Intervista: Daniele Baldelli

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daniele baldelli

di Maurizio Narciso

“Ho davvero sempre fatto quello che mi andava di fare, quello che mi piaceva, evidentemente incontravo il favore del pubblico o, per meglio dire, quello dei miei sostenitori” sono le parole di Daniele Baldelli per descrivere, con grande umiltà, ciò che lo ha portato ad essere il DJ italiano per antonomasia. Rispondendo alle nostre domande, Baldelli ci fornisce una visione assolutamente romantica del djing, in particolare di quel tempo, a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80, in cui “mettere i dischi” nel nostro Paese iniziava a diventare qualcosa di più che infilare sul piatto uno dopo l’altro dei 45 giri rigorosamente ordinati dal padrone del locale. Era la nostra golden age della musica disco e, di lì a poco, si sarebbe iniziato a parlare di “superstar deejays” e di sdoganamento della musica dance/elettronica – non più sonorità di nicchia ma per una platea sempre più allargata – ma questa è un’altra storia. I tempi dei quali discutiamo con il dj originario di Cattolica erano ancora quelli “ante-massificazione”, dove i dischi si selezionavano stando in un angolo ed a contare era la musica, il gusto del dj, il groove che arrivava alle orecchie del pubblico.

Non vogliamo dire che oggi questi aspetti si siano persi – ci sono ancora, eccome, i dj che curano ogni singolo aspetto del proprio suono – ma una figura come Baldelli fu fondamentale per abituare il pubblico italiano all’ascolto di musica trasversale: non c’era un genere che non veniva spezzato e ri-assemblato dall’italiano, anticipando quell’attitudine a non avere preconcetti mentali che solo recentemente si è fatta più percorribile dai dj e accettata/apprezzata da critica e pubblico. Questi e altri temi, legati alla gloriosa Baia degli Angeli e al Cosmic di Lazise sul lago di Garda, raccontati da chi non solo c’era, ma è stato uno dei primi attori della scena.

Sei “il DJ italiano per antonomasia”. Questo assunto che ti porti dietro sicuramente ti renderà orgoglioso, eppure lo trovo un po’ limitante, non trovi? Forse perché l’attività del dj è cambiata profondamente nel tempo.
“Ti dirò, i complimenti fanno sempre piacere! Eppure delle volte, anche se non sembra, cerco di evitarli. Quasi fossi io il primo che tende a sottovalutarsi, rispondendo ai giornalisti che non ho fatto niente di eccezionale ma semplicemente quello che mi piaceva fare”.

Se penso alla tua figura mi viene in mente quella di un grande curioso in musica, che in tempi non sospetti ha cercato di superare le barriere tra i generi, proponendo attraverso le selezioni musicali la propria visione. Può andare meglio?
“Penso proprio che questa tua descrizione mi calzi a pennello. È proprio questo ciò che ho fatto e che continuo a fare. Non sono mai stato un dj monotematico. Sono sempre alla ricerca di nuove emozioni, nuovi generi musicali, nuovi musicisti, nuovi artisti, tutto ciò che può attivare sensazioni piacevoli nel meccanismo orecchio – cervello”.

C’è un momento in cui hai capito che quello che stavi facendo non era altro che esprimere sé stessi piuttosto che svolgere un compitino?
“Ritengo di essere stato fortunato, non ho mai dovuto fare il compitino. Ho davvero sempre fatto quello che mi andava di fare, quello che mi piaceva, evidentemente incontravo il favore del pubblico o, per meglio dire, quello dei miei sostenitori. Ovvio che dopo gli anni del liceo scientifico e cinque anni di università ho deciso, consciamente, di essere un mancato dottore in agraria”.

Mi piacerebbe che ci raccontassi dei tuoi esordi, di cosa voleva dire selezionare i dischi sul finire degli anni sessanta nella tua cittadina, Cattolica.
“Nel 1969, a 17 anni, frequentavo Il Tana Club, una discoteca per giovanissimi. Stavo sempre vicino a quella che ora si chiama consolle, allora non era altro che la continuazione del bancone del bar. Il proprietario del locale notò la mia curiosità e mi chiese se avevo voglia di mettere i dischi. Con un misto di imbarazzo e timore, accettai. Concretamente i dischi, che erano tutti 45 giri, erano già messi in fila uno dietro l’altro, con l’alternanza di tre dischi per ballare lo shake e tre per ballare il lento. Io dovevo seguire rigorosamente quell’ordine prestabilito. Avevo a disposizione due giradischi, non c’era il mixer ma esclusivamente due pomelli per alzare e abbassare il primo o il secondo piatto. Niente cuffia, niente cassa monitor, praticamente non esisteva il missaggio ma bisognava andare in dissolvenza di volume tra una canzone e l’altra”.

