In ricordo di Chester Bennington

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Ieri sera ero a vedere un concerto e guardando distrattamente Facebook mentre caricavo una foto, ho visto la notizia. Sul momento non mi ha colpito più di tanto, ma l’associazione con gli Stone Temple Pilots e quindi con Scott Weiland è stata immediata. Il concerto (di Diego Mancino) è stato talmente bello che non c’è stato spazio per pensare e nient’altro.

Arrivando a casa però il pensiero di quella morte si è scavato un solco nella mia testa. Non è possibile scinderla da altre due morti che hanno scosso la musica e me negli ultimi due anni: Scott Weiland appunto e Chris Cornell.

La cosiddetta “maledizione del grunge” è una stronzata. È solo una frase fatta che si divertono a usare le testate generaliste, quando qualcuno degli artisti appartenenti a quel genere ha dei problemi o ci lascia, ma il collegamento con quel mondo Chester l’aveva eccome. In primis la sua voce.

Le band che hanno attraversato tutto il new metal e il crossover, hanno quasi sempre usato una divisione netta fra voce pulita e growl. Deftones, Korn e tutti gli altri avevano poche vie di mezzo, anche per segnare un punto di rottura con chi era arrivato al successo prima di loro. Le band grunge usavano la voce in modo più rotondo, ruvido e sofferente. Le band crossover e nu-metal invece volevano esprimere rabbia, inquietudine, ma anche divertimento (come i Limp Bizkit ad esempio) e in alcuni casi speranza, più che sofferenza e disperazione.

Chester invece camminava sul confine di quel limite: il suo modo di cantare era un ponte fra i generi che si erano passati lo scettro di attrattive principali della musica rock di quegli anni (grunge > crossover > nu-metal) e anche un ponte fra le generazioni che hanno seguito quei generi.

Il suo modo di cantare, con la voce roca mista a un pulito cristallino, prendeva tutte le caratteristiche dei grandi cantanti che lo avevano preceduto, mettendoci però dentro anche un intuito per il pop incredibile. Non si può dire che sia mai stato un cantante metal, proprio per questo si è tirato dietro per decenni l’odio dei duri e puri, che lo accusavano di fare musica per ragazzine (bisognerebbe aprire anche un capitolo a parte sull’omofobia e il maschilismo nel metal e nel rock, ma lo facciamo un’altra volta), ma non si può dire neanche che sia stato un cantante pop.
La sua forza è sempre stata quella di non appartenere a nessun genere, ma è proprio quello che i molti detrattori non gli hanno mai perdonato.

Anche chi del grunge ha fatto la storia si è accorto di lui, non è un caso se, dopo aver escluso Scott Weiland dalla band nel 2013, gli Stone Temple Pilots abbiano chiamato lui a sostituirlo per una breve serie di date.

Questo filo che lo lega a Scott Weiland è lo stesso che lo lega anche a Chris Cornell. Bennington non è mai stato un ragazzo “spensierato” come possono sembrare i suoi compagni di band, quella sofferenza, quella disperazione di cui parlavo prima faceva parte anche di lui.

La sua lettera dopo la morte di Cornell faceva capire che era stato toccato nel profondo da quella morte, non solo per il fatto di avere un legame personale di amicizia e stima con il cantante dei Soundgarden. Il buio che aveva invaso la mente di quest’ultimo, fino a portarlo alla morte, quel buio contro cui probabilmente ha combattuto tutta la vita, apparteneva molto probabilmente anche a Bennington.

Non riesco a non pensare che la morte di Cornell abbia dato la spinta finale a un pensiero che gli attraversava la testa da un po’ di tempo. La cosa mi fa gelare il sangue, soprattutto perché il cantante dei Linkin Park ha scelto proprio il giorno del compleanno di Chris per dire addio. Quel buio poi è lo stesso che ha portato via anche Scott Weiland due anni fa. Tre morti così ravvicinate e legate probabilmente dalle stesse motivazioni non possono non far riflettere e non possono che lasciare un vuoto desolante e triste.

Ho un ricordo molto preciso della voce di Chester. Non sono mai stato un fan della band e sono sempre stato abbastanza severo nei miei giudizi su di loro, ma ne ho riconosciuta la straordinaria capacità di arrivare alle persone, grazie alle linee vocali e alle parole del loro cantante. Tuttavia dal vivo, esattamente come Chris Cornell, non è mai stato impeccabile. Entrambi facevano una fatica non indifferente a replicare sul palco quello che facevano in studio, ma al secondo gli è sempre stato perdonato tutto, al primo mai.

Li vidi anche dal vivo prima dei Deftones nel 2001, ma anche in quel caso il pubblico non fu clemente con lui e con loro.

Il mio ricordo principale è un salto indietro. Nella mia vita da ventenne appassionato di rock e metal, il sabato sera era consuetudine e a volte l’unica soluzione possibile, andare nelle discoteche “rock” milanesi o limitrofe. Alcatraz, Nautilus e successivamente Zoe erano gli unici posti dove potevi sentire un certo tipo di musica. Tutte le sere la stessa scaletta, tutte le sere le stesse canzoni, ma se avevi vent’anni e le finanze ti permettevano di andarci una volta al mese erano quelle che volevi sentire.

In quella famigerata playlist non poteva mancare In The End dei Linkin Park. Ogni volta che partiva esclamavo “Che palle!”, perché se ora ne riconosco il valore “popolare”, ai tempi semplicemente non mi piacevano. Ma nonostante l’esclamazione iniziale non potevo fare a meno di cantarla e all’altezza dello special “I put my trust…”, chiunque mi avesse visto avrebbe detto che era la mia band preferita. Quello special è insieme a Numb l’esempio perfetto della capacità di Chester di scolpire nella roccia e nella mente delle persone linee vocali indelebili e di riuscire fartele cantare anche se non ti piacciono.

I Linkin Park non saranno mai una band seminale, non avranno mai il prestigio di band come Korn o Deftones, ma sono e saranno l’ultima band di quel tipo ad arrivare a un pubblico così vasto. Fare 400 milioni di visualizzazioni con un pezzo che è uscito quando youtube neanche esisteva non gli darà valore dal punto di vista critico, ma ha un valore inestimabile per tutte le persone che in questi anni l’hanno cantata. Inoltre è un valore maggiore della considerazione che possono avere i critici o i puristi del metal e del rock.

Se lo hanno fatto, è (quasi) tutto merito di quella linea vocale cantata da Chester Bennington.

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