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Intervista: Ben Frost

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ben frost

di Elia Alovisi

Sentire l’australiano-naturalizzato-islandese Ben Frost descrivere la propria musica è un’esperienza totalmente spiazzante. Nonostante il suo approccio sia prettamente strumentale, le sue composizioni hanno una definita qualità espressiva – che si tramuta in dichiarazioni accorate, pezzi di esperienza, spiegazioni metodologiche appena inserite nel contesto della risposta a una domanda. A U R O R A, quarto disco solista di Frost, è la sua opera più “piena” – un percorso in salita che raggiunge il suo culmine, se consideriamo i vuoti desolanti che permeavano il suo esordio Steel Wound. Il passo successivo fu Theory of Machines, che già dal titolo dichiarava la propria qualità artificiale – elettronica e rumoristica a far da padrone su droni di tastiera e chitarra, la stessa desolazione ma con maggiore capacità contemplativa. By the Throat, invece, marcò un deciso cambio di rotta, chiaro fin dalla copertina: un font non propriamente leggero, la fotografia di un branco di cani lupo nella neve, colori forti come bianco, nero e rosso. La chitarra e la distorsione diventavano preponderanti, e Frost se ne usciva con il suo album più viscerale, fisico e violento.

A U R O R A si distacca in parte dal corpo per aspirare all’assoluto – le direttive sono riempire il campo sonoro con qualsiasi frequenza percepibile, avvolgere l’ascoltatore in una distorsione che trascende il fastidio per tornare ad essere melodia, questionare i limiti del nostro fisico e i preconcetti che albergano, incancreniti, in noi – su tutti l’aurora stessa del titolo, generalmente percepita come onda di positività quando essa non è che una violentissima esplosione nel cielo. Abbiamo parlato con Frost via Skype dalla sua casa in Islanda, e parlato del suo approccio alla registrazione di questo album, dell’esperienza africana da cui tutto è partito, della sua esperienza da regista teatrale e di molto altro.

In passato hai dichiarato, nonostante il molto materiale che registri, di ritenere necessario trovarti nella giusta mentalità e in mezzo alle giuste circostanze per pubblicare effettivamente un disco. Che cosa ti ha spinto quindi a pubblicare queste canzoni in questa forma?

“Penso che probabilmente tutto sia iniziato con una serie di domande piuttosto infantile riguardo alla natura della musica che stavo facendo, ai tempi. Riguardo a quello che mi circondava. Non riuscivo a trovare qualcosa che suonasse effettivamente come immaginavo nei miei pensieri. Quella è stata la prima cosa che mi è servita per sentire che sarebbe valsa la pena esplorare questo territorio. Non voglio solamente scrivere “altra” musica, soprattutto se non è strettamente necessario. Almeno, così dovrebbe essere. C’è un pragmatismo in quel pensiero iniziale. Che poi scompare, a un certo punto, e diventa una ricerca espressionista. Ma all’inizio c’è una domanda fondamentale; “Questa idea si merita di esistere?”

Perché usare la parola A U R O R A per il titolo?

“Ci sono poche persone che si chiedono che cosa stia dietro a un fenomeno come l’aurora. Il modo in cui viene percepita come una benigna, silenziosa danza di luce. Penso che per la maggior parte della gente sembri un’espressione di bellezza paradisiaca. Ha una qualità tranquillizzante che smentisce la sua vera forma – cioè quella di una cazzo di colossale, decimante, inconcepibile forza composta da sette diversi tipi di radiazioni emesse da una stella come se fosse vulcano, a esplodere sopra di noi come un inferno per poi venire risucchiata verso i poli dal nucleo magnetico della cazzo di roccia su cui viviamo. Non c’è passività in nulla di tutto questo, tipifica la violenza inerente al mondo naturale, tipifica l’esplosiva e precaria posizione che occupiamo. Viviamo in un ambiente dal quale potremmo facilmente venire cancellati in qualsiasi momento. Penso che ci sia una basilare convinzione errata da cui mi sono sentito attratto”.

Anche se l’album è decisamente monolitico nella sua interezza, si percepisce una sorta di elemento melodico e al contempo distorto al suo interno. Lo hai inserito consciamente? Forse per aiutare gli ascoltatori occasionali ad “accedere” al tuo messaggio?

“Probabilmente è un tentativo di dimostrare come quei due concetti non siano necessariamente divergenti. La bellezza può esistere nella violenza. Le due cose non sono così diverse. Inoltre, la posizione da cui A U R O R A è stato scritto implica che quelle melodie siano inerenti alla musica stesso, e quindi il suo suono supersaturato, la natura belligerante di quella musica, non proviene da un effetto aggiunto in un secondo momento ma ha un’origine comune alla musica, parte dallo stesso punto di vista. È qualcosa che nasce contorto, e non c’è modo per dipanarlo. Non c’è un bottone, su qualche effetto, che possa annullare il danno ormai innato che gli è stato criptato dentro. È musica scritta e suonata in questo modo, ogni suo aspetto è stato esagerato fino ad esaurirsi, saturato fino al punto in cui il suo vero colore si mostra. Il modo in cui la luce si muove e frattura nei canali del colore mi è sempre sembrato una prigione. Questo disco, per me, non ha nulla a che fare con l’oscurità – ma con una luce, una luce soverchiante, uno spettro completo. E questi elementi melodici ci danzano in mezzo, svolazzano dentro e fuori dal filtro della luce visibile. Non li percepisco come entità che si introducono nel sistema per poi venirne rimosse sistematicamente, per me tutto il resto scaturisce da loro, in un modo strano”.

