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L’equilibrio perfetto dei Balthazar a Milano

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Negli ultimi anni, mentre alcune testate generaliste facevano a gara a chi dichiarava la morte del rock più volte nello stesso mese, i Balthazar sfornavano un singolo più bello dell’altro. Pezzi come Bunker o Fever sono oggettivamente canzoni efficaci, dirette ma mai ruffiane, di quelle che al secondo ascolto si appiccicano addosso, che tu lo voglia o no. Lo dimostrano anche i numeri: più di un milione in tre mesi per la prima sia su Youtube che Spotify e 4 e 11 milioni per la seconda, che per una band belga non sono niente male.

Ma derubricare i Balthazar a band rock sarebbe riduttivo. In realtà la band di Marteen Devoldere e Jinte Deprez fin dal suo primo album si muove su una sottile lingua di terra che unisce il brit-pop ad alcuni stilemi dell’rnb. Una terra che in tutta Europa solo loro hanno reclamato e conquistato, almeno fino all’anno scorso, quando gli Artic Monkeys hanno tentato un’invasione con Tranquillity Base Hotel & Casino, dai risultati controversi. Non è certamente un clone o un plagio, gli Artic Monkeys pur cambiando completamente veste hanno mantenuto la loro forte personalità, ma ci sono alcune affinità che non possono non saltare all’occhio: prima fra tutte il basso.

Fate un esperimento: se avete un amico al quale piace l’ultimo degli Artic Monkeys fategli ascoltare i Balthazar e nel giro di due mesi diventeranno la sua band preferita.

Chissà che questo esperimento non l’abbiano già fatto in tanti, perché vedere una Santeria soldout con loro sul palco non è banale.

Il concerto dei Balthazar è come una serata fra conoscenti che si ritrovano in un bar ma non hanno molta confidenza fra loro. Si inizia con un aperitivo per rompere il ghiaccio, due parole, si prendono le misure e si capiscono gli argomenti in comune. Piano piano si avviano conversazioni e si prende confidenza. Si decide allora di andare a cena insieme, il vino inizia a scorrere e si inizia a fare battute, a divertirsi, ci si sente un gruppo unito. Alla fine, colui che viene identificato come il trascinatore del gruppo propone una serata in discoteca e si finisce con lo svegliarsi la mattina successiva ancora sbronzi, senza ricordarsi bene cosa sia successo.

Esistono tre modi di iniziare un concerto: con il pezzo di apertura dell’ultimo album, con un singolo forte per rompere subito il ghiaccio, o con una canzone relegata infondo a qualche album, che solo i fedelissimi riconoscono subito. Loro hanno scelto la terza via, che forse è anche la più difficile e audace.

La serata inizia così, con due pezzi per studiarsi un po’, Roller Coaster e The Boatman con i quali si passa subito dall’ultimo al primo disco. Il pubblico è ancora un po’ freddino, bisogna prendere confidenza ma arriva subito Sinking Ship a trovare un punto di contatto, un’argomento in comune con tutti. Inizia a scaldarsi l’atmosfera e si inizia ad intuire che sarà un concerto in costante crescendo.

La cena è servita da Wrong Vibration e Decency e da qui in poi non molleranno più: come quei camerieri solerti che continuano a riempirti il bicchiere prima che si svuoti completamente e nel giro di mezz’ora sei già ubriaco.

La musica dei Balthazar è sorretta da una struttura minimale, dove solo lo stretto indispensabile sopravvive. È come guardare una radiografia di una canzone e il live è la retroilluminazione della lastra.

Tutto si sorregge sul basso, è un’impalcatura solida che si prende sulle spalle tutta la band e permette agli altri di fare solo quello che da un valore aggiunto al pezzo, senza perdere tempo a riempire un suono che è già completo così.

Con la batteria formano un corpo unico, un’organismo che vive di vita propria in cui tutto è perfettamente calibrato. È come vedere un duo di nuoto sincronizzato alla finale delle olimpiadi.

