Home Magazine Editoriali Editoriale 328: Musicisti e contabili

Editoriale 328: Musicisti e contabili

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Di Rossano Lo Mele

Qualche tempo fa il giornalista e pubblicitario britannico Ian Leslie ha scritto un long form parecchio divertente dal titolo A Rocker’s Guide To Management: è uscito su “1843”, supplemento culturale del periodico inglese “The Economist”. Nel saggetto Leslie notava come sempre più le band musicali si gestiscano e vengano gestite come aziende. E, per emulazione, segnalava il fenomeno inverso: tutte le grandi company digitali odierne offrono all’utente quell’idea d’informalità propria delle band rock. È interessante osservare le categorie gestionali descritte da Leslie, spiluccando la storia del rock. Ci sono band che hanno messo davanti a tutto l’idea di amicizia. Come i Beatles, che così si auto rappresentavano al mondo. Ma quando il rapporto di amicizia salta, tutto si frantuma. Come nel caso delle porte girevoli e delle relazioni interne che da sempre hanno caratterizzato la line up dei Fleetwood Mac. Proseguendo, per Leslie ci sono poi le dittature. Tipo quella applicata, pur sol sorriso sulle labbra, da Bruce Springsteen con la E-Street band e dalla buonanima di Tom Petty con i suoi Heartbreakers. Spesso si tratta di rapporti nati paritari che i manager – con un mashup di saggezza e avidità – convertono in dittature. Ancora: esistono le democrazie, tipo i R.E.M., una band a struttura decisionale piatta, dove tutti percepivano gli stessi guadagni. Stesso dicasi per i Coldplay. Di questa categoria gli Smiths rappresentavano l’eccezione, giacché sin dall’inizio Morrissey e Johnny Marr pretesero e ottennero una percentuale di ricavi maggiore rispetto a quella di Andy Rourke e Mike Joyce. Infine, seguendo la morfologia di Leslie, esiste la categoria dei nemici-amici: naturalmente incarnata dal duopolio Mick Jagger-Keith Richards che da sempre anima i Roling Stones. Un accordo di non belligeranza che ha condotto Leslie a scrivere che se Jagger è l’amministratore delegato dell’azienda, Richards ne è di certo il direttore di produzione.

Tutte storie croccanti, a loro modo mitiche come mitico è divenuto tutto ciò che oggi lambisce la legacy rock. Ma noi preferiamo le storie minori, le maglie rotte nella rete per dirla con la celeberrima poesia di Eugenio Montale. E di buchi nella rete dei Doves ce ne sono stati tantissimi. La parabola dei Doves è un’anomalia nella storiografia musicale. Nati tra i banchi di scuola e il bancone dell’Hacienda a Manchester nei tardi anni 80, nella piovosa provincia nord occidentale inglese. Formati da Jimi Goodwin e dai due gemelli Williams, Andy e Jez. La band nasce però con un altro nome, Sub Sub: compongono musica elettronica che ottiene un certo successo commerciale grazie a una manciata di singoli. A quel punto siamo già a metà anni 90: l’Inghilterra e non solo si accende grazie ai fuochi dell’elettronica e del big beat dei vari Prodigy, Chemical Brothers, Fatboy Slim, Underworld e compagnia. L’elettronica divora le classifiche, si fa commestibile: prima ripudiata da tanti perché fredda e inanimata, di colpo rappresenta il nuovo rock. E, mentre tanti virano più o meno scaltramente verso l’elettronica di consumo, i Sub Sub che fanno? Cambiano nome in Doves e prendono in mano le chitarre. 

I Doves esordiscono a inizio millennio e punteggiano tutti gli anni zero con un suono delicato quanto iterativo, concettualmente figlio dell’elettronica ma adagiato su canoni nazionali, figlio di Smiths, Durutti Column, Felt. Unici, in quel momento storico: e con quattro dischi in un decennio cementano la loro identità. Poi però qualcosa si rompe, dieci anni fa esatti, durante la realizzazione dell’album Kingdom Of Rust. I tre impiegano tre anni per concluderlo. Jimi abita a 30 km dallo studio e durante ma soprattutto alla fine del processo è spossato, gli sembra di timbrare il cartellino ogni giorno. Cresce la depressione più che i malumori, i tre si dedicano a progetti solisti e la band di fatto entra in un coma prolungato quanto non conclamato. L’idea di passare il resto della vita in un van da caricare dopo aver suonato, guidando di notte, con figli adolescenti a casa, di colpo non è più la priorità. Si allontanano fra di loro e solo di recente realizzano che da quel distacco sono trascorsi ormai dieci anni. Decidono perciò d’incontrarsi un anno fa per un kebab, stabilendo che avrebbero ripreso a suonare solo nel momento preciso in cui tutti e tre sarebbero stati “sulla stessa pagina”, come dicono gli inglesi. Quel momento è arrivato. Le ristampe dei primi, meravigliosi dischi e un tour sono entrambi imminenti. Un disco nuovo arriverà. Hanno sempre fatto tutto al contrario, i Doves: allontanarsi dai trend e dal successo nei momenti sbagliati. Ma diversamente che gusto c’è a sognare i sogni che già tutti sognano?  Come ha dichiarato Jimi: “Essere in tre è la forma peggiore per una band. Se sei in quattro almeno hai uno con cui poter stare. Ma in tre? Due stanno sempre da una parte e uno dall’altra”. Magari bastasse, magari: guarda come sono finiti Beatles, R.E.M. e Smiths. Qualcuno avverta Chris Martin, va.  

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