Hai inserito diverse volte nel disco un suono di campane, soprattutto su The Teeth Behind the Kisses e Nolan. Perché? Sono dei sample?

“Non sono sample, sono tutte suonate da Thor Harris degli Swans. Fin dall’inizio della scrittura del disco, ci eravamo dati qualche regola arbitraria, su tutte semplicemente obbligare la mia mano a non basarsi su alcune delle tecniche e della strumentazione che avevo iniziato a percepire come stampelle per la mia musica. In modo specifico la chitarra, che ho usato molto su By the Throat, e il pianoforte. Sono i miei strumenti principali, sono quelli che ho imparato a suonare per primi, sono la mia zona di sicurezza. Togliendoli dall’equazione, ho obbligato la mia mano a cercare toni diversi, nuovi modi per esprimere le mie idee. Quando ho iniziato ad applicarmi in tutto questo, il disco è diventato molto percussionistico – largamente per colpa delle persone con cui volevo lavorare, Greg Fox [ex-Liturgy], Shahzad Ismaily e Thor”.

In che modo la loro personalità ha influenzato A U R O R A?

“La loro personalità ha definito l’album. Non necessariamente da un punto di vista strumentale ma bensì dalla loro personalità. Erano i colori con cui stavo lavorando. Sapendolo, mi sono inconsciamente spinto a creare una musica diversa. Quindi quando mi sono messo in cerca di elementi melodici, volevo che continuassero ad appartenere a quel mondo, che continuassero ad essere coerenti con quella forma. Quindi mi sono interessato a quegli strumenti a percussione capaci di emettere note, quindi cose come la marimba, lo xilofono, le campane tubolari. Thor è un maestro in questo campo, ed era semplicemente sensato seguire questa direzione. Lo sentivo dalla severità del suono di quegli strumenti, il modo in cui entravano a far parte di quel mondo, la loro qualità metallica, la loro luminescenza, il modo in cui le armoniche più alte si sfregano l’un l’altra. Oltretutto il metallo non esiste di per sé, in uno stato naturale. Deve essere forgiato per nascere veramente. Quindi è stato tutto un modo per umanizzare quella che sarebbe altrimenti un’esperienza acquisibile solo tramite un’interfaccia digitale, un sintetizzatore. Le campane esistono realmente, non sono nell’etere”.

Pensi che la musica digitale potrà mai catturare appieno la fisicità del tuo approccio alla scrittura? E come ti approcci, in generale, all’ascolto di musica?

“Bé, mentre scrivevo la maggior parte di quella musica mi trovavo in Congo…”

Volevo infatti anche chiederti come la tua esperienza africana ha formato A U R O R A, infatti.

“Te lo racconto. La musica, lì, è suonata principalmente attraverso queste casse cinesi da quattro soldi che vengono importate nel paese, stereo vecchio stile pantagruelici pieni di luci e equalizzatori grafici – è tutto molto pacchiano, e grande. Stranamente, il fatto che non ci sia alcuna vera rete elettrica in una città come Goma porta la gente a far funzionare questi sistemi grazie a generatori a diesel. Non so se ne hai mai sentito uno dal vivo, ma sono davvero rumorosi. Hanno un loro suono. Quindi, perché la musica possa effettivamente essere ascoltata il volume va alzato così tanto che distorce e satura completamente il sistema. Tutto questo per sovrastare il suono della fonte che gli permette di funzionare. Il che crea questa strana atmosfera competitiva, una cazzo di guerra sonora. Questo cambia il significato della musica, cambia il suo effetto emozionale. Ad ogni modo, la mia è tutta musica che viene ascoltata da iPod o lettori MP3, e la maggior parte delle volte non sono nemmeno file a 320 kbps, e sono in mono. Non stiamo parlando di condizioni da Abbey Road. Quindi il modo in cui la musica viene suonata, o proiettata nel mondo, è la cosa che definisce la sua potenza emozionale. La fisicità del sistema di emissione definisce ciò che tu ascolti. E quindi la mia risposta è che non importa un cazzo. Digitale, analogico… sono tutte stronzate. L’unica cosa che importa sono le circostanze, il modo in cui stai ascoltando e percependo la musica. Qual è l’esperienza che ti porta da un punto A a un punto B, in che modo si sta collegando a te?”

