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Editoriale 329: Lontano che vai

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(Credit: Roberta D’Orazio)

Di Rossano Lo Mele

Ieri notte sono rientrata tardi, approfittando del fatto che la mia bimba è in vacanza dai nonni. Quando sono sola a casa, dormo malvolentieri, incurante delle ore piccole: mi piace sentire – nel senso inglese di to feel – il silenzio, e decidere se infrangerlo, guardando un film, o se rispettarlo, leggendo qualcosa.

Ricordo.
Avevo tre anni, ed ero insieme al primo uomo che ho amato.
Quel giorno quando mio nonno mi portò a giocare in piazza con gli altri bambini, capii immediatamente che stava per accadere qualcosa di diverso, qualcosa che avrebbe scosso per sempre la sequenza, rassicurante e sempre identica, dei pomeriggi assolati della mia estate.
Ricordo ancora l’odore di mandorle che immediatamente invase le mie narici quando il ragazzo dallo sguardo sperduto fermò l’aria per un istante squarciandola con il primo accordo della sua chitarra, intonando uno stornello di cui non ricordo le parole, ma la cui melodia è scolpita sulla mia pelle nonostante i decenni che mi dividono da allora. Ogni volta che penserò a quel momento, io mi sentirò nuda. 


Iniziai a scrivere di musica solo per scoprire di che canzone si trattasse. Ma non ho più sentito quello stesso odore di mandorle, nella piazza in cui sono cresciuta. Nonostante la mia voracità, la mia ricerca è tuttora insoddisfatta. Ho ereditato la malattia del conteggio sillabico dai miei studi classici. Spesso quando scrivo, se mi trovo davanti a un momento in cui il ritmo soffoca, faccio ricorso ai suggerimenti di un distico elegiaco o di un trimetro giambico, cercando parole che vadano a riempire quelle partiture perfette. Ne bastano un paio, e il gioco è fatto. Ricordo che D’Annunzio – oggetto di molte polemiche, ma che ha il merito di aver importato numerose istanze europee in Italia, oltre che quello di essere un dio dell’eufonia – ne Il Piacere, parlando del modo di scrivere di Andrea Sperelli, diceva che spesso il giovane dandy richiamava alla mente un qualche verso famoso per riprodurne con altre parole la caratura ritmica.

Anton Cechov. Sue furono le prime parole che pronunciai a teatro (“Nuove forme son necessarie, e se non ce ne sono è meglio che nulla sia necessario”, sacrosanta verità). Amo di lui la capacità immaginifica, la lucida genialità con cui luoghi esteriori e interiori all’anima travasano gli uni negli altri i propri moti, l’assoluta concretezza nel descriverli. Sono di gusti estremamente difficili: non per una qualche forma di spocchia culturale, ma perché a lungo, in periodi della mia vita estremamente diversi e lontani nella mia percezione rispetto all’attuale, i libri sono stati i miei principali compagni. Ho maturato così una forma d’amore tanto elevata per la bella scrittura, per l’austera eppure emozionante compostezza formale dei classici, che faccio fatica, allo stato attuale delle cose, nel tollerare la mancanza di grazia che caratterizza persino autori affermati.

C’è un poemetto che amo del siriano Adonis, Le vicissitudini di Thamud. Si tratta di un bizzarro caso in cui non è la letteratura a utilizzare la metafora del viaggio, ma è il viaggio raccontato dal narratore che diventa metafora del processo di composizione letteraria. Nel finale, Adonis diceva: 

“Prendimi / abisso dell’umanità, dell’infatuazione / lavami / nei lampi del tuo spazio, donami dei nomi / cancella, rinnova i miei nomi”.


L’idea di cancellare e rinnovare i propri nomi mi sembra una metafora che ben si addice: non più semplicemente te stesso, ma tanto altro dentro e oltre te. Negare la finitezza della propria esperienza singola per affermare una maggiore complessità, qualcosa del genere. Ciò che intendo per negazione. Un mio maestro di teatro una volta mi raccontò la versione rumena di Cenerentola. La nota eroina nelle sue fattezze est-europee non era languida come quella che conosciamo: era altresì una donna dal carattere forte e volitivo, che si era travestita dapprima da cacciatore, poi da spazzacamino e infine da dama per poter avvicinare il principe. Quando il suo futuro sposo al ballo le chiese chi fosse, lei rispose: “Ho arco e frecce ma non sono un cacciatore, sono vestita di cenere ma non sono uno spazzacamino, indosso un abito da sera ma non sono una principessa. Chi sono?”

Il mio maestro mi disse che a suo avviso in quell’apparente indovinello aveva sede la radice di tutte le dichiarazioni d’amore: “L’amore è avere il coraggio di dire ciò che non si è”, facendo riferimento all’estrema facilità con cui mostriamo all’inizio di una qualsiasi conoscenza il nostro lato migliore, ma scavare in profondità significa avere la capacità di ammettere le proprie mancanze. 

Questa era Roberta D’Orazio. Un’amica, una firma di cose musicali e anche di questo giornale; una giovane madre, un’appassionata di musica, teatro e letteratura. Una ragazza speciale che ci ha lasciato da poco. Troppo presto e troppo grande l’assenza, rimbalzata in redazione, dove era amica di molti. Addio, Roberta: ci mancherai, non sai quanto.  

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