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Intervista ai Mogwai (Stuart Braithwaite): “È facile cadere nella pretenziosità ma la musica esiste indipendentemente dal resto”

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di Elia Alovisi

Il penultimo disco dei Mogwai, Hardcore Will Never Die, But You Will era un perfetto esempio della filosofia che sta dietro alla band. La musica più importante per te, quella che senti “tua” e per cui poghi e ti sgoli, esisterà sempre in una qual sorta di forma. Il che non è valido, invece, per noi individui. Quindi prendine coscienza, sii fedele a te stesso e divertiti nel frattempo. È questa l’impressione che lascia Stuart Braithwaite: un uomo tranquillo, pacato, capace di affrontare qualsiasi argomento gli sottoponi a cuor leggero; ad esempio, senza stare ad analizzare troppo ogni dettaglio dei titoli delle sue canzoni, o della sua musica. Sia che si tratti di scrivere un nuovo (e ottavo) disco, Rave Tapes, sia che si tratti di comporre colonne sonore, Stuart risponde con la stessa calma, bonarietà e spontaneità di un uomo palesemente felice e soddisfatto. Come se la loro musica, che così tanti sentono essere “loro”, non fosse niente di più che una naturale conseguenza del loro essere, del loro tranquillo procedere, scrivere e sperimentare. Che in fondo anche i Mogwai se ne andranno, ma il post-rock continuerà ad esistere. E sarà anche grazie a loro, passi falsi o meno.

Perché il disco si intitola Rave Tapes?

Stuart Braithwaite: “In realtà, stavamo semplicemente cercando un titolo per l’album, e abbiamo pensato a Rave Tapes pensando a delle vere e proprie musicassette su cui erano stati registrati dei rave che ci erano capitate per le mani quando eravamo ragazzi”.

E com’era il tuo rapporto con i rave all’epoca?

SB: “Non ero un grande raver, ma è stata una grande parte della cultura che ci ha accompagnati durante la nostra crescita. Non so se raggiungevamo i livelli di Londra o dell’Inghilterra del nord, ma era una cosa piuttosto grossa. Inoltre, era più importante il senso di comunità che il resto – l’uso di droghe, ad esempio. Ed era una reazione a un governo di destra che stava provando a rendere fuorilegge quel tipo di feste, il che è una cosa esilarante. Tra tutti i problemi che ci sono, concentrarsi sulle persone che ballano è piuttosto strano”.

Già che ci siamo, credi nel ritorno della cassetta come formato fisico?

SB: “Penso sia… carino, diciamo (ride). È figo, è adorabile, ma non penso possa raggiungere i livelli di ciò che sta succedendo ai vinili. Ha successo perché è retro, e ho solo bei ricordi delle musicassette”.

Non potendo appoggiarmi alle parole, volevo chiederti il significato dietro ad alcuni dei titoli che avete scelto: puoi spiegarmi cos’è un Hexon Bogon?

SB: “È una stupidata. Hai presente il Bosone di Higgs? Non riuscivo minimamente a ricordare come si chiamasse, ricordavo solo che fosse un “bosone”, e quello è ciò che è uscito”.

Chi è Simon Ferocious?

SB: “Anche questa è divertente. In pratica, Freddie Mercury credeva che Sid Vicious si chiamasse così. Lo disse durante un’intervista in cui gli chiesero cosa ne pensasse dei Sex Pistols e non riusciva a ricordare il suo nome”.

E invece, Deesh che cosa significa?

SB: “Deesh è una parola che tutti gli scozzesi usano ma che non significa assolutamente nulla. È un intercalare, un riempitivo sonoro per definire un rumore che non sai descrivere, qualcosa di aggressivo. È solo nonsense”.

Passiamo a No Medicine for Regret.

SB: “Penso fosse una scritta su un poster risalente agli anni della Seconda Guerra Mondiale per sensibilizzare sulle malattie trasmesse sessualmente, sulle malattie veneree (ride)”.

