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Keith Flint, l’appicca fuochi dei Prodigy non c’è più

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keith flint prodigy rip

di Nicholas David Altea

Keith Flint dei Prodigy non c’è più, ma ci è voluto pochissimo per non dimenticarsi mai più quella faccia con le creste, all’occasione verdi, rosse o decolorate.

Una tv in cucina. Una di quelle a tubo catodico pesanti come macigni: Grundig per l’esattezza. E quel video che passa nel 1997 (o forse era già il 1996) di un tizio davvero strano che non capivo ma mi attirava. Quelle due creste: un doppio punk. Uno che ha fatto il salto doppio in vita sua, forse triplo. Ti dava quella sensazione di proibito insita in molti pischelli o giovinastri ancora con troppi o nessun punto fermo nella musica. Almeno per me, in quel momento. Come quando guardi un film horror: hai paura ma allo stesso tempo non puoi distogliere lo sguardo. Quel video in bianco e nero, claustrofobico e ipnotico allo stesso tempo era Firestarter dei Prodigy. Ti batteva sul petto a ritmo sincopato, e ti toglieva il fiato allo stesso modo, con lo stesso ritmo.

Keith Flint non era solo un ballerino che si era messo a cantare (solamente) dal terzo disco in poi (The Fat Of The Land del 1997 ma che in origine si sarebbe dovuto chiamare Mind Blower) dei Prodigy, band fondata a Braintree, Essex (UK). Era quello che ci aveva messo la faccia – creste e piercing alla lingua, annessi. Quella testa che almeno per un giorno abbiamo imitato col gel allo specchio: “Le creste come quello dei Prodigy”, esclamavamo a 12 anni. Salvo poi sciacquarci i capelli e tornare a qualcosa di più cauto e contenuto per evitare rotture. Aveva dettato un’estetica estrema, 20 anni dopo il punk, con quella voce dal forte accento dell’estuario del Tamigi che si infrangeva violenta nel sample percussivo dei Ten City in Devotion – anch’essi già avanti anni luce, in quella che si sarebbe poi chiamata deep house.

E poi quell’”Hey Hey Hey” che risuonava da altre epoche in un tunnel infinito della metropolitana abbandonata di Aldwych, a Londra, in zona Westminster. Tre lettere prese e campionate da altri che coi sample e l’elettronica ci andavano a nozze – gli Art Of Noise col pezzo Close (to the Edit).

Mettete assieme tutto questo: l’impatto sonoro e quello visivo. Potenti in egual misura. Qualche manager moderno direbbe disruptive, noi ci accontentiamo di un meno altolocato dirompente. Un risultato devastante e nichilista, contro tutto e tutti, verso una nuova intenzione di rave culture per menti aperte e per amanti del rock ibrido ormai non più snob. “Mi piacerebbe che fossimo una dance band alternativa con energia. Non vogliamo abbandonare la caratteristica dance e scrivere canzonacce rock’n’roll, ma è l’energia è ciò che ci interessa in questo momento” raccontava Liam Howlett (cofondatore dei Prodigy insieme Flint, Leeroy Thornhill e Maxim) a Giorgio Valletta nel numero 57 di Rumore nel 1996 con la linguaccia di Keith in copertina.

“Odio i Kraftwerk, hanno a che fare con noi quanto i Duran Duran e non ascolto alcuna musica techno […] mi piace veder suonare i Rage Against The Machine, sono la band più aggressiva che conosca”, sempre Liam Howlett nel numero di Rumore.

Nella musica (ma non solo) ci vuole sempre che qualcuno si prenda la responsabilità di abbattere delle barriere: come tra puristi del rock e infognati di elettronica e club culture. Big beat come termine suonava perfetto ma non lo introdussero di certo loro. Ci vuole il wah-wah degli indie rocker Breeders di S.O.S. per entrare nelle grazie di chi prima schifava “quella roba non suonata”.

È bastato uno sguardo per non dimenticarsi mai più quella faccia con le creste, all’occasione verdi, rosse o decolorate. Qualcuno ha visto Flint giorni prima di essere trovato morto suicida in casa sua: era a una gara podistica “in grande forma e spirito alla Chelmsford Parkrun stabilendo il suo record personale di circa 21 minuti”, come recita un tweet con foto. Anche se all’apparenza tutto era normale, Keith dal tunnel di quella metropolitana abbandonata, mentre le luci si spegnevano, non ne è mai uscito.

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