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Intervista: Johnny Flynn

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johnny flynn

 di Lorenzo Cibrario, introduzione di Elia Alovisi

[quote]Se nasci con un amore per lo scrivere e per ciò che viene scritto –
Gente di lettere, il vostro avvertimento è chiaro:
Presta attenzione al tuo cuore e non al tuo spirito,
Non dire in una lettera quello che non riesci a dirmi all’orecchio.[/quote]

Così canta Johnny Flynn in The Wrote & The Writ, secondo pezzo del suo esordio A Larum. Così, in quel pezzo Flynn parlava della scrittura indeciso se sentirne il dolce o l’amaro, a metà tra la sincerità del raccontarsi e la frivolezza dell’essere cantastorie. Perché l’immagine che Johnny dà di sé, senza neanche doversi sforzare, è quella del menestrello. Magrolino, biondino, britannico, scapestrato, con l’acustica in mano: ci mancano le guance sporche di cenere, le brache di tela e potrebbe essere uscito dalle Canterbury Tales di Chaucher. Arrivato al terzo disco, Country Mile (dopo Been Listening del 2010), l’immaginario di Johnny è lo stesso – le campagne inglesi, l’amore, le storie della tradizione, la letteratura – ed è come se la voglia di vagabondare con la chitarra a tracolla e di cantare la natura e l’assoluto non gli sia ancora passata.

Dalla tua biografia si evince che hai un background molto colto ed articolato, citi addirittura Shakespeare e Yeats tra le tue influenze. In particolare, quanto e cosa della loro poetica si può trovare nella tua musica?

Johnny Flynn: “Sono stato fortunato abbastanza da recitare in alcune opere di Shakespeare. Nei suoi versi esiste una musicalità che mi sembra predominante, ma a parte quello mi affascina molto anche l’uso che fa delle allegorie, delle similitudini con cui crea vibranti immagini dell’universo. Amo Yeats per il suo misticismo, perché riesce a trasportarti nel regno dello spirito in poche parole”.

La tua musica – specialmente il tuo debutto A Larum e il seguente Been Listening – può essere associata alla country music. In quanto musicista europeo, qual è il tuo pensiero a riguardo del fatto che in Europa il country è ancora legato a stereotipi invece ormai superati negli Stati Uniti?

JF: “Penso che il beneficio per un europeo come me sia stato il fatto di non essere cresciuto in un ambiente contaminato dalla contemporanea county music, o in un contesto in cui la country music è nata e sviluppata. Ho potuto così focalizzarmi su musicisti che adoro – Hank Williams per esempio – e analizzarli dunque scevri dal contesto attuale. Ma onestamente non vedo quello che suoniamo particolarmente country, e francamente non so nulla di country contemporaneo, ascolto solamente roba vecchia, come country-blues, bluegrass, quella roba lì insomma”.

Quest’anno si celebra il quarantesimo anniversario della morte di Gram Parsons, il quale può essere considerato oltre che un magnifico musicista anche uno dei padri del country – soprattutto grazie ai Flying Burrito Brothers e ai Byrds. Trovi che nella tua musica ci sia qualcosa di parsonsiano?

JF: “Sì. Amo molto Gram Parsons. Ho ascoltato I Byrds un pò – soprattutto Sweetheart of the Rodeo. Non direi però che è stato un padre del country, piuttosto un nipote rinnegato o qualcosa del genere. Ciò che fece con i Byrds fu profondamente influenzato dalla musica che li aveva preceduti – si rifacevano ad un suono e ad una scena che si sentiva parecchio in giro a quei tempi. Comunque sì, penso che ci sia un po’ di Gram nella nostra musica in termini di influenze, ma di certo non cerco di copiare nessuno. Ascolto un po’ di tutto, alcune cose rimangono altre passano, non mi soffermo su di un genere particolare. Esistono metodi, tonalità e coloriture della musica con cui mi sono formato sicuramente, ma non prendo in prestito deliberatamente dagli altri. Mi piace Townes Van Zandt tra l’altro, e ad essere sinceri lo ascolto di più che Gram”.

Ci sono diversi punti in comune tra te, Langhorne Slim, Laura Marling, Conor Oberst e i Mumford & Sons, è come se faceste parte di una grande scena country – come pensi che possa attrarre i giovani questa musica?

JF: “Aspetta, intendi che io sono influenzato da questi nomi o che condividiamo le stesse influenze? Non credo in entrambi i casi tu abbia ragione. Non vedo similitudini tra questi musicisti e me, se non che usiamo tutti la chitarra acustica, sembra che tu abbia letto questi nomi da un’app  che ti dice cosa dovresti ascoltare”.



Le tue parole sono molto ironiche e al tempo stesso profonde: qual è il tuo processo creativo, come scrivi i tuoi testi?

JF: “Mi sembra che si scrivano da sole. Non faccio altro che portarmi dietro il mio taccuino, perché non è che mi sieda a scrivere molto spesso. Magari sono sul bus e sento una melodia o magari sono seduto in un parco e mi vengono in mente dei versi. A volte ne unisco di diversi perché mi accorgo che trattano di temi simili tra loro. Mi sembra a volta di deglutire un’ esperienza e di trasformarla in una canzone; ecco è questo il mio metodo di scrittura. È abbastanza metafisica come esperienza, per cui è difficile da spiegare, diciamo la mia scrittura sta più all’arte concettuale che alla pittura classica”.

Sei nato in Sud Africa per transferirti prima a Londra ed ora nella campagna inglese. Qual è il tuo contesto preferito per comporre musica?

JF: “Sono nato in Sud Africa, ma ci siamo trasferiti in Inghilterra quando avevo due anni; lì abbiamo girato un pò di posti prima di fermarci nella campagna dell Hempshire quando di anni ne avevo cinque. Abbiamo vissuto in un bucolico villaggio vicino ad un fiume circondato da campi e boschi. Quando avevo quattordici o quindici anni ci siamo spostati nel Galles occidentale in un altro piccolo villaggio questa volta di pescatori, dove ho lavorato per un po’ nel porto. Vivo a Londra ora, ma cerco appena possibile di fuggire via, perché non mi piace vivere in una città; non lo farei se potessi. Il fatto che io abbia vissuto in posti così rurali ha certamente influito nella mia visione del mondo, per cui sì, sono importanti nella mia musica. Sono cresciuto  in posto non contaminati dalla modernità, in cui non esisteva un senso della moda e dei trend, per cui sono cresciuto ascoltando musica senza pensare “non posso ascoltare sta roba, non è dei miei tempi”. Vivere in un posto che non è cambiato molto negli ultimi cento anni ha sicuramente accentuato in me un senso di rispetto verso il passato e verso la comunità”.



Tre album all’attivo, di cui uno appena uscito, fanno di te un autore decisamente prolifico. Vorresti parlarci del nuovo disco Country Mile? In cosa si differenzia dei precedenti?

JF: “Non so, è dura da definire quando sei dentro alle cose. Non posso francamente comparare gli album che abbiamo fatto. E’ compito di qualcu altro. Questo disco è stato scritto da me e dal mio bassista nel giro di due anni. È stato più che altro un modo per utilizzare tutte le conoscenze che abbiamo appreso lavorando con produttori e registrando demo e piccoli progetti nel corso degli ultimi otto anni. È una specie di fotografia degli ultimi anni, cosa che ha una maggiore profondità, per quanto mi riguarda”.

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