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Intervista: Dan Auerbach

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di Elia Alovisi / fotografie di Alysse Gafkjen

Dan Auerbach ha due occhiaie clamorose, e mentre parla inserisce più volte riferimenti alla pesantezza dell’andare in tour. Anche se è in giro solo per parlare del suo nuovo album, si percepisce una certa abitudine alla stanchezza nel suo modo di porsi — da cui nascono risposte un po’ comandate ma, a lunghi tratti, genuine. Le sue parole sono punteggiate da numerosi “d’you know what I mean?“, a segnare quelli che sono i punti più salienti del suo discorso. Qua sotto sono omessi per facilità di lettura, ma li mette quando parla di come non si è mai sentito a suo agio in uno studio prima di costruire il suo, di quando dice che non fare il musicista non è mai stata un’opzione plausibile nella sua vita, mentre rivela la gioia che ha scoperto nello staccarsi dai social media, e infine mentre parla di quanto la tradizione musicale americana sia inscindibile dal suo subconscio.

Se con i suoi Black Keys, assieme al batterista Patrick Carney, Auerbach ha esplorato le forme del garage, del blues e dell’hard rock, nel suo unico lavoro solista finora – Keep It Hid, uscito nel 2008 – non aveva fatto che crearne una versione leggermente più personale nei temi e acustica nelle sonorità. Waiting on a Song, il suo nuovo album, si innesta sulla grande tradizione del country e del folk statunitensi — il nuovo ramo-Auerbach a trovare linfa vitale in un albero di grandi strumentisti di stanza a Nashville, Tennessee, suo luogo d’adozione e sede di Easy Eye Sound – il suo studio personale.

Nashville ha dato i natali a una grossa fetta degli irriducibili della grande canzone americana: Little Richard, Johnny Cash e June Carter, Willie Nelson, Kris Kristofferson, Waylon Jennings, Townes Van Zandt, Dolly Parton, Billy Ray Cyrus, in una grande sequela di Mostri Sacri™ che arriva alla contemporaneità nella figura di Jack White. Ecco: Waiting on a Song prende qualcosa da tutti loro, sia nelle tecniche che nelle modalità espressive. Abbandona qualsiasi forma di sgarbatezza sonora in favore del primo e originale suono che ha definito e continuerà probabilmente sempre a definire una certa America desertica, selvaggia, danzante e dolceamara.

Auerbach vive a Nashville da otto anni e ha cominciato solo da poco a chiamarla “casa,” appellativo prima riservato alla sua natia Akron, in Ohio. Se ci è riuscito è anche, dice, grazie al rapporto che ha sviluppato con i musicisti che hanno suonato assieme a lui su queste nuove canzoni. John Prine, pluripremiato e blasonato cantautore scoperto da Kris Kristofferson; Pat McLaughlin, turnista di lusso e solista di successo; Richard Swift, ex membro degli Shins, già compagno di Auerbach nei The Arcs e membro live dei Black Keys; David Ferguson, ingegnere del suono per gli American Recordings di Johnny Cash; e Bobby Wood, storico tatsierista turnista di Nashville. In due parole, un dream team di folklore musicale collettivo. Il risultato è un album perfetto, se considerato come prodotto di uno specifico luogo e portatore di uno specifico messaggio tematico e sonoro; un disco di alti e bassi, se all’ascolto ci sono orecchie per cui l’aderenza a una tradizione risulta limitante. Qua sotto la nostra conversazione con Auerbach, per parlare di tutto ciò di cui avete letto finora.

Quando ho sentito l’album mi aspettavo di sentire qualcosa di tradizionale, ma non qualcosa di così preso bene e spensierato. Da dove viene quest’atmosfera?
Dal vivere a Nashville, dal non andare in tour e passare in tempo in studio e con la mia famiglia. Dallo staccarmi dal mondo, dal non essere su internet o su qualsiasi social media.