Chiudiamo la serie con Repelish.

SB: “Repelish è un verbo che la madre di Martin usa quando vuole un altro drink, è troppo ubriaca e sbaglia a usare ‘replenish’. È una cosa che ci faceva ridere troppo, ecco”.

Restando su quel pezzo, è molto particolare il discorso sui messaggi subliminali in Stairway to Heaven che si sente durante la canzone. Chi è a parlare?

SB: “Le parole vengono da un vecchio programma radiofonico cristiano di cui non siamo riusciti a ottenere i diritti, quindi le abbiamo fatte recitare a un nostro amico. Non c’è un significato dietro, semplicemente ci piaceva”.

I messaggi subliminali ti hanno mai affascinato?

SB: “Sinceramente non ci ho mai creduto, penso sia tutta spazzatura (ride). È esilarante il fatto che ci siano persone che ci credono. Se volessi mandare un messaggio, perché mai dovresti renderlo subliminale? È una pazzia”.

Dato che stiamo parlando di occulto, ricordi come nacque il titolo di Mogwai Fear Satan?

SB: “Non ricordo benissimo, penso fu una frase che uscì casualmente durante una conversazione. Gli altri membri del gruppo hanno ricevuto un’educazione cattolica crescendo, mentre i miei non sono mai stati persone particolarmente religiose.”

Essendo voi una band per la maggior parte strumentale, come è cambiato il modo in cui scegliete i titoli nel corso della vostra carriera? E quanta importanza gli date?

SB: “Devo dire che inizialmente cercavamo di approcciarci alla scelta dei titoli in modo ‘serio’, ma poco dopo ci siamo resi conto che non ha senso cercare di dare un determinato tono a qualcosa che non deve essere per forza ‘preso sul serio’. È facile cadere nella pretenziosità, quando in realtà la musica esiste indipendentemente dal resto. Quindi ci siamo approcciati alle scelte in modo sempre più rilassato con il passare degli anni”.

Il non cantare sulla maggior parte delle vostre canzoni è stata una scelta cosciente o qualcosa che è capitato casualmente?

SB: “Quando abbiamo iniziato a suonare eravamo a una proporzione di 50:50, metà canzoni erano cantate e metà erano strumentali. E le strumentali erano più belle, tutto qua. Non sono un grande cantante, non scrivevo poi molto e ad un certo punto prendere quella direzione era l’unica cosa sensata”.

Lavorare sulla colonna sonora di Les revenants ha cambiato in qualche modo il vostro processo di scrittura e registrazione?

SB: “Probabilmente lavorare a un nostro disco dopo quell’esperienza ci ha portato una sensazione di libertà, ovviamente non puoi comportarti nello stesso modo quando componi per te e quando lo fai per un programma televisivo. Non che io preferisca una cosa all’altra, sono entrambi progetti incredibili”.

Mi puoi raccontare brevemente come vi siete approcciati a quella colonna sonora?

SB: “Avevamo sotto mano la trama, e un’idea generale sul tono che volevamo dare al tutto. Con questi presupposti, ci siamo messi a scrivere. Non tutto quello che abbiamo prodotto è piaciuto, c’è da dire. Invece, quando è arrivato il momento di registrare abbiamo potuto farlo considerando anche le immagini, che erano ormai pronte. Sono molto felice di quello che ne è uscito”.

Vi sentite più a vostro agio nell’accompagnare con la vostra musica le immagini di un film o di uno dei vostri video?

SB: “Per essere onesto, non abbiamo molto a che fare con la produzione dei nostri video. Lasciamo molta libertà a chiunque li diriga – ad esempio Antony [Crook, regista del video di The Lord Is Out of Control] ha fatto un’ottimo lavoro, ma è venuto tutto da lui. Noi abbiamo solo dato il nostro assenso. Siamo amici da qualche tempo, in passato ha curato per noi l’artwork di Hardcore Will Never Die, But You Will. Adesso si sta concentrando sulla fotografia e sulla regia – infatti, sta girando un film di cui cureremo la colonna sonora. Si chiama Hudson River Project: girerà un suo amico partire da New York City e risalire il fiume Hudson fino alla foce. Sono 300 miglia. Sarà un documentario, dato che succederà tutto realmente, ma con un intento perlopiù artistico”.

