di Mario Ruggeri / fotografie di Caroline Traitler
Racconti di vita in forma circolare. Oppure, la circolarità delle storie e la musica come plot narrativo e cinematografico. L’undicesimo disco di studio degli Anathema, quattordicesimo se consideriamo gli album dal vivo, racconta la storia di una band che da anni ha abbandonato le terre del metal, per dedicarsi ad un progetto musicale aperto e puramente rock. E che ha oltrepassato i confini della musica per divenire un percorso ben più profondo. The Optimist, pubblicato dalla Kscope proprio in questi giorni, nella storia degli Anathema rappresenta il punto più evoluto di questa visione “cinematografica” della musica, in cui il suono è in realtà uno strumento di narrazione, a prescindere dalla sua codifica e dalla sua provenienza.
A chi li definisce una band prog-rock, Vincent Cavanagh cioè il fondatore (con il fratello David) del gruppo inglese risponde, come vedremo più avanti, che gli Anathema oggi potrebbero essere considerati prog-rock solo a condizione che il prog-rock sia visto in forma evolutiva e contemporanea. Per lui The Optimist è ben altro. È il minimalismo di Carver in musica, aggiungiamo, ed è il cinema nella musica. The Optimist riprende il personaggio centrale di A Fine Day To Exit (disco pubblicato nel 2001) e lo immerge in un nuovo contesto. Lo racconta in un modo nuovo. La teoria del sequel, applicata alla musica. Ed è proprio da qui che inizia la nostra conversazione.
Vincent, riprendete il personaggio di A Fine Day To Exit narrando una sua nuova vita. E in The Optimist la musica cambia proprio per dare forza a questo passaggio. Come mai?
Perché ho sempre pensato che quanto nato in A Fine Day To Exit fosse appunto nato, e non compiuto. Perché è qualcosa che ci accompagna da anni e sin da subito la nostra percezione era di incompiutezza. Come se vedessi qualcosa nascere, ma volessi vederlo crescere. Non nascondo che in più di un’occasione abbiamo pensato a quel disco come ad un vero inizio e la nostra era una curiosità personale: come se il personaggio del disco fosse in realtà vivo e fosse un nostro amico.
Sono passati quindici anni da quel disco…
Certo ed ora capisci perché ti dico che quanto abbiamo scritto in quella pagina è cresciuto e si è sviluppato con noi. È frutto di un lungo percorso di convivenza. È uno di noi, insomma.
Il suono, la musica di The Optimist è invece totalmente differente da A Fine Day To Exit. Non solo: dopo il vostro periodo “cosmico”, vissuto soprattutto negli ultimi due dischi, The Optimist torna sulla terra. È legato alla quotidianità e non ad una visione.
Torniamo in parte alla risposta di prima. Avendoci accompagnato per quindici anni ed avendo vissuto “con noi” tutto questo tempo, era strettamente legato ad un vivere costante e, come dicevi, quotidiano e per questo il suo unico contesto sonoro non poteva che essere terreno. Hai ragione, siamo lontani dalla visione cosmica della musica: in questo momento non attraversiamo pianeti, satelliti, sistemi solari. Siamo sulla terra e, fondamentalmente, siamo immersi in una road history.
Quando parlammo di Distant Satellites, ricordo che sottolineasti la profonda e intima visione dell’anima dell’uomo e, in quel disco, l’obiettivo era ricongiungere uomo e spiritualità: per questo Distant Satellites era un disco trascendente. Oggi, The Optimist è un disco che abbandona l’anima per raccontare la corporeità?
Non necessariamente. The Optimist non è chiaramente un disco religioso e in un certo senso non è neppure spirituale, ma è un altro modo di vedere e di leggere l’anima di una persona. Lo abbiamo fatto e lo facciamo leggendo le reazioni al suo vivere normale, al suo affrontare un percorso di vita. E credo che questo sia molto più spirituale. Non affrontiamo il rapporto vita, morte e post mortem, ma il sentimento e la riflessione interiore. In questo senso lo considero comunque un disco concentrato sull’anima.
