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Intervista a Neil Hannon (The Divine Comedy): “Sono la persona da cui non posso scappare”

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di Letizia Bognanni

Parlare con Neil Hannon, mente (vulcanica), voce e anima musicale di quella strana creatura che risponde al nome The Divine Comedy, significa passare con disinvoltura da Napoleone a Kenny Loggins, da Euripide agli Wham, dalla commedia alla tragedia senza soluzione di continuità. Un po’ come capita ascoltando gli album prodotti nel corso dell’ormai quasi trentennale carriera. Nei sedici brani di Office Politics, lavoro numero dodici uscito il 7 giugno su Divine Comedy Records, si parla delle “macchine infernali” di cui non riusciamo più a fare a meno, di Trump e del logorio della vita moderna, ma anche di amore, perché in fondo “ci provo a fare album normali”, dice il cantautore irlandese. Certo, fra provare e riuscire, “ci sono i synth. E brani sui synth. Ma niente panico, ci sono anche chitarre, orchestre, fisarmoniche e canzoni sull’amore e sull’avidità”. E come sempre, tanti personaggi a popolare gli “strani territori” creati da un’immaginazione e uno stile sempre particolari e riconoscibili, probabilmente perché, confessa, dentro ogni personaggio c’è tanto Neil.

Il prossimo autunno i Divine Comedy porteranno in giro l’album – che è stato scritto, prodotto e arrangiato da Hannon e registrato in Irlanda e a Londra, con i contributi alla voce di Chris Difford, Cathy Davey & Pete Ruotolo – in una serie di date in Inghilterra e Irlanda. Niente Italia per il momento, dovremo accontentarci dell’album, magari ascoltato al lavoro mentre litighiamo coi nostri computer.

È sempre difficile definire i tuoi dischi. Questo come lo descriveresti?

“Lungo”. (ride)

In effetti…

“Dura 60 minuti. È più del necessario. È anche un disco bizzarro direi, piuttosto strano ma anche divertente spero, e provocatorio. Ci sono molti synth, cosa piuttosto inusuale per me, ma sono un bambino di fine anni ’70, inizio ’80, quindi conosco bene il synth-pop”.

Il tuo ultimo album sembrava essere più personale, questo sembra una raccolta di racconti. Quanto c’è di Neil nei personaggi?

“Oh, c’è sempre un sacco di me. Sono la persona da cui non posso scappare. Credo di usare tutti i personaggi per cercare di mettere una distanza fra me e me stesso. Parte della ragione per cui si fa musica e si scrivono canzoni o si fa arte in generale è mettere te stesso nell’esistenza di altre persone. Qualche volta ci provo semplicemente immaginando una storia di persone che ho inventato”.

Anche da un punto di vista più strettamente musicale sembra che intepreti dei “personaggi”, come il crooner in Norman and Norma o I’m a Stranger Here, o l’artista “industrial” in Infernal Machines, il darkettone in Dark Days Are Here Again… Mi viene da chiedermi se quando scrivi pensi alla musica come a una colonna sonora per la storia che racconti.

“In realtà è un po’ come l’uovo e la gallina, non so cosa viene prima nelle mie canzoni, se la musica o l’idea per il testo. A volte vengono fuori nello stesso momento, altre separatamente e poi le metto insieme. Parlando di Infernal Machines per esempio, so precisamente da dove è venuta, stavo leggendo un libro su Napoleone. La prima macchina infernale di cui abbiamo sentito parlare è la bomba sul carretto con cui tentarono di assassinare Napoleone, costruita con una botte piena di chiodi che schizzarono via dopo il passaggio dei cavalli. Ad ogni modo non è questo il punto (ride). Mi ricordo la sensazione, il ritmo delle parole. “machines that do this machines that do that” e questo ha portato immediatamente il ritmo “da-da-da-da-da, da-da-da-da-da”, e poi mi sono chiesto cos’ altro ci sarebbe stato bene, tipo un “du-dudududu, dudududdu”, e la canzone si è scritta da sola”.

A proposito di Infernal Machines, ascoltandola – ma ascoltando tutto il disco in realtà – sembra che tu non abbia un bel rapporto con la tecnologia.

“Assolutamente. Ho una pessima relazione con le macchine e la tecnologia. A dire la verità è una giornata particolarmente negativa perché il computer che uso per creare le basi per il live ha deciso di non funzionare, e ieri funzionava bene, accidenti! Sì, non sono un fan dei social, non capisco a cosa servano, mi sembrano solo una perdita di tempo. È come se non potessimo farne a meno, quando fino a quindici anni fa tutto questo non c’era, trovo inquietante che all’improvviso non riusciamo a stare senza connessione, e che abbiamo bisogno di sentirci dire chi siamo, e cosa dobbiamo comprare…”

Dark Days è stata scritta il giorno dopo l’elezione di Trump. Quindi c’è anche un altro significato del termine “political” del titolo?