Avevi cognizione di ciò che si suonava nel resto del mondo?
“Beh, si usa dire che l’Italia è il paese del bel canto, che il rhythm and blues non è nelle nostre radici, che il rock non è nato nel nostro Paese, che il funk è roba americana, e sono tutte cose vere, io posso aggiungere che la disco, il pop e la new wave sono generi che abbiamo importato. Quindi era ovvio, allora, essere prettamente “esterofili”. Tutti i brani da ballare in pista provenivano dall’America e dall’Inghilterra mentre le canzoni italiane erano di solito brani adatti per i lenti. Al Tabu Club regnavano Wilson Pickett, Etta James, Joe Tex, James Brown, Aretha Franklyn, Arthur Conley e per i lenti Mina, Vanoni, Fred Bongusto, Bruno Martino.

Parlaci invece di quando sei arrivato a selezionare i dischi nella Baia degli Angeli. Che aria si respirava?
Nel 1975 alla Baia degli Angeli cerano due dj newyorkesi, Bob Day e Tom Sison, che non hanno bisogno di presentazioni. Da loro molti impararono i primi rudimenti per eseguire un missaggio. A quei tempi ero alla ricerca di alchimie per potermi avvicinare a qualcosa che potesse vagamente sembrare un missaggio, usando il cambio di velocità tra 16, 33, 45 e 78 giri che avevo sui miei piatti Lenco 80.  Ma è solo vedendo all’opera quei due americani che imparai il metodo: togliere la classica “gomma” dal giradischi per sostituirla con un vinile dodici pollici compreso di copertina di carta sotto, non c’era ancora il panno o slipmat, farlo girare accompagnando con le mani la sua corsa, all’inizio e alla fine, per adeguare il tempo al disco che precedeva-seguiva”.

Un quadro particolare, quello di cui stiamo parlando, perché erano anche gli “anni di piombo” in Italia, eppure c’era un fermento culturale incredibile, non solo nell’ambito della musica disco. Come vivevi questa situazione?
“Non ero molto coinvolto politicamente, pensavo solo alla musica, anche perché dal 1970 al 1975 le stagioni estive al Tabù Club di Cattolica erano qualcosa di speciale. Si suonava tutte le sere, dalle 21.00 alle 3.00 del giorno dopo e questo dal 20 maggio al 20 settembre. Non esisteva il dj guest, c’eri solo tu e la tua musica”.

Conservi qualche aneddoto particolare su Bob Day e Tom Sison alla Baia degli Angeli?
“Lo sai che si complimentarono con me per una selezione musicale? Mi vennero ad ascoltare un pomeriggio, erano proprio i tempi in cui finivo la mia serata al Tabù alle 3.00. Spesso passavo il resto della giornata alla Baia degli Angeli, così vennero da me per dirmi quanto gli erano piaciuti i miei dischi. Furono sempre loro che mi presentarono alla nuova gestione della Baia nel 1977, quando decisero di tornare negli States. Mi piace affermare che il mio apporto alle serate della Baia degli Angeli è stato semplicemente quello di portare avanti l’eredità che mi veniva offerta. Erano gli anni d’oro della disco-music, tutto era di grande qualità, non c’era niente da inventare, bastava avere buon gusto!”

daniele baldelli live

L’altra tua tappa fondamentale riguarda il “Cosmic”, un locale dove si ballava ma anche un tipo di musica che hai contribuito a diffondere, facendola tua. Un’attitudine a miscelare ancora di più i ritmi, in modo totale.
“Rispetto al Cosmic di Lazise sul lago di Garda ci tengo a dire la sento proprio come una mia creatura, almeno dal punto di vista artistico. Chiaramente ciò che facevo era dettato dalla passione e dalla continua ricerca in musica. Inutile dire che non ero immune dalla classica malattia del dj: vinili, vinili, vinili e ancora vinili. Non riuscivo a sottrarmi alla tentazione di entrare nei negozi di dischi e lasciare lì tutti i miei averi… riuscendo pure ad indebitarmi. Quello che ora mi viene riconosciuto da tutti, il non avere preconcetti in musica, nacque istintivamente. Non mi rendevo conto di mixare qualunque genere musicale, anche quelli non nati espressamente per il dancefloor. Era una tendenza agli antipodi rispetto a quella che andava per la maggiore, ovvero essere un dj monotematico”.

