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Live Report: TOdays Festival 2016

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70 - Crystal Fighters  - TOdays16 - 28-08-2016

di Francesco Vignani / foto di Luigi de Palma, tratte dal suo foto-report

Al secondo anno, TOdays da un lato consolida quanto di buono arrivava dalla prima edizione e dall’altro tenta l’espansione. Ricetta che più classica si muore ma sempre efficace, visti i buoni risultati già solo a livello logistico: identica è la collocazione nella periferia torinese, fattore identitario fin dalle iniziali intenzioni, ora però indagata ancora più a fondo. Resiste Spazio 211 come sede principale, insieme al museo Museo Ettore Fico (fiore all’occhiello cittadino per l’arte contemporanea) per le parti off. E si aggiungono la galleria Gagliardi e Domke e soprattutto l’ex fabbrica Incet, enorme spazio abbandonato prima di una riqualificazione nel 2009: la retorica attorno a Torino come esempio di città post-industriale avrà annoiato anche i sassi, ma sarebbe folle abbandonare nuovamente al suo destino una struttura del genere. Compito dell’amministrazione comunale, ovviamente, la cui assoluta assenza nei tre giorni di un festival finanziato in gran parte con fondi pubblici resta piuttosto curiosa, in mancanza di aggettivi migliori.


M83

Rilancio che ovviamente coinvolge anche la proposta artistica, più ricca e densa di suggestioni già dalla prima serata. Quella del venerdì, che forse per colpa del caldo a un certo punto comincia a sapere di involontario omaggio a Stranger Things – serie fantasy di Netflix diventata il fenomeno pop dell’estate – nel suo mescolare sonorità e classici horror degli anni Ottanta. Per le prime parla (in francese) il main stage di Spazio 211, ospiti gli M83. Una super-produzione, e in maniera lampante: probabile che il loro fonico guadagni in una sera più di molti dei gruppi italiani sparsi qua e là, a basarsi su suoni di una nitidezza inusuale per un festival. Anthony Gonzalez d’altronde un po’ se lo merita: dopo nove dischi, separazioni e intoppi assortiti ha deciso che il suo ruolo nella vita è quello dell’headliner, costi quello che costi. Anche passare sopra le (parecchie) critiche al recentissimo Junk se serve, partendo con un usato sicurissimo (Reunion, pezzo che uno con ego meno sviluppato terrebbe per i momenti duri) per poi non insistere troppo con i pezzi nuovi. Lavorando di accumulo, altro che spending review: ci sono tre synth sul palco? Tanto vale usarli tutti insieme, allora. Spalla a spalla con un turnista che a un certo punto parte con un assolo di sax (nel 2016, tanto vale ribadirlo) per poi intervallarlo con un assolo di flauto: serve stomaco, quello sì. Eppure il risultato è una delle cose meglio cucite e più spassose in giro, anche se nessuno ha avvertito il tradizionalmente glaciale pubblico locale. Che neppure Midnight City malgrado Gonzalez le tenti tutte per coinvolgere almeno le prime file – riesce a smuovere più di tanto: un’oretta scarsa e bis tagliati, il risultato.


John Carpenter

Meglio va poco dopo al battesimo dell’ex fabbrica Incet come sala per concerti, con Paolo Spaccamonti a sobbarcarsi il compito più ingrato del festival. Ovvero introdurre il set di John Carpenter, ma lucida è una soluzione fatta di materiale appositamente inedito, con un occhio più all’atmosfera (nerissima, ovviamente) che allo sviluppo melodico: mezzo omaggio e mezza introduzione, ma se qualcosa di questa mezz’ora finisse su Lost Themes Remixed non stonerebbe. Impressionante, per quanto prevedibile, il boato che accoglie invece Carpenter: la faccia da cartolina del festival, oltre che uno dei pochissimi artisti al mondo a cui potere ancora appiccicare la definizione di universale. Lo spiega il pubblico, mai così trasversale. E lo spiega soprattutto lui, quando a metà concerto definisce in maniera acutissima i suoi film delle semplici folk stories, racconti popolari. Durante uno show che si svolge in maniera anche fin troppo lineare, volendo: maxischermi dedicati agli spezzoni dei suoi classici e Carpenter alla tastiera a fare un po’ il musicista e un po’ il direttore di un gruppo assemblato fra figli, figliastri e turnisti. Ma una scaletta del genere anche solo un anno fa sarebbe stata un sogno, pescando da Fuga da New York, Essi Vivono come da Halloween. Senza un grammo di spocchia e con pochissime pretese alte: strepitosa e sopra le righe è la rilettura del tema del Signore del male (con dedica a Dario Argento), ad esempio. Come battute quale quella di commiato, un avvertimento a fare attenzione perché Christine è là fuori: la ripeterà anche ogni sera, ma poco come quel pugno di sillabe riassume spirito e senso del progetto.