È una questione di protezione?
Non proprio, credo sia più questione di rimanere nella realtà invece che nascondersi nei social. Inoltre, penso che la tua attenzione si sposti sulle cose sbagliate. Perdi molte delle tue emozioni perché stai micro-gestendo ogni dettaglio — tutto cambia velocemente, tutti hanno un commento, e non hai tempo per concentrarti veramente. Mettendo da parte tutto questo mi sono reso conto che mi stavo godendo tutto molto di più.

In che modo Nashville ti ha cambiato, dato che ci vivi ormai da otto anni?
Quando mi ci sono trasferito passavo praticamente più tempo in tour che a casa. Credo che mi ci sia voluto fino alla scorsa estate per decidere di smettere di andare in giro per il mondo a suonare e prendermi una pausa. Solo allora è diventato un luogo che ho potuto, per la prima volta nella mia vita, chiamare “casa.” E in quel momento ho cominciato a scrivere assieme ad altri musicisti, ad altre persone, seguendo la tradizione del luogo in cui ero. È lì che sta l’origine di questo album. Avevo amici e colleghi, certo, ma non ci avevo mai davvero lavorato assieme prima di allora.

Comporre con Patrick è molto diverso da comporre con i ragazzi che compaiono su Waiting on a Song
Coi Black Keys registriamo solo quello che ci serve per ogni album, e scriviamo in studio. Mentre invece qua si è creata una situazione più tradizionale, in cui ci si trovava semplicemente per comporre. Io, Prine, Fergie: scrivevamo canzoni e poi le portavamo in studio, dedicando giornate a tutto. Ed è un approccio che mi ha fatto sentire molto orgoglioso e contento. Prine l’ho conosciuto sei anni fa, appena mi sono trasferito. Abbiamo scritto sette o otto canzoni assieme, ma solo una è finita sul disco. Le altre sono su un hard drive!

dan auerbach foto 2017 black keys

Che ruolo ha avuto in tutto questo un luogo come Easy Eye Sound? Quanto impatta lo studio sul prodotto finale? 
È lo studio perfetto! Ha! Per costruirlo ho preso come modelli gli studi storici in cui sono stati prodotti alcuni album che amo: quello della Motown, lo studio di Willie Mitchell, American Sound. È un luogo molto accogliente. Sai, non mi sono mai trovato davvero a mio agio in uno studio — l’unico luogo in cui mi sono mai sentito libero di esprimermi prima d’ora era casa mia. È sempre mancato qualcosa a tutti gli studi in cui ho lavorato. Oppure erano impersonali, e allora ti sembrava di stare scrivendo nell’ufficio di un dottore. Con i Black Keys ho fatto tutto Turn Blue con i Black Keys al Sunset Sound di Los Angeles, ed era tutto così sterile… Nessuna foto appesa al muro, un vuoto totale, la stessa console che ha chiunque altro… capisci? Certo, è un bello studio, e la gente lo considera tale. Ma come fai a trarne ispirazione?

Ho letto che Malibu Man è un omaggio a Rick Rubin.
Sì! Lo conosco da anni, e ogni volta che vado a Los Angeles passo a trovarlo a casa sua, a Malibu appunto. Non ricordo bene come l’ho conosciuto, credo che mi chiamò dal nulla per dirmi che gli andava di incontrarmi e sentire quello che stavo facendo. Fergie è un suo super amico, ha mixato gli American Recordings di Johnny Cash che Rick ha prodotto, e hanno vissuto insieme per quattro mesi. E insieme abbiamo scritto Malibu Man. Non che parli di Rick, è più ispirata da Rick.

