Il mercato musicale in Giappone: sfide e punti di forza della potenza seconda solo agli Stati Uniti

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(Credit: Tower Records)

Di Lavinia Siardi

Quando si pensa ai principali mercati musicali è difficile immaginare che alla seconda posizione, subito dopo gli Stati Uniti, ci sia il Giappone. E nonostante i fatturati simili, non potrebbero esistere due industrie musicali con dinamiche più diverse.

Nonostante nel 2015 per la prima volta a livello globale le vendite digitali abbiano sorpassato quelle fisiche, il Giappone continua a contare sui supporti tradizionali, con l’84% delle vendite ancora legate a CD, vinili, cassette e simili. I negozi di dischi sopravvivono senza troppe difficoltà, i fan continuano a comprare i dischi dei loro artisti preferiti e i servizi di streaming faticano a conquistarsi un mercato ancora diffidente e poco avvezzo al concetto di abbonamento online.

Quali sono le ragioni dietro a questa controtendenza rispetto ai trend globali, e quali sfide aspettano il mercato giapponese? È importante innanzitutto analizzare le cause che si celano dietro a un tale primato dei supporti fisici, andando ad investigare come mai negozi come Tower Records resistano ancora e provando a capire quali cambiamenti aspettano l’industria musicale nipponica nei prossimi anni.

Il primo dato estremamente significativo è legato alla domanda di contenuti domestici: più dell’87% delle vendite musicali del 2015 è stato di musica giapponese, dimostrando quanto il mercato nipponico riesca ancora ad essere autosufficiente. Un ruolo importante in questa grossa porzione di musica domestica è giocato dai cosiddetti “idols”: star costruite a tavolino dalle grandi talent agency e case discografiche in grado di generare un seguito massiccio e devoto. Di recente ha fatto scalpore un fan delle ultra-famose AKB48 che ha speso più dell’equivalente di 250.000 euro in CD della band, unicamente per dimostrare il suo supporto al gruppo e poter utilizzare i coupon presenti all’interno dei dischi per votare la sua cantante preferita. Non è infatti insolito trovare delle tessere per votare la propria star preferita del gruppo all’interno dei cd degli idol, determinando chi canterà il singolo successivo sulla base dei voti ricevuti dai fan. Le manifestazioni di affetto e supporto, anche quando non raggiungono livelli estremi come quelli appena citati, possono spesso essere fonte di una spesa media in musica pro capite assai più alta di quello di un medio ascoltatore appassionato di musica in Europa o negli USA.

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L’ordine del fan delle AKB48

Se da un lato il Giappone è la patria di questi fenomeni di massa, dall’altro è anche casa di molti collezionisti di nicchia, in grado di scovare edizioni rarissime, band pressoché sconosciute e stampe a tiratura limitata e costruire negli anni collezioni dal valore inestimabile. Questa la ragione dietro alla sopravvivenza in terra nipponica non solo delle grandi catene musicali come Tower Records, Disk Union e HMV, ma anche di numerosi piccoli negozietti di genere, dove una manciata di clienti affezionati può diventare la fonte di sopravvivenza principale dell’esercizio.

Se gli ascoltatori continuano a comprare i dischi, è anche perché le etichette discografiche stanno tentando di preservare questa tendenza. Molte le motivazioni: dal “saihanbai kakaku iji seido”, legge che impedisce l’abbassamento dei prezzi di molti materiali soggetti a copyright oltre una certa soglia, preservando l’alto margine di guadagno per singola unità venduta, alla forte regolamentazione anti-pirateria, che persegue non solo civilmente ma anche penalmente il download di materiale piratato, e quindi scoraggia gli ascoltatori a trovare scorciatoie non legali per accedere all’ultimo disco dei loro artisti preferiti. In parallelo, resiste ancora forte in Giappone il noleggio di materiale soggetto a copyright, con una tassa sugli esercizi commerciali atta a coprire le eventuali copie non autorizzate dei CD noleggiati.

Scarsi quindi gli incentivi a passare al digitale per le case discografiche, e a rendere di conseguenza disponibile il loro catalogo in streaming. Questo spiega, almeno parzialmente, perché i principali servizi di streaming internazionali siano arrivati così tardi in terra nipponica, con, uno fra tutti, Spotify che è riuscito a lanciare solo pochi mesi fa e sta tuttora faticando a conquistarsi una forte base di abbonati.

Oltre alla riluttanza delle case discografiche a cedere i diritti dei propri artisti, principalmente dovuta ad un maggiore margine ottenibile dalle vendite fisiche, quali gli altri fattori che hanno rallentato l’avvento dei servizi di streaming in una nazione apparentemente fortemente tecnologica?

Sicuramente non la diffidenza verso il digitale in sé, contando che in passato la vendita online ha rappresentato una forte fonte di guadagno per l’industria musicale giapponese grazie alla vendita delle suonerie per i telefoni cellulari, raggiungendo picchi inimmaginabili se rapportati ai trend occidentali del tempo. La mancanza di un catalogo domestico forte ha sicuramente rappresentato un grosso ostacolo, ma altri fattori hanno fortemente influito sul rallentamento dei servizi di streaming. La bassa presenza di carte di credito in primis, rendendo complicata la sottoscrizione per un pubblico di ascoltatori non abituati alle transazioni online, e spesso nemmeno in possesso di una carta di credito con cui abbonarsi. Segue il forte legame del pubblico giovane giapponese con YouTube: un servizio gratuito, che combina l’aspetto di ascolto con quello visivo, spesso preponderante nella cultura musicale giapponese, ed è immediatamente accessibile senza abbonamenti, periodi di prova e condivisione di dati personali. La privacy è una questione estremamente importante per gran parte della popolazione nipponica, e l’idea di un servizio con cui condividere i propri ascolti può essere meno allettante rispetto a paesi in cui la propria immagine sui social media ricopre un’importanza sempre maggiore.

Per finire, esistono numerosi ascoltatori che si iscrivono ai periodi di prova, ma decidono di non rinnovare il loro abbonamento scaduto l’iniziale periodo gratuito. Difficile comprenderne a fondo le motivazioni, ma sicuramente fonte di una grossa e faticosa sfida per i servizi di streaming sia internazionali, come Spotify e il leggermente più affermato nel paese Apple Music, che locali, tra cui Line Music e AWA. Offerte speciali, tentativi di localizzazione più e meno riusciti e forti investimenti in pubblicità stanno facendo da cornice ad un accidentato percorso di crescita per i servizi di streaming, e, visto che ultimamente anche il solido mercato musicale giapponese sta iniziando a sperimentare una consistente decrescita, sarà interessante capire se una maggiore digitalizzazione degli ascolti potrà evitare una forte contrazione del mercato. Al momento molte delle maggiori music label del paese stanno rilassando le loro politiche di DRM (digital rights management), azione che sta non solo dando maggiore futuro e credibilità allo streaming in sé ma anche rendendo più facile l’esportazione degli artisti locali verso i mercati occidentali.

Redazione Rumore
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