The Jesus and Mary Chain

Gli anni Ottanta tornano, sotto altre spoglie, anche la sera dopo. Quelle dei Jesus & Mary Chain, di cui tutto si può dire meno che non mantengano le attese: li si ricordava tremendi durante questa eterna reunion senza capo, coda o sbocchi e li si ritrova appena appena meglio. Ineliminabili sono i difetti di costituzione: pochissime band come loro avrebbero dovuto evitare il percorso della nostalgia e della passerella d’onore, visti gli uragani giovanili. E sbagliato è il modo di riproporli, con un suono da stadium rock metà anni Ottanta utilizzato quasi fosse una monotaglia buona per tutto, che siano i pezzi da Honey’s Dead o quelli (fortunatamente pochi, visto come patiscono) da Psychocandy. Dalla loro, il fatto di non provare nemmeno a fingere di essere lì per qualcosa di diverso dal ritorno economico: i due fratelli Reid non si guardano neppure, altro che parlarsi. Un piccolo miracolo, a modo loro: quasi un unicum il modo in cui i due sono passati da piromani a pompieri continuando a fare la stessa identica cosa sera dopo sera.


I Cani

Netto il riciclo di pubblico per il finale di serata alla Incet un’oretta dopo: crolla verso il basso l’età, ad esempio. E aumentano in parallelo i ritardatari, se Niccolò Contessa e i suoi Cani iniziano il secondo passaggio cittadino del tour di Aurora con una platea in via di riempimento. L’obiettivo dei romani è dichiarato, non replicare pari pari quanto proposto in primavera: la scaletta ne esce rimescolata con l’inserimento di alcuni brani fra i meno battuti, mentre quelli che proprio non possono uscirne vengono qua e là riarrangiati. Benissimo la mutazione in ballata pianistica di Calabi-Yau come l’attacco (solo piano, voce e luna come sfondo) di Corso Trieste, per citarne due, mentre ci mettono di più a convincere l’impasto electro che ricopre FBYC (Sfortuna) e l’arrangiamento di troppo facile vestibilità dato a Le coppie. Tanto da fare sorgere il dubbio che fra i (tanti) talenti di Contessa ci sia anche quello di centrare già su disco la confezione migliore per i singoli pezzi: resta un gran segnale il suo non accontentarsi, in ogni caso.


Soulwax

Se ogni festival ha bisogno dell’effetto sorpresa, pochi quest’estate batterebbero i Soulwax. Già solo per un dato temporale, visto che mancano da talmente tanto tempo che nessuno sa bene cosa aspettarsi e per una volta la rete non aiuta. E soprattutto perché, anche per un gruppo uso alle reinvenzioni (da 2manydjs in giù), la nuova versione della band dei fratelli Dewaele è anche quella più estrema. Spiega qualcosa la sigla: Soulwax Transient Program for Drums and Machinery. Che tradotta vuol dire: i due in mezzo ad altri turnisti e ai lati e alle spalle tre batterie, dietro una delle quali si siede niente meno che Igor Cavalera (!) dei Sepultura. Ne esce qualcosa che è ancora decisamente un cantiere, e il giochetto di passare dal drumming metal al taglia e cuci dei due alla lunga si fa prevedibile. Mantenendo comunque un che di spiazzante, un lusso di questi tempi: lapalissiano semmai è il sottolineare che chi ha resistito fino in fondo si è goduto eccome il massimalismo di NY Excuse.


