Intervista: Future Islands

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future islands tom hines

di Elia Alovisi

Quando fai il giornalista e fai tante interviste ti rendi conto, dopo un po’, di quanto il tuo interlocutore sia effettivamente interessato a darti un’opinione sincera e/o a raccontarti qualcosa di diverso rispetto a risposte-standard pensate per domande-standard. Sono almeno quattro anni che parlo con musicisti, e devo dire che Samuel T. Herring è una delle persone genuinamente più felici di parlare del gruppo di cui fa parte — cioè i Future Islands – con cui abbia mai conversato. Parliamo al telefono. Lui in una stanza d’albergo in Scozia, con un centralino che fa dannare me e i miei colleghi e continua a far cadere la linea, e io a Milano. Quando riusciamo a collegarci, dopo una lunga serie di tentativi falliti, Herring si scusa profusamente. E quella che doveva essere una chiacchierata di venti minuti diventa un super-discorso di oltre quaranta che spazia un po’ ovunque nella carriera di uno dei più improbabili successi musicali degli ultimi anni, e nelle passioni letterarie/musicali del loro cantante.

The Far Field, il loro nuovo album, riparte da tutto ciò che aveva reso Singles un successo così folgorante. Una scrittura gioiosa e spontanea fatta di ritmi quadrati, sintetizzatori retro, linee di basso gloriose e una sensibilità testuale disarmante. Herring, uomo al microfono, è innegabilmente una componente fondamentale del trio — soprattutto dopo che la sua interpretazione di Seasons (Waiting on You) al David Letterman Show, diventata meme nel giro di qualche giorno, ha permesso ai Future Islands di diventare qualcosa di più di una band di culto: una realtà dell’indie rock contemporaneo, creatura di rara sensibilità lirica. Ma ridurre i Future Islands a quel momento è un errore, dato che non prende in considerazione il loro passato — fatto sia di synthpop grezzissimo che di sperimentazioni elettroniche, e promosso attraverso devastanti tour autoprodotti nelle cittadine più remote del Nord America.

Herring è torrenziale, nelle sue risposte. Aggancia frasi e ragionamenti con maestria da oratore, torna indietro negli anni con il pensiero e racconta diverse versioni di sé e dei suoi compagni, il tastierista Gerritt Welmers e il bassista William Cashion. Parla per minuti e minuti di come sia stato l’hip-hop il suo primo vero amore, e l’origine delle tematiche e dello stile che ha adottato nei testi dei Future Islands — il ritrovamento di una forza personale all’interno della difficoltà, su ogni altra cosa. Lui che oltre a fare il cantante fa anche l’MC a nome Hemlock Ernst, autore di collaborazioni con rapper avanguardisti e cervellotici come milo e Open Mike Eagle, con produttori leggendari come Madlib. Decostruisce la sua stessa scrittura dipingendo le figure dei poeti che lo hanno ispirato, raccontando dei loro amori e dei loro morti come se fossero suoi. E spera che anche noi potremo sentirci un po’ come si sente lui — lacerato dalla bellezza della natura, tendente al sublime, onesto e appassionato.

Come avete fatto a scegliere Ran come primo singolo tratto da The Far Field, contando che dopo Singles e Seasons (Waiting On You) tutti si aspettavano una bomba da voi? 
Samuel T. Herring: Non saprei! Eravamo indecisi su quale pezzo usare per presentare l’album, e credo che Ran sia stata quella che ci sembrava più naturale scegliere. North Star ci sembrava troppo un singolo. Non sapevano se Time On Her Side e Cave avessero l’atmosfera giusta. Non sapevamo se Ancient Waters aveva abbastanza forza. C’erano sei, sette canzoni che ci sembravano adatte, ma Ran ci sembrava quella che poteva unirle un po’ tutte. Detto questo, non credo che Ran sia la miglior canzone su disco! Ma lo stesso vale per Singles, non credo che Seasons fosse la migliore dell’album. Ma che ne so io? Ha!

Bé, è anche un po’ il vostro vantaggio. In Singles come in The Far Field tutte le canzoni sono potenzialmente presentabili a sé. Raccontano tutte una storia, hanno tutte un’energia, potrebbero adattarsi tutte a un video o a una performance.
Esattamente. E per noi è importante dare a ogni pezzo la nostra completa attenzione, sta poi agli altri decidere quale sia il loro valore. Insomma, quel discorso lì.