Mi puoi parlare anche di Undertow? Mi sembra il punto dell’album in cui suoni più pensieroso. 
Undertow è un brano che gira attorno a un’idea semplice: i brutti ricordi possono tornare a tormentarti, proprio come la risacca può portarti via con sé. Quando scrivo parto sempre dai ricordi, sia consci che inconsci. E a volte possono essere inconsci perché ho passato tutta la mia vita circondato dalla musica, e ne sono stato così influenzato che neanche me ne rendo più conto. Quando ero un ragazzo, nel nord est dell’Ohio, alla radio passavano sempre Tom Petty. E non ho mai comprato un suo disco in vita mia, ma so tutte le sue canzoni. A volte la tua mente ti sorprende, tira fuori cose che non sapevi potesse contenere.

Ecco, dici di essere stato circondato dalla musica fin dall’inizio: ma non fare il musicista è mai stata un’opzione per te? 
No. Appena ho deciso che avrei fatto il musicista è finita. Avevo diciotto anni, credo. Mollai la scuola e via, e nel giro di poco avevo già cominciato a guadagnarci, e neanche troppo poco. Suonavo in zona, facendo circa 300 dollari a serata, quattro concerti a settimana. Insomma, 1200 dollari a settimana quando non hai neanche vent’anni sono qualcosa di incredibile! Non che stessi andando da nessuna parte, suonavo in vari bar attorno alla città, ma conosco persone che lo facevano ai tempi e lo fanno tuttora. Ed è una cosa splendida, credo: sono persone che possono dormire nel loro letto ogni sera, non devono mai andare in tour, possono suonare la musica che amano. È uno stile di vita che viene considerato un po’ troppo poco.

Tu suoni musica che si rifà a un tempo passato, e quindi non posso non chiederti che cosa ne pensi del discorso sulla Retromania inaugurato da Simon Reynolds.
Penso sia tutto vero, guarda quanta gente va in giro vestita come se fossero gli anni Ottanta! È assurdo. Ma ti posso dire, parlando dei miei gusti, che non mi piace ascoltare cose che suonano retro al 100%.

Ma dove tracci il confine tra “retro al 100%” e “prendere la tradizione e innestarla su qualcosa di nuovo”?
Bé, credo sia ok avere influenze e usare tecniche del passato, ma quello che non mi va giù è quando si produce un disco con lo specifico intento di farlo suonare esattamente come un disco di un tempo che fu. Tipo, usare l’acetato. Sbagliare apposta a microfonare la batteria per farla suonare di merda. Agire in questo modo è una forma di travestimento. Io uso tecniche “vecchie,” ma cerco di ottenere un basso e una cassa che suonino enormi, moderni. Un suono pieno. Quello che mi piace di più è combinare questi due mondi, ecco.

Tornando ai testi: che ruolo credi che abbiano nel rendere un determinato pezzo senza tempo? Perché si tratta sempre di trattare temi universali: una ragazza che ti ha lasciato, un’amicizia. Ma come si fa a non farli percepire come cliché? 
Non credo che i testi possano mai suonare “falsi”. Insomma, parlare di una ragazza che ti ha lasciato è qualcosa di umano, qualcosa che succede tutti i giorni. La questione è che non devi davvero pensarci troppo: farlo è il tuo lavoro, e mi dispiace! Perché a volte il nucleo non è neanche il testo. È il sentimento. E negli ultimi due anni ci ho pensato un sacco — non importa che cosa io stia dicendo, ma come mi faccia sentire una volta che è diventato parte di un tutto. Alcune delle mie canzoni preferiti hanno dei testi davvero idioti, ma non per questo non le adoro. Chessò, i Creedence Clearwater Revival hanno dei testi pieni di cliché, ma adoro il modo in cui sono stati messi assieme.

Forse non sapere bene l’inglese può aiutare l’ascoltatore, in questo senso.
Sì, assolutamente! Se non parli inglese ti puoi concentrare direttamente sul sentimento e sulla melodia. Ne stavo parlando giusto l’altro giorno: credo sia un vantaggio, non dover analizzare tutte le parole. Io non l’ho mai fatto, né mi è venuta mai davvero voglia di farlo.