Editoriale 304: L’importanza di essere Goffredo Fofi

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(via Il Resto del Carlino)

di Rossano Lo Mele

Maestro. Assistente sociale. Critico cinematografico, letterario, teatrale. Editor ed editore. Talent scout. Oggi ancora rubrichista de “Internazionale”. Intellettuale militante e maître à penser: queste ultime due, a essere onesti, sono definizioni che cordialmente detesta, pur essendo rispondenti al vero. Poche settimane fa ha compiuto 80 anni esatti Goffredo Fofi, da Gubbio. Amico – forse meglio dire interlocutore – di Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Anna Maria Ortese, José Saramago, Grazia Cherchi e scrittori di questo tenore. Possibile che molti di voi lo conoscano, probabile che altrettanti lo ignorino. Apolide della cultura, ha vissuto ovunque, zaino in spalla, bastone, barbone (bianco) ed eskimo: Napoli, Torino, Sicilia, Roma e via andare. Ha fondato riviste: in questi giorni “Lo Straniero” celebra con una mostra capitolina alla Biblioteca Centrale Nazionale i suoi 20 anni di vita. Alcuni suoi giornali hanno aperto da poco, come “Gli Asini”. Altri hanno chiuso da anni, tipo “Linea D’Ombra”. Proprio lì, oltre ai suoi libri, ho incrociato la scrittura di Fofi le prime volte. Erano i primi ’90 in cui l’idea di meticciato culturale preludeva a una svolta socioculturale. Fofi, che pure non ha mai seguito la musica, all’epoca sosteneva i primi passi di band come gli Almamegretta (soprattutto) e i 99 Posse. Non tanto per la musica in sé, quanto per quello spiffero di rivoluzione che quelle musiche minacciavano di portare, all’interno di un contesto già molto occidentalizzato. Quanto detto lo si trovava vicino ad approfondimenti su cinema, drammaturgia, letteratura, società, critica.

Perché parliamo di Goffredo Fofi? Perché, nel ragionare sui suoi 80 anni, sui suoi molti progetti e sulle sue ancora più numerose parole scritte e temerarie indagini culturali non si può non buttare un occhio al nostro mondo. Al music writing, critica musicale, chiamatela come volete. Per quanto noi ci s’impegni a far parlare le più autorevoli firme mondiali (questo mese tocca ad Ashley Kahn, il mese passato a Dorian Lynskey, praticamente il meglio sulla piazza), non possiamo bendarci gli occhi sullo scenario interno. E in questo scenario la cosa più immalinconente è la seguente: gente che spesso ritiene di sapere tutto (tutto, poi, parliamone) sulla musica, ma in realtà conosce assai poco di quello che accade intorno. All’università tormento gli studenti con le due parole magiche. Testo e contesto. Come si fa a raccontare il testo se non si racconta il contesto? La musica accade nel mondo. In determinati periodi e aree. La musica è figlia di questi due vettori. Se non li mettiamo in relazione, ben poco ci capiremo. Goffredo Fofi non si è mai occupato del cinema per il cinema, della letteratura per la letteratura. Ha sempre ampliato la sua analisi, provando a guardare oltre. Mettendo in relazione il testo con il contesto. Gli Almamegretta non erano per lui interessanti in sé, ma lo erano in relazione agli accadimenti storici e geografici.

Che scenario abbiamo di fonte, oggi, noi? Gente che si offende per una stroncatura o un articolo sbagliato e strepita bava alla bocca sulla piazza social. Scrittura musicale ormai divenuta un gergo, in questo non dissimile da quello calcistico, formule fatte, consumate. Critici che raccontano un disco come fosse una telecronaca su Premium. Firme che stroncano, ignorano o elogiano un disco per ragioni personali, di vicinanza o pochi/tanti gradi di separazione con il recensito o con l’ufficio stampa di turno. Visioni arcaiche basate su pregiudizi che non si ha voglia o modo di stravolgere, se non approfondire.

Possiamo ambire a qualcosa di meglio? Sì, ma per questo meglio ci vuole un capitale umano critico migliore. A costo di esser sconfessato l’ho già detto e lo ribadisco: alcuni dei migliori in circolazione li abbiamo noi, proprio qui. Gente che riesce a mettere in relazione testo e contesto: Blatto, Bordone, Farabegoli, Sacchi, Nazzaro, solo per citare i primi nomi. Altri – e ce ne sono tanti – scrivono altrove: Colli, Solventi, Bianchi, Zingales, Ivic, Todesco, anche qui solo per menzionare random le prime firme che sovvengono. Ma il resto, purtroppo, è spesso un deserto. E lo dico ricevendo decine di CV al giorno di persone che ambirebbero a svolgere questa professione. Che è una non professione bellissima. Ma in cui la visione, meglio, la creazione di un mondo attraverso il proprio storytelling è essenziale. Non tutti ce l’hanno, anzi, sono in pochissimi a detenerlo. Non ci si nasce. Ma ci si può arrivare: con lo studio, l’allenamento, la passione. E l’equilibrio, forse l’elemento più importante. L’equilibrio per permettersi di essere squilibrati, quando serve. E speso ci vuole. Non dico che si debba raggiungere (impossibile) il livello di Goffredo Fofi, anche se sempre meglio fissarsi dei modelli alti. Ma, mettiamola così: chi desidera tuffarsi in questa professione o hobby che sia, tenga sul comodino le parole di un altro grande della letteratura, appena scomparso. Giorgio Bàrberi-Squarotti, docente universitario e saggista: “L’interesse e lo studio di un autore non deve in nessun modo essere limitato da una minore o maggiore simpatia da parte del critico per l’autore stesso”. Non per niente il vecchio, compianto prof. era soprannominato il critico anti-ideologico.

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