Prima di quest’intervista ho riascoltato Wave Like Home, e mi chiedevo quale fosse l’atmosfera nel gruppo in quegli anni. Potreste mai riscrivere pezzi strani come Pangaea, o frenetici come Seize a Shark
Abbiamo registrato quindici canzoni per The Far Field, e quando ci siamo messi a organizzarlo abbiamo avuto un bel po’ di difficoltà. Non riuscivamo a trovare il timing corretto per i due lati, non volevamo mettere così tante canzoni da annoiare l’ascoltatore ma anche dare a chi aspettava il nostro nuovo album più pezzi possibile. A un certo punto ho pensato di fare un album a tre lati, cinque pezzi per lato, e il quarto sarebbe stato soltanto questo collage sonoro di un quarto d’ora. Insomma, un pezzo come Pangaea. Era un po’ un sogno irrealizzabile. Questo per dire che mi sarebbe piaciuto aver sperimentato un po’ di più con quel tipo di suono, ma al contempo è difficile “tornare” a un suono.

Se ascolti tutti i nostri cinque album in fila puoi renderti conto della crescita che ci ha portati a essere quelli che siamo oggi. Ma devo dire che Seize a Shark è stata un po’ una pazzia. È così veloce e grezza… ha! Tempo fa abbiamo pensato di ricominciare a proporla dal vivo e il nostro batterista Mike, che è bravissimo, ci dice da anni di non essere convinto di riuscire a suonarla! E solo ora crede di poterci riuscire. Canzoni come quelle nacquero dal fatto che non avevamo bene idea di quello che stavamo facendo, ma lo stavamo facendo lo stesso. Spero che quegli album non restino scompartimenti stagni, ma credo anche che ormai ci siamo aperti nuove strade. Non voglio mai arrivare al punto di dover dire, “Hey, scriviamo una canzone come x!” Cerchiamo davvero di non decidere che cosa scrivere prima di metterci a scrivere.

E qual era lo spazio mentale in cui eravate in quel periodo, se doveste paragonarlo a quello in cui siete oggi? 
A quei tempi non ragionavamo in termini di album. Scrivevamo qualche pezzo, le suonavamo dal vivo in giro e quando ne avevamo cinque o sei cominciavamo a parlare di come registrarle. Una volta in studio, davamo una forma a quelle canzoni e ne scrivevamo qualcun altra. E così facevamo un disco, non c’erano pezzi in eccesso, b-side, niente. Era un processo lineare. Essere in una band e andare in tour senza un’etichetta, senza un manager, cioè cose che vengono percepite come necessarie ma possono anche essere trappole, significa essere liberi di fare ciò che si vuole. Ma, per dire, devi avere del merchandising, qualcosa da vendere. Fare un disco era quindi fare qualcosa che ci avrebbe aiutati a mangiare e pagare la benzina.

Fare Wave Like Home e fare The Far Field sono state cose completamente diverse. Hanno seguito processi diversi, e noi siamo persone diverse. Scrivemmo quell’album tra i ventidue e i ventitre anni. Quello era un periodo molto provante della mia vita, lo registrammo appena prima di trasferirci a Baltimore, e appena prima che io decidessi che avrei voluto fare davvero il musicista. Oggi la musica è la mia carriera, la mia vita, ed è tutto quello che mi ero prefissato alle fine delle registrazioni di Wave Like Home. Ed è interessante come cosa! Ora abbiamo le risorse per metterci lì a scrivere senza pensieri; tipo, abbiamo preparato venticinque strumentali per l’album.

C’è poi anche il discorso del vostro pubblico, ormai enorme, e di come ha cambiato il modo in cui percepite il vostro fare musica.
Certo, un’altra cosa diversa è che ora sappiamo che la gente ascolterà quello che facciamo. Nel 2007, 2008, speravamo che qualcuno ci avrebbe sentito. Dovevamo andare in giro e farci ascoltare dalla gente. Fare quello che potevamo nella nostra città e in qualsiasi città, appendere poster, distribuire volantini ore prima del concerto nelle piazze, qualsiasi cosa per far venire la gente ai concerti sperando che qualcuno sarebbe davvero venuto. Assieme alla sicurezza di un pubblico c’è anche la paura di perdere la spinta, la fame, l’ansia — quelle cose tipiche della giovinezza. La giovinezza è così importante, a livello creativo, che ci rifletto spesso nei nostri pezzi. Ed è per paura di perdere quell’innocenza, quell’ingenuità, e non rendermene conto. E credo che ce l’abbiamo fatta a questo giro, e spero che anche sul prossimo andrà bene! Guardami qua, sto già pensando al prossimo album. È che ho davvero già voglia di rimettermi a scrivere anche se realisticamente ci vorrà un paio d’anni. Ma è bello avere ancora fame, no?

