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Intervista a Andrew Bird: “Perché abbiamo tanta paura dell’intelligenza?”

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di Daniela Liucci

“Fino ai sedici-diciassette anni non ci pensavo proprio a fare il musicista. Da bambino volevo fare lo psichiatra. E non so se il motivo era l’interesse per il comportamento delle persone o più per l’arredamento. Sai, il tipico ufficio freudiano, con il divano e tutto il resto”. Nel parlare con e di Andrew Bird (che passerà dall’Italia al T R I P Music Festival il 26 giugno), c’è un unico errore da non commettere: sottovalutare l’onnipresente vena wit, per dirla come i britannici. Bisogna, invece, leggere, sempre tra le righe, perdersi tra le sfumature, ricomporre significaniti e scignificati. Si capirà anche perché intitolare il sedicesimo album in carriera My Finest Work Yet (ovvero Il mio capolavoro, finora), uscito lo scorso marzo, ha poco di presuntuoso e molto di (auto) ironico. O perché si può costruire un protest-album-che-non-è-un protest-album altrettanto efficace senza urlare o porsi su un piedistallo, usando immaginazione e lucidità, accostando la guerra civile spagnola del 1936, l’elezione di Donald Trump alla presidenza USA del 2016 e la mitologia greca per trovare un varco nella rete di orrori ed errori del presente. Andrew Bird, infatti contiene moltitudini. La sua personale “isola” di violini, chitarre, loop station e fischiettii che si amalgamano con jazz, folk, pop, rock – costruita nella Chicago degli anni 90, la stessa di Liz Phair e Smashing Pumpkins – è oggi un continente in cui convivono creativamente storia, scienza, giochi di parole, poesia, fisica quantistica e la sua peculiare versione di militanza. Ce ne parla alla vigilia del tour europeo dalla sua casa di Los Angeles, la stessa in cui ospita amici musicisti per la serie Live From The Great Room e in cui spera di portare un giorno Mavis Staples e David Byrne, mentre perfeziona scalette e ribadisce: l’unità è l’antidoto per ogni nemico.

A proposito di My finest Work Yet, è impossibile non parlare della cover. Perché hai scelto di “giocare”proprio con La Morte di Marat di Jacques-Louis David?

“Devo fare una premessa. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato il titolo. In realtà, era il titolo provvisorio per questo album e, come tutti i titoli provvisori dei miei album, nasceva da una battuta fatta con i miei musicisti. Ho provato e riprovato un milione di titoli diversi ma sembravano tutti pomposi e pretenziosi, quindi sono tornato a quello originale, ma avevo comunque bisogno di accostarlo a un’immagine che avesse senso. L’ho trovata sfogliando per caso un libro, Necklines, sulla rivoluzione francese e su David, e mi ha dato subito l’idea di un poeta, sofferente, sul letto di morte, anche se in relatà ritraeva un omicidio. Aveva molte chiavi di lettura, un aspetto per me molto interessante, lo scenario politico che sottintendeva calzava a pennello con i temi del disco. Ne ho parlato con la fotografa Amanda Demme e il risultato sono io al posto di Marat. Questo sì che è interessante…” (ride).

Marat, che era un rivoluzionario, fu ucciso da Charlotte Corday, altra rivoluzionaria per aver tradito la grande causa della rivoluzione francese. Perché una rivoluzione fallisce?

“Le rivoluzioni, o meglio, i movimenti progressisti falliscono spesso per mancanza di unità e faide interne, per fissazioni sull’ideologia. È come quando vedi solo un albero e non il bosco nella sua interezza. Così si perde, si cede al populismo e al fascismo perché non si riesce a mettere da parte le divergenze, a essere flessibili e uniti”.

Parlando di rivoluzioni e rivoluzionari, in My Finest Work Yet si può sentire l’eco di un’era precisa nella storia americana, l’eco di una certa protest music, da Marvin Gaye fino ai Jefferson Airplane passando per il gospel…

“Il mio punto di riferimento erano soprattutto i primi anni sessanta, l’epoca delle lotte per i diritti civili, l’epoca pre-Beatles, quella di Nina Simone, Herbie Hanckcok, Mahalia Jackson, Staples Singers. Un periodo in cui si navigava tra jazz, pop e gospel, con i pianoforti sempre in primo piano. Era quello il sound a cui aspiravo, quella specie di arioso paesaggio sonoro jazz-gospel”.

