Intervista: Marta Salogni (produttrice/mixer/ingegnere del suono per Björk, Frank Ocean, M.I.A, The xx) + 30 canzoni x Rumore

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Nicholas David Altea ha intervistato Marta Salogni, giovane produttrice, ingegnere del suono e mixer che ha lavorato all’ultimo album di Björk, Utopia.

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di Nicholas David Altea

Nel mondo dell’industria musicale non basta solo essere dotati, ci vuole volontà e sacrificio, soprattutto all’inizio. Marta Salogni, finite le scuole superiori, decide che Londra sarebbe stata la tappa fondamentale della sua vita. Anche se sono cose che non si decidono così, dall’oggi al domani, la capitale inglese era l’obiettivo primario: una sorta di tappa zero da dove partire ufficialmente e addentrarsi nel mondo della produzione musicale che, a tutti gli effetti, per lei è iniziata Oltremanica. Tante porte a cui bussare mettendoci la faccia, conoscendo persone e facendo vedere che quello che vuoi puoi ottenerlo, ma solo con tanto impegno. Quando ce lo racconta al telefono la voce è ferma, decisa, con un forte accento inglese che lascia trasparire le origini bresciane (Capriolo per l’esattezza) anche dopo sette anni di vita londinese. Marta Salogni è una tra gli ingegneri del suono più richiesti, soprattutto in fase di mixaggio, una parte importantissima della riuscita di un disco: l’azione in cui si regolano e si adattano suoni e strumenti diversi per far sì che siano in armonia tra loro. Qualche giorno fa è stata anche inserita nelle nomination tra i migliori ingegneri del suono emergenti per i Music Producer Guild Award 2018. Ha lavorato con The xx, M.I.A., Tracey Thorn, Frank Ocean, Bloc Party, Goldfrapp, Factory Floor, White Lies, Phil Selvay (Radiohead), Liars e moltissimi altri. Recentemente Björk l’ha voluta in Islanda per il mixaggio del suo ultimo album, Utopia, in uscita il 24 novembre. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Marta che ci ha raccontato le prime difficoltà e le prime soddisfazioni, ma anche alcune disparità di genere, che in un lavoro ancora dominato da una forte componente maschile, restano.

Qua sotto, mentre leggete l’intervista, potete ascoltarvi la playlist che ci ha composto Marta per l’occasione,  con dentro vari brani e artisti per i quali ha fatto mixaggi, produzioni, engineering e assistenze.

Quando ti sei accorta che saresti voluta diventare ingegnere del suono o comunque  lavorare nell’ambito della produzione?

Marta Salogni: “Me ne sono accorta più o meno verso i 16 anni, quando andavo ancora alle superiori. Mi affascinava che oltre alla musica come forma d’arte, ci fosse anche una parte scientifica che riconducesse alla fisica o alla matematica; e il fatto che attraverso queste materie si potesse sviluppare e modellare la musica come arte, era una cosa che mi attraeva”.

Con quali studi ti sei avvicinata a questo mondo?

Marta Salogni: “Prima degli studi ho iniziato a lavorare sul campo: ho fatto la fonica ai concerti live ed ho conosciuto questo ingegnere (Carlo Dall’Asta) che mi ha presa per dargli una mano e mi ha insegnato molto: andavo con lui a affittare i mixer e fare i soundcheck alle serate. Finite le superiori, nel 2010, mi sono trasferita a Londra per proseguire su questa strada: ho fatto un corso molto veloce, della durata di 9 mesi, per imparare a lavorare con Pro Tools e approcciarmi al lavoro in studio che mi aveva sempre affascinato”.

Quali difficoltà hai riscontrato all’inizio?

Marta Salogni: “Prima di tutto la difficoltà era riuscire a entrare e mettere un piede nel circuito degli studi, che è la cosa meno immediata. Una volta che ci sei dentro e dimostri buona volontà, la voglia di lavorare duro e la passione, allora la possibilità di entrare ti viene data ma ci vogliono tanti sacrifici. Nel primo studio in cui ho lavorato qui a Londra ci sono entrata in contatto chiamando e non mandando mail, perché mi pareva troppo impersonale. Anche più tardi ho capito che mandare mail non ha mai funzionato. Sono poi andata personalmente a bussare alle porte di questi studi dei quali mi ero informata e mi proponevo di aiutare, ma non di mettere le mani sul mixer. Soltanto aiutare: fare il te o i caffè come assistente. La paga è pochissima quando inizi a lavorarci, ma nemmeno come assistente, proprio come runner. L’altra difficoltà è riuscire vivere a Londra che è una città cara dedicando quasi tutta la tua giornata a quel lavoro”.