Dato che la nostra musica parla delle nostre vite e di quello che stiamo passando, continua a evolvere perché noi cambiamo. Stiamo imparando cose nuove ogni giorno. O forse stiamo imparando di nuovo lezioni che avevamo trascurato, o ci stiamo rendendo conto che qualcosa che davamo per certo è sbagliato. Abbiamo sempre usato la nostra musica per riflettere su noi stessi, e ci sono sempre stati concetti ed emozioni da cui pescare. Inoltre, il modo in cui gestivo le cose a ventidue, ventitre anni è molto diverso da quello che ho adesso che ne ho trentadue. Il modo in cui tratto l’amore e la perdita è molto diverso. Seize a Shark, Tin Man, An Apology, Long Flight: erano tutte canzoni che contenevano rabbia e frustrazione, per cui era come se il male fosse la fine di tutto. Ma è così che ti senti quando sei più giovane. Perdi una persona e ti sembra la fine del mondo. Dieci anni dopo ti ricapita e sai che avrai altri dieci anni, sai? La nostra esperienza cambia, e quindi le canzoni cambiano. E credo di poter scrivere meglio, ora che so rendermi conto dei diversi lati di ogni situazione. Quando scrivevo da giovane vedevo solo il mio lato della storia, mentre adesso provo a esplorare anche quello che io ho causato negli altri. Come ho fatto a finire qua? Non è colpa di qualcun altro. Da giovane ti senti come se fosse il mondo ad andarti contro mentre invecchiando, se sei intelligente, ti rendi conto di essere anche più o meno responsabile del tuo destino. Anche se il mondo può essere davvero infame, a volte, e farci male. Ma a volte siamo noi a sbagliarci, ed è importante saperlo.

È legittimo dire che dalla vostra musica trapeli un fascino per la natura quasi pre-romantico? Parli d’amore e poi di rose che appassiscono d’inverno, di passeggiate per le Rocky Mountains… in Ancient Water, poi, trovi un collegamento tra il tuo corpo, l’acqua e la foresta.  
Assolutamente, ed è una cosa che può essere ricondotta alle mie influenze letterarie. The Far Field è il titolo di un libro di poesie di Theodore Rhoetke, che ha anche scritto la poesia In Evening Air, da cui il nome del nostro secondo album. Lo leggo da quando avevo dodici, tredici anni ed è stato un enorme influenza sulla mia scrittura. Ed era un poeta naturalista, e romantico, ma non uno di quelli che parla dei petali di un fiore; parla della terra e dei vermi che hanno permesso al fiore di nascere. Esplora un lato delle cose che potrebbe essere percepito come grottesco, ma è la loro realtà. Il fiore non è bello, è ciò che lo ha creato che è bello.

Poi c’è da dire che sono nato in un piccolo paese. Sono cresciuto in campagna, sulla costa della North Carolina, e ho passato un sacco di tempo tra l’erba alta [dice “Back in the tall grass,” come una loro canzone nda], a giocare nei boschi dietro casa e sulla spiaggia. La costa è un altro luogo molto speciale per me, un luogo di pace ma anche di profonda contemplazione e tumulto. Ci andavo da piccolo, ma anche da ragazzo per fuggire e rimanere solo. Trovare un’unione con la natura ha quasi sempre un elemento di isolamento personale. Ma è anche un’apertura. È un posto che ti apre, e anche un posto sempre aperto per te. Se decidi di allontanarti dal conforto di casa tua e camminare per i boschi, lungo la costa, e trovare un collegamento con la natura — non voglio sembrare blasfemo, ma credo ci sia più Dio in quello che in qualsiasi altra cosa. Parola d’agnostico! Per me la natura è la presenza di qualcosa di più grande di noi.