Per un sound molto arioso ci sono testi, a volte, molto oscuri. Fallorun, per esempio, in cui c’è una visione peculiare di Donald Trump…

“Mentre la scrivevo, pensavo: e se Trump in realtà non fosse umano, se fosse un algoritmo, tanto efficace nel metterci l’uno contro l’altro e nel fare eseguire a ognuno di noi il proprio compito nel suo gioco? Sai, come in quel vecchio classico da film horror, il blob che si nutre delle nostre paure e diventa sempre più forte…”

Come si reagisce in questi casi?

“Quando Trump è stato eletto molti miei coetanei hanno reagito dicendo: “Ce ne andiamo. Ci trasferiamo nei Paesi Bassi, in Svezia o in Nuova Zelanda”. Credo sia una delle cose più codarde che si possano fare. Come può essere utile la fuga? Torniamo al concetto di mancanza di visione. Questo atteggiamento, il “non mi piace come vanno le cose, me ne vado” è uno dei grandi problemi della sinistra”.

In Bloodless, invece, citi la guerra civile spagnola del 1936. Un periodo in cui molti scrittori e artisti, da Orwell a Hemingway, si opposero al regime di Franco e alle dittature. Quale dovrebbe essere, nell’attuale clima socio-politico, il ruolo di un artista?

“Quello è stato un periodo molto interessante. C’era chi parlava (W.H. Auden, ndr) di “poeti che esplodono come bombe” e mi intrigava capire cosa intendesse, cioè se i poeti erano inclini all’autodistruzione o se finalmente avevano un impatto? Perché sai, i poeti di solito hanno questo complesso di inferiorità, non sanno mai se con le loro parole riescono a essere efficaci. Comunque sia, io sono convinto che se un artista è consapevole e attento a ciò che gli accade intorno, il messaggio, il suo pensiero o punto di vista, viene fuori naturalmente dalla sua arte. Considerare il dissenso un dovere mi sembra estremo. Bloodless più che dire “attenzione, Trump uguale Franco” è un ammonimento per la sinistra a non lasciarsi paralizzare da cavilli ideologici”.

Rimandendo in tema di poeti e scrittori, molte delle tue canzoni sembrano racconti brevi. Hai mai pensato di scrivere un romanzo o una raccolta di racconti?

“Spesso. Mi piace molto mettermi comodo e scrivere. Quando lavoro a una canzone di solito non scrivo più di quanto finisca nel testo, ma mi capita spesso di pensare che possa funzionare come incipit di una storia, di una conversazione o di un capitolo. Ho pensato a diversi modi di approfondire il discorso, magari scrivere un memoir o tirar fuori un racconto da una delle mie canzoni. Ma è qualcosa che riservo a un’altra fase della mia vita”.

Qual è, invece, la bellezza del songwriting?

“È un processo unico. Quando un filmmaker o uno scrittore raccontano una storia, nel recepirla lo spettatore usa una parte diversa del cervello, sa che c’è un inizio, una fine e che nel mezzo si svolgeranno degli eventi. La guarda, la legge, reagisce e passa avanti. Con le canzoni è diverso. Hanno un altro tipo di risonanza, tempi più lunghi, toccano parti diverse del cervello e dei centri di piacere. Personalmente ascolto una canzone non per la storia ma per tutti quei piccoli e meravigliosi momenti fonetici di bellezza di parole e melodia che conversano. E fin quando sono certo che chi canta crede in ciò che canta, non ho neanche bisogno di sapere di cosa stia cantando con esattezza. E poi c’è il valore aggiunto della musica”.

Ovvero?

“Ultimamente la musica è mortificata, svalutata. Ma quello che le regole di mercato non sono riuscire a fare è diminuire il valore che ha per le persone. Non so quanti possano dire che un film o un libro li abbia aiutati a superare momenti critici, ma moltissimi possono affermare che una canzone li ha aiutati in momenti bui”.

In Proxy War dici: “dimentichiamo a cosa servono i ricordi. Ora li immagazziniamo nell’atmosfera”. Quale ricordo non immagazzineresti mai?