Non so perché ma riflettendo sull’arco immaginario tracciato tra A Fine Day To Exit e The Optimist, ho pensato a Lost Highway di David Lynch. E il paragone è: se Lost Highway è un viaggio dal buio nel buio, The Optimist è un viaggio verso un’apparente luce.
Sai che ci siamo ispirati tantissimo a David Lynch per questo disco? Lo abbiamo immaginato come un’anima quieta e questo ci ha aiutato tantissimo.
Quindi non è solo un’impressione: allora vado oltre. Direi che in questo disco i riferimenti siano più vicini a Carver e a Giorgio Moroder che al rock inteso come musica di rottura.
Hai dimenticato quello che per me è un idolo assoluto, che ho studiato moltissimo prima di affrontare questo disco e che ha pure origini italiane: Angelo Badalamenti. E’ lui il vero cuore di The Optimist.
E quindi torniamo a David Lynch.
Hai colto il punto: quando tu dici che immagini David Lynch nel nostro disco io rispondo Angelo Badalamenti, ma in pratica stiamo affermando la stessa cosa. Tu perché hai citato Lynch?
Perché la mia mente ha proiettato quelle immagini e mi ha buttato nel suo contesto.
E Badalamenti era il linguaggio musicale che Lynch utilizzava in molti suoi film. Ad esempio, in The Optimist c’è qualche vago, etereo riferimento a Twin Peaks. C’è quel senso di profonda, inquietante leggerezza. C’è il senso del paesaggio, che può essere l’ostacolo, il dramma e la dissoluzione. Credimi, ho passato moltissimo mio tempo negli ultimi anni a capire, a studiare, a leggere le tecniche compositive e narrative di Badalamenti e più approfondivo, più trovavo punti di contatto con la nostra musica recente.
Azzardo: possiamo considerare The Optimist una colonna sonora, più che un disco?
Non arrivo a pensare tanto, non voglio assumermi meriti così alti, ma posso essere d’accordo con te: almeno per come è stato pensato, è un disco che è nato prima con le immagini e poi con i suoni e spesso ti accorgerai che il suono sostiene la narrazione. Quindi, da un certo punto di vista, sì può essere nel suo piccolo e concettualmente, una colonna sonora a suo modo.
Tutto questo è molto strano per una rock band. Anzi, probabilmente no.
Non lo è assolutamente. Il rock, o almeno parte di esso, ha narrato per lunghissimo tempo. A loro modo, i Led Zeppelin hanno narrato, e così i Black Sabbath, anche se i più grandi in questo sono stati i Pink Floyd.
Vi sentite vicini a loro?
Non potrei mai accostare gli Anathema a loro, per una questione di assoluta devozione e di umiltà. Paragonarsi ai Pink Floyd è ovviamente un atto che richiede coraggio. Tuttavia ti posso dire che The Optimist ha in sé qualcosa di The Wall. Un disco che per me rappresenta moltissimo, detto per inciso. Pensa a The Wall: il suo messaggio era dirompente, durissimo, denso e emozionale, eppure il disco non è mai stato frutto di sovrastrutture. Non era complesso nella sua stesura: era drammatico nel suo messaggio. Ecco, The Optimist cerca di mantenere la stessa linea quasi duale: da una parte un racconto forte, dall’altro la possibilità di esprimere, musicalmente, secondo tracciati più lineari e “leggeri.”
E quando vi accostano al prog rock, tu cosa pensi? Secondo me il vostro punto di partenza è molto diverso, se non addirittura opposto.
Mah, non ho mai visto gli Anathema come una prog band. Il prog era narrazione ipertecnica: il racconto era costruito attraverso impianti musicali molto complessi e frammentari. Quello che suoniamo noi è decisamente molto più lineare. Liquido, direi.
Una band che arriva dal metal, peraltro da quello che gravitava nell’ambito estremo, come può arrivare ad essere così diversa oggi?
La risposta è più semplice di quanto tu possa immaginare: mettendosi in discussione costantemente, chiedendosi quale sia il significato della musica. Che per noi è emozione, sentimento e pertanto non può e non deve essere qualcosa di immobile. Abbiamo semplicemente dato voce a qualcosa che, di volta in volta, cambiava in noi. Abbiamo tradotto dei sentimenti. E credo che questo sia il significato di essere musicisti.