È un ambiente che però alla fine premia, se fai vedere che hai buona volontà, vero?

M.S.: “Le qualità che più servono sono la costanza e la volontà, volersi spremere fino all’ultimo ed essere una persona che si sa rapportare con gli altri. Lavorare nella musica vuol dire lavorare con i valori e i sentimenti di altre persone che sono molto suscettibili. Devi portare a termine un compito che è, sì reale, ma anche intangibile”.

Anche perché poi vai toccare e modificare l’arte di un musicista alla quale è molto legato perché è una sua creazione ed è solo sua.

“Esatto, è come se uno ti invitasse nella propria stanza. Devi avere rispetto di come questo artista è abituato a lavorare e del loro grado di confidenza che si sentono di darti perché si trovano a loro agio. Certe persone ti danno molto, certe mantengono più distanza. Devi fare in modo che gli artisti abbiano fiducia di te perché tu possa sviluppare la loro visione. E che la loro visione sia la loro, non la tua, perché non ti appropri della loro arte e la distorci. Non funziona così. È una questione di sensibilità e rispetto nei confronti della persona con la quale si collabora”.

Ti è successo di trovarti di fronte a situazioni in cui l’artista tenesse molta distanza e non foste riusciti a trovare un feeling in fase di elaborazione?

“Non mi è mai successo di dover abbandonare un progetto perché non si fosse trovato un feeling, ma mi è successo di constatare che con alcuni artisti con cui ho lavorato, fossero meno disposti e meno aperti a volere instaurare un rapporto che mi permettesse, fin dall’inizio, di capire la direzione che avremmo preso. Alcune volte è anche caratteriale la questione: c’è chi si sente a suo agio e chi vuol mantener questa distanza. Spesso questo è determinato da alcune loro insicurezze in fase di sperimentazione perché devono ancora capire cosa vogliono. Il ruolo importante di un produttore è quello di aiutare l’artista a capire qual è la visione, come svilupparla,  provare delle cose diverse per fare in modo che anche loro capiscano la direzione che vogliono e quella che non vogliono prendere. Lavorando in due o in team si arriva a conoscersi sempre meglio, molto più che un semplice rapporto professionale”.

Quindi fai anche un po’ da psicologa?

“Un po’ da psicologa, un po’ da confidente, un po’ da complice, un po’ da amica, un po’ da sorella”.

C’è stato qualcuno degli artisti con cui hai lavorato che è stato molto estroverso e molto introverso?

“Mi è stata molto a cuore Björk perché la sua generosità è stata importante per me, soprattutto molto diretta sulla sua visione nel modo in cui descriveva il significato di una canzone. Ad esempio, tutte le canzoni del disco hanno un mix molto diverso perché rappresenta il significato della canzone. Se una canzone parla di questioni di intimità il suono deve avvicinarsi a quello. Avendo la responsabilità di dover accentuare queste sensazioni mi spiegava con immagini molto vivide come lei voleva che questa canzone suonasse. La sua apertura mi ha aiutato molto”.

E altri?

“Ci sono persone che dicono meno: ti danno la canzone e vogliono vedere cosa succede; che è la cosa che è capitata anche con Björk all’inizio, mi hanno dato una canzone (The Gate) e pochissime direzioni per vedere se noi eravamo in sintonia mentalmente senza mai che ci fossimo parlate. Altri semplicemente vogliono dare totale libertà ed essere sorpresi”.

La produzione musicale è per così dire principalmente occupata da uomini. Ti sei mai sentita sminuita da qualcuno o trattata con diffidenza semplicemente perché donna?

“Adesso non mi capita più perché gli artisti mi chiamano per lavorare con me, ma ci sono state delle occasioni agli inizi in cui è successo. Conosco molte donne qui a Londra che sono ingegneri del suono e succede tutt’ora. Magari ci sono degli artisti che non hanno mai lavorato con una donna: parte un commento o anche cose un poco più sottintese, come il dubitare che una donna non abbia lo stesso livello di preparazione di un uomo a causa di questa concezione molto antica delle professioni più ingegneristiche ad appannaggio dei soli uomini. C’è una disparità forte, se vai a vedere non ce ne sono molte che fanno questo lavoro anche se ora sono in crescita rispetto ad un volta”,.