“Non ne immagazzinerei nessuno, credo. Con la tecnologia, anche quella che uso sul palco per il looping, ho una capienza massima personale. Magari è un mio limite. Non ci aspettavamo che i social media e la tecnologia diventassero una sorta di cervello ausiliario al punto che non si ha più bisogno di interiorizzare le cose. Ormai basta un dito per richiamare un’esperienza, caricare un’immagine. E ci sono rapporti reali in cui c’è totale assenza di fisicità. E io mi chiedo come si fa a non lasciare impronte? Ci deve essere qualcosa di fisico, qualcosa che tocca qualcos’altro. Anche quando tocchi una tastiera con un dito lasci un’impronta. Come la lasci su un divano o su un maglione o anche su una persona. E tutte queste cose hanno memoria di quell’impronta? Mi è sempre piaciuta la parola impronta”.

Quali sono i tuoi primi ricordi musicali?

“Ascoltavo soprattutto musica classica. Diciamo che fino agi ultimi anni delle superiori non ho provato mai un reale interesse per la pop music. Al liceo ero sempre un po’ in disparte: mentre i miei amici ascoltavano soprattutto musica britannica, i Cure, gli Smiths, io ero noioso e ripetitivo con il mio violino e le sonate che provavo e riprovavo a padroneggiare in una lotta molto romantica. Non riesco a immaginare una colonna sonora più drammatica per gli anni dell’adolescenza” (ride).

Quando sono cambiate le cose?

“A un certo punto sono diventato insofferente e ho voluto scoprire cos’altro c’era nel mondo. A 19 anni sono entrato nella mia prima band, facevamo ska-punk, suonavamo cose come i Minutemen, eravamo molto confusi, una di quelle classiche college band che non ha ben chiaro cosa fare e, soprattutto, cosa non fare. Ma non cantavo, almeno all’inizio, perché non mi ritenevo bravo. Poi mi sono appassionato a diversi tipi di folk music, al jazz, al pop, realizzando, in particolare riguardo a quest’ultimo, che grande esperienza di vita potesse essere. Pensa che sto ancora scoprendo i grandi cantautori degli ultimi cinquant’anni. Neil Yoing e Townes Van Zandt li ho davvero scoperti solo negli ultimi sei anni”.

Il fischiettio diventato il tuo marchio di fabbrica, invece, come è nato?

“Avevo sei anni e una sera ho sentito mia nonna fischiettare. Volevo assolutamente sapere come faceva. Alla fine ci sono riuscito e non ho più smesso. Lo faccio sempre, che sia triste o felice, se non dormo o mentre parlo, a volte persino mentre mangio. Non ci è voluto molto per dirmi: e se fischiettassi mentre canto o sono sul palco? (ride). Lo so, lo si associa spesso a qualcosa di stravagante, ma io credo sia invece qualcosa di molto potente”.

Molto potenti sono anche le parole che usi nei tuoi testi. Eppure ogni volta che si legge una recensione di un tuo disco o un commento online su una tua canzone, c’è un tema ricorrente: l’uso di termini “complessi”, che qualcuno ha definito “GRE-level” (ligua di levello post-laurea, ndr) come se fosse un problema.

“Davvero? Non so se prenderlo come un complimento. Non posso dire di condividere il giudizio sulla presunta complessità o livello post-laurea dei miei testi, perché mi pongo dei limiti: se una parola è goffa o sembra uscita da una tesi di dottorato di certo non la uso. So riconoscere la differenza”.

Perché, secondo te, si ha paura delle parole complesse e della complessità?

“Bella domanda. Me lo chiedo sempre anche io. Non lo capisco. Immagino sia frutto di insicurezza o qualcosa di simile. Mi chiedo: che problema c’è a usare la nostra lingua? È stato sempre così, almeno in America, atleti contro secchioni tipo Atene contro Sparta. È tutto un “ah, tu usi questo per farci sentire stupidi”. E io mi chiedo perchè? Perché abbiamo così tanta paura dell’intellettualismo e dell’intelligenza?”

Detto ciò, se dovessi descriverti in tre parole “complesse”?

“Non lo farei…” (ride).

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