Il Diphenyl Oxalate è l’elemento chimico responsabile per la fluorescenza, e la canzone a cui dà il titolo è la più violenta del disco – ma anche la più corta. Le due cose sono correlate?

“La luce più luminosa è quella che brucia più velocemente, no?”

Sola Fide è un riferimento al protestantesimo, e alla loro convinzione che le buone azioni fossero fondamentali per essere salvati da Dio. Perché hai scelto quell’espressione come titolo?

“Penso che l’idea di “fede, e solo con la fede” risuoni con me al di fuori di un contesto religioso. È la chiamata alle armi di ogni artista che compie sacrifici significativi per ottenere un risultato. Il fatto che la fede sia una cosa giusta di per sé è l’unico motivo per cui valga la pena sacrificarsi. Anche quando tutto attorno a te sembra sbagliato e contrario, la fede deve essere abbastanza”.

Parliamo di The Wasp Factory, il tuo esordio come regista teatrale. Come hai conosciuto il libro da cui è tratto lo spettacolo, e perché l’hai scelto come soggetto?

“Per essere onesti, è stato in larga parte dovuto alle circostanze. Mi è stata fatta un’offerta per curare uno spettacolo teatrale ma era tutto molto indefinito. Era un invito aperto, e in quel momento stavo leggendo The Wasp Factory – che avevo ottenuto su un tourbus, mentre ero assieme alla mia etichetta in giro per l’Europa. Ho iniziato subito ad apprezzarlo e a sentirci dentro della musica. Viene usata una lingua tattile e viscerale per descrivere il mondo del protagonista, e la cosa mi ha colpito su più livelli. Innanzitutto mi ricordava in molti modi il modo in cui io sono cresciuto, e la violenza che è innata nell’infanzia.”

Puoi spiegare meglio questo concetto?

“Penso che proteggere il proprio figlio dalle esperienze peggiori sia una pratica comune. Come pure tralasciare gli aspetti più oscuri dell’infanzia come esperienza umana. Alcuni esempi possono essere quella volta che hai dato fuoco a un nido di formiche, o quando le hai bruciate con una lente d’ingrandimento, o quella volta che hai tirato un sasso a un uccellino e l’hai ammazzato. Avere una sorta di esperienza in cui vieni esposto alla realtà della morte, al fatto che esisti in un mondo in cui, in quanto essere umano, sei in controllo di ciò e puoi essere un predatore. Il prospetto dell’uccisione e dell’omicidio sono idee molto più semplici di quanto noi, in quanto società, immaginiamo siano. E da bambini alcuni di quegli aspetti, alcune di quelle esperienze non sono necessariamente cose a cui applichiamo un’etichetta “negativo” per molto tempo, finché non le guardiamo dagli occhi di un adulto e della sua esperienza. L’evoluzione della condizione umana ci porta ad allontanarci dalle nostre anime animali, ad innalzarci ed ignorare quanto istintivi siamo. Quando leggi libri come The Wasp Factory e ti approcci a quella lingua, a quella storia, ottieni un commento su ciò che il mondo sembrerebbe se togliessi alcuni costrutti morali del mondo moderno. È la mente di un bambino, in cui non tutto è bello e roseo”.

Tornando all’album: A Single Point of Blinding Light è un deciso cambio di ritmo all’interno della struttura del disco, e la sua posizione finale gli dà un significato definito. Quasi come una vita che giunge al termine.

“Il modo in cui percepisco quel pezzo non mi porta a pensare a un processo di disintegrazione ma di accumulazione, quasi. Il modo in cui l’intero spettro, ogni frequenza concepibile di luce, viene schiacciata in questa singola struttura atomica. Non sta scomparendo, sta solo scomparendo dalla tua vista, dalla realtà che puoi percepire. Viviamo in un momento affascinante della storia. Creiamo tecnologie che permettono a persone nate sorde di poter sentire per la prima volta, il che comporta entrare direttamente nel nervo auditivo e bypassare una serie di strutture fisiche che sono invece state concesse a tutti noi per ascoltare il mondo che ci circonda. Questa tecnologia sta però venendo temperata dai suoi stessi fautori, in un modo che limita ciò che quelle persone possono sentire. Questo presenta, per me, un set di possibilità affascinante. Abbiamo il potenziale, l’abilità di far sentire agli esseri umani qualcosa che trascende il modo in cui il nostro udito si è evoluto naturalmente. Potremmo, in potenza, estendere le capacità auditive di un uomo anche fino ad oltrepassare quelle di un cane e i 20hz che le nostre orecchie riescono a gestire. È la stessa cosa con gli occhi e la vista – potremmo integrare i raggi ultravioletti. Vediamo solo una piccola scaglia del mondo che ci circonda. Ci stiamo perdendo qualcosa. E quindi quella canzone vuole, nel suo piccolo, essere un memorandum di tutto questo. Il suono non si ferma, quel pezzo non finisce – si sta solo muovendo fuori dal tuo raggio di percezione”.

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