The Brian Jonestown Massacre

Parecchia curiosità raccoglieva già a scatola chiusa la domenica, con il suo mischiare gruppi appartenenti a immaginari non di pronto incastro: anche e soprattutto laddove uno stesso territorio e una stessa scuola finivano per ricevere interpretazioni dicotomiche nel giro di un paio d’ore. Quello della costa ovest americana nel caso di specie, con la psichedelia dei Brian Jonestown Massacre a raccontarne in apertura il lato più sporco ed acido. Amatissima pure qua, la band di San Francisco: non una novità, e a ricordarlo bastava già solo la calca generatasi al banchetto del merchandising all’apparire dei loro vinili. Ma se i sette notoriamente non gradiscono uno slot di una sola ora, tanto più sotto il sole bollente delle sette, per una volta si nota appena. Mentre chi è sotto riesce a godersi i dettagli: dal solito addetto (mezzo addormentato) al tamburello a un tastierista col look da infiltrato nel narcotraffico sudamericano, finendo con un Anton Newcombe – in total white dalle basette in giù e ventilatore sparato in faccia – che si scioglie un muscolo alla volta. Mancava un po’ di r’n’r al festival, ma come rammendo una delle migliori live band del pianeta può bastare.


Local Natives

Totalmente diverso il taglio dei losangelini Local Natives, ancora nella fase – capitava anche ai Fleet Foxes pre-esplosione, ad esempio – in cui qualunque promoter va sul sicuro sistemandoli al tramonto a caccia di vibrazioni estive. Mestiere che le loro armonie vocali a quattro svolgono egregiamente da anni, per quanto ciò che arriva dall’imminentissimo Sunlit Youth parli già la lingua della svolta elettronica. Villainy svuota il palco dalle chitarre, ad esempio, così come Fountain of Youth e un coro nato e cresciuto per i festival tracciano la linea fra gli inizi indie e l’attualità. Presente l’impressione di stare vedendo una band all’ultimo giro prima di passare ad altri scenari? Ecco, quella.


Crystal Fighters

Virata sull’ Europa per il finale, e ottima era la scelta di non ripiegare una volta tanto sulle scene più battute. Solo che, dopo pochi minuti degli spagnoli (ma emigrati a Londra) Crystal Fighters, si comincia a comprendere meglio la Brexit. Pochissimo è più volgarmente cafone del loro folk elettronico, piacevole come il ritrovarsi un botellon in salotto. Già dal look, roba da fuoriusciti dal Fronte Popolare di Giudea di Brian di Nazareth. Peccato che non faccia ridere, né più né meno di certi ammiccamenti da addio al celibato. A un certo punto Anton Newcombe passa di fianco al palco, si ferma e li guarda prima perplesso e poi disgustato: ridateci Tonino Carotone, a questo punto.


Goat

Ulteriore capo di imputazione è quello di lasciare la parte di pubblico non lì per loro (e c’era, e non piccola, va detto) stremata per i Goat, da cui avrebbero enorme bisogno di imparare. Nei travestimenti come anche nel come citare generi diversissimi senza la pesantezza di chi si sente in dovere di appropriarsene, ad esempio. Tanto che, se magari resta irripetibile il primo impatto anni fa col loro mix fra afro, ritmi latini, hard-rock e psichedelia, il live è sempre una garanzia. Figuriamoci poi se in prima cittadina: resta da capire come quel senso del groove sia finito in Svezia, ma anche in questa fase di transizione verso un nuovo album resta spietato: apprezzabile nella nuovissima I Speak in Silence come assolutamente tellurico in Run to Your Mama.


Iosonouncane

Note sparse meritano anche i gruppi italiani a cui competono le ore più difficili – quelle fra le sette e le nove – in una città in cui il concetto per cui ai festival si va dall’inizio non attecchirà mai. Quelli che malgrado un sole perfetto vorrebbero la luna, per usare una citazione telefonatissima di quel Motta che risulterà il migliore del lotto nel suo infilzare l’esordio solista su cilindri ritmici e timbri sonori ancora più gonfi e taglienti: facilissimo prevedere altri spazi per lui, l’anno prossimo. O per Iosonouncane, malgrado Jacopo Incani e band incappino in una serata non felicissima. Sarà magari la stanchezza dovuta al portare in giro DIE da un bel po’, ormai: morbida in ogni caso la planata su Stormi (uno dei più bei brani italiani degli ultimi anni) a cui tocca un remix live in coda. Ancora più complicata la vita per la scena più di confine e avant torinese, le cui eccellenze finiscono raccolte nei primi due giorni. In spazi di 20-25 minuti: serve esperienza in casi del genere, così che a emergere sono soprattutto la policromia dei Niagara e l’eclettismo degli Stearica, mentre solo in coda prendono ritmo i tre di Il Pugile. Come bene ne esce anche chi ha un pubblico fedele come i romani Giuda (prevedibilmente brillantissimi) o chi ha legittime ambizioni di mainstream come Victor Kwality: spazi più generosi sarebbero stati apprezzati, sopra e sotto il palco.

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