Ancient Water parla di voler essere di nuovo il ragazzino che ero, o una persona che non ha bisogno del telefono che ha in mano, della TV che possiede. Si tratta di essere, come canto, “antico come l’acqua / paziente come la foresta.” Voglio tornare nella natura e liberarmi da tutte quelle cose. Perché non ricordo più come mi sentivo quando ero una persona a cui bastava solo fare una passeggiata tra i boschi. Lo capisco perché è una vita che vado in quei luoghi, e mi hanno sempre dato un senso di pace. L’oceano, però… tipo, in A Dream of You and Me cantavo “Ho lottato in riva al mare,” perché l’oceano ha un potere purificante. Può lavare via tutti i nostri sentimenti, ma ha anche il potere di annegarci e portarci via con sé. Percepisco molto questa dualità. E tornando a quello che dicevo prima, quando scrivi di una relazione è quindi importante rendersi conto di entrambi i lati delle situazioni. Anzi, sai cosa dicono? Che ogni storia ha tre lati. Il tuo, il suo e la verità! Credo sia importante esplorare concetti come questi. Come il sole ci dà la vita e la luce, ma ci squama la pelle, ci può uccidere e accecarci. Come la luna sia questa cosa splendida appesa nel cielo, ma che non potremo mai toccare — come il nostro primo amore, che ci meraviglierà sempre ma a cui non ci riavvicineremo mai. E la natura è una lingua universale attraverso cui esprimere dualismi come questi, che tutti possono comprendere anche solo in parte. Perché viviamo tutti nello stesso mondo.

future islands 2

Come sta andando con il tuo progetto rap, Hemlock Ernst
Ho fatto una tonnellata di collaborazioni nell’ultimo anno e mezzo. Probabilmente ho scritto almeno venticinque, trenta canzoni mie. E ne avrò un centinaio sul computer, mai pubblicate.

E a quando un tuo mixtape? 
Cacchio, sono cinque o sei anni che penso di farne uno e ancora niente. Ho due mezzi dischi già scritti, ma sono due anni che sono in tour e quindi non so… continuo a dare agli altri e a me stesso il 2020 come limite!

Ma da dove è nata la tua passione per l’hip-hop, e che ruolo ha avuto nella tua vita? 
È che l’hip-hop è stato il mio primo amore. È quello che ti dava una voce, quando eri un ragazzino. È il motivo per cui ho cominciato a scrivere, facevo poesie scritte in versi hip-hop. La cosa che mi colpì fu sentire persone parlare delle loro lotte, ma soprattutto l’onestà dei loro racconti. Era una cosa che mi sembrava mancasse al rock n roll, alle band più “normali.” Cito sempre questa frase di KRS-One che fa, “Mentre eri a casa con tua mamma ad aver paura del buio / Io dormivo in strada, a Prospect Park / E facevo un pasto ogni quarantotto ore.” In quella frase praticamente dice, “Ero un senzatetto.” Che non è niente di “figo.” Ma non lo dice in cerca di simpatia, il punto di ciò che dice è la forza della sua esperienza di vita. Questa forza di narrare la tua storia, la tua storia difficile da sentire e raccontare, e farlo con orgoglio, senza pensare al modo in cui potrà venire percepito da chi ha pregiudizi. E sentire qualcosa di simile da bambino senza essere negli stessi panni, così lontani dai grovigli delle città e dall’esperienza afro-americana, mi ha aperto. Era come se stessi sperimentando la vita di un’altra persona. Ma la cosa più importante era il fatto che stessi ascoltando il racconto di una difficoltà, ma anche della forza che ne derivava. Credo sia questo che provo di fare quando scrivo nei Future Islands.

Quindi la radice della tua scrittura nei Future Islands proviene da lì, dal rap e dalle modalità espressive della rivalsa. 
Sì, continuando a crescere come artisti ci rendiamo conto che abbiamo scritto canzoni a cui la gente si rivolge in momenti di paura, di isolamento, quando perdono un loro caro o un amore, perché scriviamo onestamente proprio di quelle cose. Il che ti spinge a scriverne ancora e ancora, a essere aperto nei confronti di te stesso. E Hemlock è la parte di me in cui sono ancora quel ragazzino di sedici anni innamorato delle parole, e continua a scrivere. Ho scritto attraverso tutta la carriera dei Future Islands, anche se ci sono stati periodi morti in cui non riuscivo a scrivere hip-hop da quanto tempo passavamo in strada. Ed è stato proprio milo con il suo gruppo, i Curse Ov Dialect, a farmi risorgere, a contattarmi e dirmi che erano miei fan. E io ero fan di quello che facevano loro! Collaborare con loro mi ha risvegliato.

Quello che sto provando a dire è: la musica è la mia vita, è la mia passione e la mia arte. Ma i Future Islands, e non è una cosa negativa, sono il mio lavoro, la mia carriera. E ci sono un sacco di cose legate agli affari, nella musica, che non sono divertenti e hanno un sacco di dettagli e cavillli a cui fare attenzione. Questo non “uccide” niente, per me, ma è per questo che Hemlock e l’hip-hop resteranno il mio amore. E non voglio che il mio fare rap diventi un business. Pubblicare album, aprire siti, organizzare tour. Ci sono già i Future Islands. Ma ancora, non è una cosa negativa di per sé: poter toccare così tante persone è fantastico, e ogni dettaglio è importante. I Future Islands sono la mia famiglia. Ma voglio davvero tenere Hemlock per me stesso.