Essendo voi di Glasgow, volevo chiederti cosa pensi del referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito che si terrà nel 2014.

SB: “Sono fortemente a favore dell’indipendenza. Sto anche aiutando la campagna per il “sì”. A livello generale, è come se le persone abbiamo appena iniziato a ragionarci su e ad informarsi. Quindi non ho ancora ben capito come potrà andare a finire. Penso che l’indipendenza debba essere la normalità, la situazione attuale è solo una reliquia lasciata dall’impero britannico. La Scozia è un paese molto antico, totalmente capace di sostenersi da solo. Per la maggior parte della mia vita, la mia nazione ha avuto un governo conservatore ma la Scozia non ha mai votato in maggioranza per quella parte. È un esempio di ingiustizia”.

Vi è mai stato chiesto di trasferirvi da Glasgow per diventare più “grandi” come band? E se sì, perché avete deciso di restare?

SB: “Ho vissuto a Londra e ad Edimburgo per dei brevi periodi, ma vivere a Glasgow mi piace molto di più. Quando eravamo agli inizi molti ci consigliarono di trasferirci a Londra ma oggi quel discorso non è più valido, Glasgow è diventata un centro culturale molto più grande di prima e spero che le nostre band più giovani percepiscano questo stato di cose”.

Avete un rapporto molto profondo con All Tomorrow’s Parties e i suoi festival – avete curato il primo, nel 2000, e ci avete suonato in molte occasioni. Perché pensi che abbiano deciso di interrompere l’esperienza dei Summer Camps?

SB: “Penso che sia solo una questione di business, quegli eventi non andavano sempre sold out e quindi, a livello economico, era difficile riuscire a continuare a proporli. Curare un loro festival fu un’esperienza splendida, facemmo suonare un sacco di band incredibili come i Sonic Youth e i Labradford. È un’opportunità che ti viene data di passare del tempo con alcuni dei musicisti che più ammiri, conoscere persone e sentirsi parte di un bell’evento. Sono stati bei momenti. Tra l’altro, quella volta il festival era stato già organizzato e cancellato una volta, quindi ci diedero la possibilità di scegliere solo metà della line-up”.

Da che cosa nacque la scelta di fondare un’etichetta “vostra” come la Rock Action per pubblicare i vostri dischi?

SB: “Penso che sia una questione geografica: a quei tempi, tutte le band di Glagsow facevano così. Aprivano le loro etichette personali e stop. Non arrivavano nemmeno più talent scout da Londra, ma non era affatto un problema – le band facevano tutto da sé, ad esempio i Delgados. Quindi ci sembrò una cosa normale da fare, dato che tutti i nostri amici l’avevano già fatto. Inizialmente neanche si poneva il problema della distribuzione fuori dal Regno Unito,  stampavamo solo 500 copie (ride). Non avevamo idea di quello che sarebbe successo, anche se arrivavano ordini da parti lontanissime del mondo, come il Giappone”.

Quindi quanto ha influito il fattore geografico sulla vostra crescita come gruppo e come individui?

SB: “In realtà io sono cresciuto nella campagna attorno alla città – il che è stato splendido, ed è un luogo che tuttora adoro. La maggiore influenza che Glasgow e la sua scena musicale hanno avuto sul gruppo è stato il suo approccio terra-terra. Alla gente di Glasgow non piacciono le persone troppo piene di sé (ride). Il punto è fare qualcosa di speciale senza comportarsi come se lo fosse. È una grande parte di noi e di quello che facciamo”.

I Mogwai saranno in Italia a breve per due date, qua tutti i dettagli

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