In tutto questo la dualità e la complicità dei due cantanti crea una commistione unica, che non si trova in nessun’altra band. I pezzi sono perfettamente dosati per dare a entrambi il loro spazio ed è come se si completino a vicenda. Uno (Devoldere) con la sua voce che parte felpata e profonda, ma poi capace di dare grande incisività e rabbia; l’altro (Deprez) con un piglio più rnb, capace di coprire un registro basso e di dare molta fluidità ai pezzi. Ognuno dei due riesce a dare qualcosa che l’altro non ha e viceversa. Pur assomigliandosi molto come timbro, in realtà sono due voci completamente diverse.

L’unica cosa in cui peccano è la tenuta del palco, perché nessuno dei due riesce a prendersi la scena. Devoldere è molto bravo a interagire con il pubblico mentre canta, ma poi nelle parti strumentali o quando canta l’altro sembra vagare in uno spazio vuoto. Deprez prova a prendersela la scena e forse è un po’ più disinvolto nei movimenti, ma dal suo linguaggio del corpo traspare inesorabile la timidezza. Da un lato questo li fa sembrare più umani, da più empatia, ma dall’altro si perde la figura carismatica di riferimento, che per alcuni è forse più importante della musica stessa.

Il taxi che ci porta in discoteca è Blood Like Wine da Applause del 2010, pezzo che sul palco diventa meraviglioso, dilatato per un finale che manda tutto il pubblico in delirio, prima dell’affondo finale.

Dilatazioni e variazioni non sono un caso isolato, la band sul palco porta un valore aggiunto, perché non si limita a eseguire. Alcuni pezzi vengono portati su un altro livello rispetto al disco e anche sui pezzi nuovi azzardano qualche variazione. Un rischio, perché quando costruisci una scaletta in crescendo, da metà concerto in poi la riconoscibilità dei pezzi è fondamentale, altrimenti il pubblico perde il ritmo. Ma è un rischio che si sono giocati molto bene, senza esagerare.

Il finale viene affidato all’accoppiata Fever/Entertainment. La prima viene completamente affidata al giro di basso per gran parte della canzone: un riff killer, che se fosse uscito una decina di anni fa sarebbe diventato un coro da stadio, al pari di Seven Nation Army dei White Stripes. I sei minuti diventano sette e più, con un gran finale in cui tutto il pubblico viene coinvolto con cori a due voci.

Il bis invece sembra un momento dedicato alla band più che al pubblico, come se dopo averlo soddisfatto con i pezzi più famosi si concedessero un momento per loro, per suonare quello che li diverte di più. Un momento in cui si lasciano andare completamente incappando anche in un incidente curioso: sul finale di I Looked For You, Devoldere preso dalla foga lancia per terra l’asta del microfono (di quelle con la base tonda, piuttosto pesante) che casualmente cade dritta sul cavo del microfono e lo trancia di netto. Sull’inizio di Do Not Claim Anymore che chiude il concerto, infatti dovranno temporeggiare un po’ in attesa del cambio di cavo, ma anche qui l’esperienza serve e quasi non ci si accorge di nulla.

I Balthazar oggi sono una macchina perfetta, pronta per il grande salto, matura ma non ancora così famosa da essere costretta a cambiare pelle per soddisfare le apettative del pubblico meno abituato ai concerti “veri”.

Il momento migliore della loro carriera per vederli dal vivo era questo 20 febbraio in Santeria a Milano.

Il loro live è stato un equilibrio perfetto, un surpluce di classe cristallina. Oltre ad essere musicisti eccelsi senza aver bisogno di farlo pesare con assoli e orpelli inutili, hanno anche una visione precisa della musica che vogliono costruire, sia in studio che sul palco: moderna, attuale, minimale, ma senza rinunciare alla matrice rock dalla quale provengono.

Forse l’ultima band nata negli anni zero ad aver ancora tanto da offrire ai fan di un genere che spesso perdono troppo tempo a rimpiangere il passato, invece di lasciarsi stupire da quello che hanno da offrire il presente e il futuro.

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