Da italiano devo per forza chiederti del riferimento che fai a Italo Calvino in Souvenir, la tua collaborazione con milo. Hai parlato in passato di come ti era piaciuto Il Barone Rampante, e quindi mi chiedevo quale rapporto avessi con lui come autore. 
Adoro Calvino. Avrò una quindicina dei suoi libri, non li ho ancora letti tutti, e quel verso parla proprio di quello: “Non ho ancora letto l’Hagakure / Puoi prestarmi una copia? / Sono ancora fermo a Murakami / E ho Calvino dietro le spalle.” Ha! Sto finendo Murakami, Calvino è il prossimo! E tutto quello che dico dopo, cioè “Osservo con calma dall’alto di viste  / Attraverso finestre aperte, in movimento / Il movimento dell’erba in una macchia di sabbia / Avvolto da nuvole rosse, vedo suoni morti,” tutto quel pezzo è influenzato da una poesia di Jack Gilbert, che ha scritto questa poesia che si chiama Finding Something. Lo conosci?

No, non l’ho mai sentito! 
Cercalo! Era un poeta di Pittsburgh che doveva essere un Grande Poeta Americano, pubblicò nel 1962 un libro, Views of Jeopardy, con cui vinse un sacco di premi di poesia in tutto il mondo. Diventò davvero famoso, e poi scomparve del tutto. Si innamorò di una ragazza giapponese e insieme, dopo diversi giri, si trasferirono in Italia e si stabilirono in campagna. La parte triste della storia è che lei è morta per un cancro, che l’ha uccisa molto lentamente. E quando Gilbert è ricomparso dal suo isolamento ha scritto questo libro, The Great Fires, che è il titolo di un pezzo del nostro terzo album. Perché quel libro, assieme a The Far Field di Roethke, è il mio libro di poesia preferito. È uno dei libri più tristi ed emozionati che potrai mai leggere. E quella poesia in particolare è davvero straziante, cazzo. Parla della loro casetta in Italia, lei è molto malata… è davvero bello. [Herring si mette a leggere, nda]

I sit on the terrace of this worn villa the king’s
telegrapher built on the mountain that looks down
on a blue sea and the small white ferry
that crosses slowly to the next island each noon.

Ed è per quelle parole che ho scritto quei versi. Gilbert, Murakami e Calvino.

future islands 3

Ti devo chiedere di Debbie Harry, che ha fatto un pezzo assieme a voi, Shadows. Qual era il tuo rapporto con i Blondie? Credo che una cosa che vi unisca potrebbe essere il fatto che entrambi fate musica che suona liberatoria, in un certo senso. 
Non ci siamo ancora incontrati di persona, sfortunatamente! A organizzare la cosa è stato John Congleton, il nostro produttore, che aveva appena finito di lavorare al loro disco quando si è messo a lavorare al nostro. Stavamo cercando qualcuno che cantasse Shadows, che tra l’altro era stata scritta per Singles. Io avevo provato a segare la canzone, perché non volevo prendere una cantante qualsiasi ma la persona giusta, una leggenda, ma dopo due settimane che avevamo cominciato a registrare e avevamo sparato un sacco di nomi — io dicevo tipo, “Proviamo con Kate Bush, proviamo con Grace Jones!”, tutte queste figure di culto, leggendarie — lì John ci ha detto che avrebbe potuto chiederlo a Debbie. E quando spari nomi altisonanti come quelli non ti aspetti davvero che lo facciano, è più un sogno che sai non si realizzerà. E poi arriva John, e noi, “Oh mio dio! Pensi che lo farebbe davvero?”

A Debbie il pezzo è piaciuto un sacco, e dopo un paio di giorni ci ha risposto che avrebbe provato a cantarci qualcosa. Noi stavamo registrando a Los Angeles, mentre lei era a New York, quindi ci ha rimandato il pezzo a distanza. Avevo pensato a così tanti cantanti che, quando John ha fatto il nome di Debbie, mi sono detto, “Bè, Debbie è la più grande influenza di tutte le persone che avevo in mente!” Poi la cosa strana è che Shadows per tre anni e mezzo è stata una demo in cui io cantavo entrambe le linee vocali. Quindi è stato strano sentire, all’improvviso, la voce di qualcun altro a cantare quelle parole. Ha! Ma anche figo!

The Far Field è fuori ora su 4AD.

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