Ti capita di incontrarle?

“Faccio molte conferenze soltanto per donne o incontri per sviluppare una presenza femminile o non gender nella musica. Piano piano stiamo sviluppando a Londra un collettivo, essendo una minoranza ci guardiamo alle spalle l’una con l’altra e ci proteggiamo a vicenda. Se a qualcuno succede qualcosa, ci siamo noi come collettivo che rispondiamo: è una presenza molto forte. Altre organizzazioni ci stanno dietro e ci spingono. Ovviamente per risolvere il problema della disparità ci vorranno anni, ma il modo in cui stiamo lavorando per risolverlo sta funzionando”.

Quindi come anche in altri settori lavorativi la disparità di genere (o gender-gap) esiste anche nella music production?

“Sì, esiste ancora. Se fai caso alle fotografie delle sessioni in studio dei primi anni 70, non ci sono quasi mai donne. Bisogna cercare di andare sopperire a questa mancanza, perché è da questa assenza che se una ragazza non vede un modello da seguire farà più fatica ad appassionarsi. Per me è stato difficile iniziare questo lavoro perché non c’erano molte donne a cui potevo ispirarmi. Bisogna creare questi modelli per queste ragazze ingegnere del futuro e che possano dire ‘se lo ha fatto lei lo posso fare anche io”.

C’era qualche donna in ambito di produzione musicale a cui ti eri ispirata o che ti ha dato qualche consiglio?

Delia Derbyshire, che era una compositrice e ingegnere inglese della BBC e poi Daphne Oram, sempre della BBC. Ricordo poi di aver letto un sacco di tempo fa un articolo dove si parlava di Leslie Ann Jones che lavorava per gli Skywalker Studio della Lucasfilm. Mi aveva affascinato tantissimo perché ha lavorato con Miles Davis, ha lavorato ai Capitol Studios e ha vinto dei Grammy. Incredibile”.

Ho visto che hai tenuto dei workshop ai Red Bull London Studios. Come sono andati?

“Questi workshop aperti alle ragazze sono andati benissimo. È bello vedere così tante donne interessate. Non mi era mai capitato di vederne tante in uno studio di registrazione. Sono queste le cose che mi fanno sentire fortunata nella posizione in cui sono, ma soprattutto meno sola”.

Puoi essere d’ispirazione per loro…

“Posso esserlo per loro e loro lo sono per me. C’era tanta passione e tanto interesse al workshop. Ci siamo fermate a parlare per ore tanto che ci stavano cacciando fuori dagli studi. Mi sono accorta che tante domande che facevano erano le stesse che facevo io quando ho iniziato. L’importanza di aver qualcuno che ti risponda è fondamentale, perché è un lavoro che si impara per mezzo di qualcun altro. Sono importanti le scuole ma finché non sei lì, a fare il lavoro da sola, non ti rendi conto veramente che cosa vuol dire. Avendo davanti una persona che ti può dare dei consigli è tutto molto più efficace”.

Thank you again #NormalNotNovelty for inviting me to run the engineering workshop. Such an inspiring evening #ShotByRiannaTamara pic.twitter.com/FXdtli35vn

— Marta Salogni (@Marta_Salogni) 30 ottobre 2017


A Londra hai poi trovato la tua dimensione ideale. È stato Danton Supple il primo con cui ha instaurato un certo rapporto lavorativo?

“Quando andavo in giro a bussare negli studi sono stata in uno a sud di Londra, a fare una sessione, e li ho conosciuto il produttore Danton Supple. Aveva bisogno di un’assistente e la sua proposta fu: ‘Vuoi venire a lavorare da me come assistente con la prospettiva di diventare ingegnere del suono per molte più ore e molti meno soldi di quelli che guadagni adesso?’. Era quello che volevo fare e quindi accettai. Siamo andati in questo studio, il Dean Street Studio dove lui aveva la sua stanza e dove hanno registrato David Bowie e T.Rex. Da lì poi ci siamo trasferiti allo Strongroom Studios dove sono stata ingegnere per alcuni anni e ho cominciato a fare la freelance. E poi ancora ai Rak Studios. Ho conosciuto poi David Wrench – con cui collaboro spesso – ed è lui che mi ha insegnato a mixare. Praticamente tutti i progetti che lui seguiva, io ero assistente e ingegnere, dove io mixo prevalentemente. Con lui abbiamo seguito The xx, Frank Ocean, FKA Twigs, Bloc Party, Sampha e molti altri. Adesso lavoro da sola e ormai siamo migliori amici, ma quando possiamo lavoriamo assieme. Ci siamo trovati a livello musicale e tutti i gruppi con cui ho lavorato erano quelli con cui avrei sempre sognato”.         

