “guerra al terrorismo” scoppiata dopo gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono. Lo contattai per intervistarlo, ma non per parlare del suo documentario sul gruppo di Ian MacKaye, suo vecchio compagno di scuola. Date le circostanze, infatti, parlammo dell’atmosfera che si respirava a New York e di come leggeva il presente un artista visuale indipendente come lui. Così, tra i suoi lavori, neanche citò Instrument, nonostante il DVD fosse uscito da appena due mesi. Nella colonna sonora di questo notevole videofilm, tra gli inediti, già al primo ascolto, molti avevano notato un brano atipico nella discografia dei Fugazi: I’m So Tired. Idem alla prima visione: MacKaye, nelle riprese ambientate nella casa in Connecticut dei suoi nonni convertita a studio di registrazione, maneggia il mixer mentre ascolta questa canzone piano e voce che, nella scena successiva, tanto per rimarcarne l’anomalia, viene fischiettata in cucina da Joe Lally. Prima della mia intervista, Cohen, parlando del suo approccio al filmmaking, aveva detto: “Cerco di porre al centro le cose che avvengono negli angoli”. Ecco, I’m So Tired è stata concepita nel 1994, ma è proprio grazie a Instrument che, dopo cinque anni, ha trovato il suo “centro”. E se Pitchfork ha scomodato la parola “pop” per definirla, un collettivo hip hop di Minneapolis, Doomtree, nel 2011 ne ha esaltato le potenzialità: Wugazi è un tributo composto da 13 mash-up tra brani di Wu-Tang Clan e Fugazi di cui il primo, Sleep Rules Everything Around Me, realizzato al volo, appena concepita l’idea, fonde proprio la melodia di I’m So Tired a un beat su cui scorrono le rime di Raekwon e Inspectach Deck estratte da C.R.E.A.M. e intervallate dal ritornello di MacKaye. I reduci degli anni 90 per lo più hanno reagito sorridendo, divertiti, un po’ come Lally quando fischiettava. (Luca Gricinella)

11 Full Disclosure (The Argument, 2001)

“I want out”, urla Guy Picciotto all’inizio del pezzo, uno dei pochissimi momenti della fase conclusiva in cui i Fugazi rispettano la loro forma musicale originaria. Slogan semplici da cantare a squarciagola, aperture melodiche, tanta rabbia, ben incanalata. Poco dopo saranno effettivamente out. L’anno è il 2001, intorno ad ottobre. Tre mesi prima dai quartieri alti dell’indie rock è uscito un disco di nome Is This It, che nelle settimane a ridosso della release sembra un disco epocale, un punto di svolta, una rinascita dello “spirito originario” del rock’n’roll. All’atto pratico è l’inizio di una nuova stagione ideologica del genere, in cui il valore controculturale del punk rock diventa un orpello estetico come un altro, roba da mettere in vetrina per aumentare la street cred. Da qui in poi il movimento post punk diventa orgogliosamente celebrativo, ossessivamente incentrato su ripescaggi a ruota e riscritture del passato per quagliare un briciolo il presente. Forse non è il posto forse sono io, cantava Pezzali. I Fugazi a questo punto della storia hanno tirato il freno da molto tempo. Da qualche anno suonano un po’ meno, si prendono più tempo per scrivere e registrare, hanno persino documentato il corso della loro esistenza con un film. Anche la loro musica ha rallentato un bel po’, da End Hits in poi –atmosfere più rilassate, pezzi interlocutori, soluzioni che molti critici del periodo chiamano per qualche ragione post rock. Gli standard del primo periodo sono relegati ad un paio di episodi a disco, che per contrappasso suonano più violenti ed aggressivi di quanto il gruppo sia mai suonato. Di questo novero ristretto fa parte la traccia numero 3 di The Argument. Come molte altre canzoni dei Fugazi, Full Disclosure parla di essere i Fugazi. O più specificamente di esistere alle proprie condizioni in un sistema sociale, culturale ed economico che ti impone di scegliere tra una gamma limitata di modelli di normalità. Le poche righe del testo sono tutt’altro che metaforiche: “want a mutually assured destructive life-seizing separate culture / to take me over / and blow up my mind now”. E poi l’indie rock farà la sua strada, e le strade dei Fugazi si separeranno, e tutto quel che c’è stato dopo lo sappiamo – offerte insensate per suonare a festival-evento, puntualmente rispedite al mittente; occasionali incontri dei membri un pomeriggio a suonare in garage, uscite di basso profilo, niente sotterfugi, full disclosure. Coming sponsored by no one. (Francesco Farabegoli)

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