Musica afro, funk, jazz, electro, house per te non aveva importanza. Contava il groove. Sei riuscito a dare un significato a questa parola?
“Se posso ti rispondo con uno stralcio della mia biografia ufficiale, più che altro per farti capire quanto fosse importante per me la commistione tra generi: Daniele Baldelli si esprimeva quando suonava il Bolero di Ravel sovrapponendolo ad un brano degli Africa Djola, oppure un pezzo sperimentale di Steve Reich sul quale mixava un canto Malinke della Nuova Guinea, mixando i T-Connection con Moebius e Rodelius, scoprendo nell’album Izitso l’unico brano ipnotico-tribale di Cat Stevens, estraendo l’africa dai Depeche Mode suonandoli a 33 giri o viceversa facendo diventare musica una voce reggae suonata a 45 giri, mixando una ventina di brani africani su uno stesso pattern di batteria elettronica o suonando insieme una batucada con Kraftwerk, usando gli effetti elettronici di un sintetizzatore per sovrapporli a brani di Miram Makeba, Jorge Ben o Fela Kuti o ancora accostando le melodie indiane di Hofra Haza o Sheila Chandra con le sonorità elettroniche della Sky Record tedesca”.

Come scoprivi la buona musica?
“Avevo dei negozi di fiducia ma valeva anche il passaparola, semplicemente acquistavo tutto quello che avevo a tiro”.

Qual è il pezzo che ti ha cambiato la vita?
“Ricordo ancora tutte le emozioni che provai al primo ascolto dell’album Sweetnighter dei Weather Report. Devo moltissimo a quel disco”.

Parlami del Daniele Baldelli produttore. C’è stato un tempo in cui mettere i dischi non è bastato più?
“Più che altro ebbi la voglia di produrre un disco tutto mio. All’inizio è stata abbastanza dura, perché non avevo esperienza in quel campo. Ricordo che avevo buone idee e un suono in mente che poi non riuscivo a riprodurre con le macchine. Fondamentalmente ero parecchio insoddisfatto da ciò che veniva fuori. Poi, pian piano, ho appreso i trucchi del mestiere. E comunque va chiarito che mettere insieme qualche mattoncino colorato su Ableton Live non vuol dire essere un produttore, salvo essere davvero geniali e avere in testa qualcosa di davvero fuori dal comune”.

Quanti dischi hai a casa?
“La mia raccolta dovrebbe essere arrivata da poco a quota 70.000 vinili”.

Ci lasci una playlist in esclusiva per RUMORE?
“Certo. Ti avverto subito che in questa playlist sono presenti tante mie produzioni o remix, tutte uscite degli ultimi anni realizzate con coloro che sono ormai i miei partner fissi: Marco Dionigi, Dj Rocca, Dario Piana e Mattia Dallara dello Studio “Deposito Zero”. Non vorrei passare per presuntuoso ma ci tengo a presentare alcune delle cose che recentemente sono state molto apprezzate nella mia Boiler Room a Bali, in Indonesia“.

  1. Daniele Baldelli & Dario Piana – Infinity Machine (Leng Records)
  2. Koto – Chinese Revenge (Cellophane Records)
  3. Daniele Baldelli & Dj Rocca – Pongo (Real Balearic)
  4. Manuel Göttsching / Ashra – Shuttlecock Baldelli & Dionigi Rework (Vinyl Factory)
  5. Kissing The Pink – Mr. Blunt (Magnet Records)
  6. Daniele Baldelli – Ghandarva (Cinedelic/Mondo Groove)
  7. Passport – Ju Ju Man (Atlantic Records)
  8. Daniele Baldelli – Funk Syndrome (Mondo Groove)
  9. Wally Badarou – Endless Race (Island Records)
  10. FunKaDiBa – Rusty (QND Philosophy Records – Wordandsound)
  11. Brecker Brothers – Don’t Stop the Music (Arista Records)
  12. Psycho Radio – Bad Reputation Baldelli & Dionigi Remix (Rebirth Records)

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