Oltre alla vastità di studi e di band, cosa offre Londra come città in quest’ambito?

“È una città che va molto veloce con persone piene di talento e immaginazione. È un punto di convergenza ed è speciale per quello. C’è gente da tutto il mondo che è qui per fare qualcosa e hanno un solo obiettivo che è riuscirci, perché non te ne vai dalla tua famiglia o dai tuoi amici per niente. Vuol dire che hai una forza e un coraggio. Non posso fare paragoni perché non ho mai lavorato in Italia ma posso dire che qui mi sento a casa a livello intellettuale e di ispirazione”.

 

Hello I’m in Iceland and I am in love with the view from my studio

Un post condiviso da Marta Salogni (@martasalogni) in data:

Se dovessimo dire tre città a cui sei legata diremmo Capriolo (BS) – Londra – Reykjavík. Queste tre tappe sono state importanti, quest’ultima legata a Björk. È stata direttamente lei a chiederti di fargli il mix definitivo del disco, Utopia. Ti ha proprio telefonato lei?

“Ho ricevuto una chiamata dalla casa discografica che mi ha chiesto se potevo fare il mix di due tracce, una delle quali era The Gate. Ho chiesto se ci fossero delle indicazioni particolari ma non mi diedero nessuna indicazione per vedere cosa le avrei portato. Una volta consegnati e fatta qualche piccola modifica le sono piaciute. Due settimane dopo mi chiama Björk per chiedermi di mixare l’album, Utopia. Abbiamo deciso di farlo a Reykjavík così da essere molto vicini a casa sua e potersi vedere in studio per ascoltare il mixaggio e fare cambiamenti.

Come si svolgeva la tua giornata?

“Facevo una prima versione del mix di un brano al mattino, poi lei passava per pranzo, le raccontavo cosa avevo fatto, lo ascoltavamo e mi dava i suoi feedback. Nel pomeriggio poi sviluppavo una seconda o terza bozza, e così fino ad avere i mix definitivi per il master”.

Su quali brani hai lavorato?

“Ho lavorato a dieci canzoni su quattordici. Altri brani e alcuni strumentali erano già stati mixati da Heba Kadry prima ancora che mi venisse affidato il lavoro. Alla fine poi sono stati presi dei mixaggi di voci fatti da me e usati con strumentali di Heba. La maggior parte delle tracce le ho mixate io a livello tradizionale, altre, come detto, erano state mixate prima di essere stata contattata”.

Com’è rapportarsi con un personaggio così carismatico come Björk?

“È stata un’esperienza unica perché lei è una persona molto diretta. Il nostro modo di comunicare è stato fantastico: è basilare per la buona riuscita del mixaggio che è un elemento che costituisce il messaggio della canzone, e che diventa veicolo per quello che vuole comunicare attraverso frequenze. Frequenze che possono far sentire un elemento della canzone molto vicino, molto personale, molto intimo, molto lontano, molto glaciale o molto severo. Per riuscire a capire gli aspetti che amplificano il significato dei brani, è fondamentale avere una comunicazione forte con l’artista. Lei è un’immagine, nel senso che, quando ti descrive come deve suonare un elemento di un brano, te lo immagini e lo vedi mentre le parla: è come se te lo dipingesse in testa. È generosa e genuina: davvero una persona speciale a livello umano”.

Notavo che hai avuto l’opportunità di lavorare con Tracey Thorn, Björk, M.I.A. e FKA Twigs. Quattro artiste tra le più importanti dei relativi decenni ’80/’90/’00/’10. Quali differenze e quali punti in comune hai riscontrato lavorando con loro?

“I punti in comune sono la determinazione e la coerenza o integrità artistica, che dir si voglia. Hanno un livello di professionismo altissimo: sanno cosa vogliono musicalmente, sanno come qualcosa deve suonare, sanno come ottenerlo e a chi rivolgersi per ottenerlo. Non ce ne sono tante di artiste che possono questo, perché purtroppo anche il mondo della musica a livello artistico è dominato in maggioranza da uomini. Poter contribuire a livello tecnico, di produzione o di mixaggio al loro lavoro, è stato importantissimo per me. È come far parte di un insieme di persone che stimo molto a livello professionale e personale: M.I.A. per il suo impegno politico, Björk per il suo impegno politico e per il supporto delle donne nella musica, Tracey Thorn pure. È un privilegio. Mi sento fortunata”.