“Sì. Non scrivo spesso canzoni politiche ma penso che quello che sta succedendo in questo momento nel mondo sia completamente folle. Se qualcuno ci avesse detto che un giorno Donald Trump sarebbe diventato presidente, magari negli anni novanta, l’avremmo guardato tipo “Ma come ti salta in mente? Non potevi scegliere una persona peggiore per questo lavoro!” E in Europa non va meglio. Ma è importante che chi non vuole il fascismo, perché si tratta di fascismo, continui a dire “No”, perché se non diciamo niente, se non lottiamo, allora ce lo meritiamo”.

Ci sono sempre molti riferimenti letterari nelle tue canzoni. Hai mai pensato di scrivere altro?

“Ci ho pensato, ma credo di essere troppo pigro. Scrivere un libro è difficile, ho scritto le prime due pagine di un sacco di libri, ma dopo le prime due pagine non so cosa fare. Probabilmente per farlo dovrei abbandonare la musica per un paio di anni ma mi piace troppo fare musica, e perché lasciare qualcosa che ti piace per una che forse non sei in grado di fare?”

Leggevo che Synthesiser Service Centre Super Summer Sale ha preso forma durante l’ultimo tour, in un giorno libero sulle Alpi italiane. Non sembra una canzone ispirata a un paesaggio alpino. Da dove è venuta fuori?

“È una canzone stupida. Non è nemmeno una vera canzone, è una lista: qualcuno aveva detto qualcosa sui centri di assistenza per i sintetizzatori, penso fosse il nostro tecnico delle chitarre e ho pensato: “Davvero? Interessante”. E mi sono appuntato la frase. E poi Andrew ha menzionato una super svendita estiva. E io mi sono scritto scritto anche quello. E ho immaginato che una super svendita estiva in un centro di assistenza per sintetizzatori, sarebbe stata ancora più divertente. E poi ho immaginato una specie di grande cartello che la pubblicizzava. Mi sono sempre piaciute le canzoni con delle liste, credo che in un certo senso forniscano anche un servizio (ride). Allora mi sono detto, se scrivessi una canzone del genere, con una lista di lista di tutti i sintetizzatori del mondo, sarebbe d’aiuto per tutti. Ed è questo che abbiamo fatto guardando le Alpi dalla finestra. Ci siamo messi a cercare e mettere insieme tutti i sintetizzatori esistenti al mondo. È così che abbiamo trascorso il giorno di riposo”.

Facciamo il gioco di “psychological evaluation”. Prima domanda: che cosa stai ascoltando?

“Be’, mi piace della musica molto strana degli anni ’50 e ’60, sto ascoltando parecchio Nino Rota, e Kenny Loggins, Footloose, hai presente?, Elvis Costello, gli Squeeze, Ian Dury and The Blockheads. Mi piace molto Weyes Blood.

In effetti si sente un po’ di Nino Rota, o di quel genere di colonna sonora, in A Feather In Your Cap.

“Sì, mi piace quella canzone anche perché sembra una ballad degli anni 80, una cosa alla Wham. O alla Scritti Politti”.

Tipo le band che nomini in Psychological Evaluation, appunto…

“Esattamente. In quel periodo ero un po’ piccolo per comprare i dischi, ma mi ricordo quando OMD, Human League, Depeche Mode, andavano a Top Of The Pops, e mi piacevano da morire. Prima di loro la musica mi sembrava terribilmente noiosa”.

Seconda domanda: Cosa stai leggendo?

“Sto leggendo Le Storie di Erodoto. Lo sto leggendo davvero, non è una bugia. Mi piace la storia ed Erodoto è molto interessante perché è come leggere un libro di storia prima che fosse inventata la storia. È affascinante”.

Terza: Hai qualche rimpianto?

“Un sacco! No, non è vero. Ho pochi rimpianti. Mi piacerebbe essere più portato per le lingue. Ho provato a imparare delle lingue straniere ma sono tremendo, non ricordo le parole, ho una pessima memoria”.

Stavo leggendo un po’ di vecchi articoli e recensioni sui Divine Comedy, ed è impossibile non notare quanto spesso ricorra il nome di Scott Walker. Come hai vissuto la sua morte?

“Non sono mai troppo triste quando muore qualcuno, perché la vita fa schifo e le persone muoiono, ma è sempre brutto quando pensi “è finita, niente più dischi per noi”, ma ovviamente credo che sia stato molto più triste per chi era suo amico. L’ho incontrato una volta ed è stato bello, ho fatto un po’ il fanboy. È stata una grande influenza per me. Quando avevo forse diciannove/vent’anni l’ho sentito per la prima volta e non ho più smesso per i successivi due anni, davvero, è stato l’unica cosa che ho ascoltato per un paio d’anni. Ha significato molto per me e mi ha portato a scoprire altre cose, come Jacques Brel, che non avevo mai ascoltato”.

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