L’esperienza di lavoro con Frank Ocean com’è andata? Hai lavorato su un pezzo se non sbaglio?

“Sì, con Frank Ocean ho lavorato insieme a David Wrench e ho fatto da ingegnere per il mixaggio. È stata una tappa delicata perché il disco era molto atteso e per lui abbiamo mixato un brano (Self Control) a Londra da remoto e successivamente siamo poi andati a New York in un secondo momento. Tutto ad un tratto ricevi le chiamate per lavorare con questi artisti, poco dopo sei lì che ascolti un pezzo che (quasi) nessuno ha mai sentito… “

È una bella responsabilità…

“C’è la responsabilità; c’è il desiderio di volercela fare nel realizzare un mix che piaccia; che sia moderno ma che rispetti gli elementi musicali all’interno della canzone; che suoni in modo buono sia nelle casse da 5000 pound che in un’autoradio da 20 pound. Sapendo che questa canzone sarebbe andata su un disco – che già ai tempi si ipotizzava sarebbe andato molto forte – ti fa guardare il progetto con un’ottica differente. Devi tenere in considerazione più elementi, perché vai a toccare un pubblico da soddisfare molto più ampio del solito”.

Curiosavo su Discogs e leggevo la tua scheda: ho visto che con i White Lies hai anche arrangiato qualcosa nell’ultimo disco. Che cosa hai fatto di preciso?

“C’è una canzone in cui ho aggiunto una bassline da qualche parte. Non sapevo mi avessero citato nei credits. Per loro ho fatto un mixaggio di una traccia che si chiama Right Place e un’altra canzone è diventata b-side. Sono molto lusingata di questa cosa. Abbiamo anche lavorato ad altre tracce che non ho idea quando usciranno”.

La parte della produzione artistica ti attira? Ti interessa poter diventare in maniera un po’ più decisa parte del disco?

“Ho sempre prodotto anche mentre facevo l’ingegnere negli studi: quando non c’era nessuna sessione programmata andavo in giro a cercare band che mi piacevano per registrarle. Lavorando insieme poi cadi quasi naturalmente nella posizione di produttore. Credo che sia questione di esperienza e fiducia, perché la produzione è una posizione molto sfaccettata: c’è il livello psicologico, c’è il livello tecnico, c’è il livello estetico e di sonorità. Per me è naturale produrre, lo facevo prima con le band di amici quando registravo, e mentre faccio l’ingegnere spesso e volentieri produco. In quella fase succede di proporre modifiche, fare cambiamenti, provare un arrangiamento diverso e così via. La produzione è una linea grigia, ognuno ovviamente ha le sue opinioni. Il sapere quando dirle e come dirle sta nella sensibilità di ognuno. I grandi produttori che ammiro riescono a capire la direzione di un disco con una coerenze estetica e danno un’impronta riconoscibile di una band”

E chi sono i tuoi preferiti?

“Nigel Godrich, per esempio. E poi David Axelrod, George Martin, Vangelis, Brian Eno, Quincy Jones, Joe Meek, Brian Wilson, Martin Hannett….

Il tuo studio attuale è dentro la Mute Records?

“Ho fatto un progetto con la Mute l’anno scorso per i Goldfrapp. Nel frattempo stavo cercando uno studio dove poter lavorare tutti i giorni perché le richieste di mix crescevano. Parlando con l’A&R della Mute mi ha proposto uno studio che faceva al caso mio e abbiamo fatto questa collaborazione. Io lavoro qui e faccio i miei progetti che prevalentemente non sono della Mute ma con loro spesso ci si confronta. Daniel Miller (il fondatore ndr) è diventato un buon amico, tutti i ragazzi e le band dell’etichetta sono fantastici. Lavoriamo assieme a dei progetti ed essendo al piano di sopra vengono giù a chiedermi qualche parere. Per la Mute ho una certa ammirazione perché ha prodotto band come Nick Cave e Einstürzende Neubauten che io adoro”.

Mi pare tu non abbia mai collaborato con artisti italiani. Ce n’è uno con cui vorresti collaborare?

“Ennio Morricone. E anche con Mina. Ma ce ne sono tanti altri, sono tutti sogni adolescenziali: C.S.I., Massimo Volume, Marlene Kuntz, Le Stelle di Mario Schifano, Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza”.

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