Editoriale 303: Il futuro è un’ipotesi

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di Rossano Lo Mele

Su una serie di siti statunitensi – perlopiù focalizzati sull’analisi e gli sviluppi dell’informazione – da qualche mese impazza un botta e risposta sull’eterno (niente affatto nuovo e per alcuni immagino più che barboso) tema dei temi: carta contro digitale. Giornali di una volta messi a confronto con i siti web. La lettura tattile contro quella liquida. Tutto sembra nascere da un articolo/saggio di Michael Rosenwald edito dal “Columbia Journalism Review”: “Print Is Dead. Long Love Print” (di recente tradotto anche in Italia da “Internazionale” col titolo “Lunga vita ai giornali di carta”).

Dan Kennedy (esperto di media per il “Boston Phoenix”) è stato il più coinvolto dal dibattito. Raccontava di essersi trovato a discutere del tema già diversi anni addietro col suo amico e collega Paul Bass (del “New Haven Advocate”). Era ospite di una radio del Connecticut. A un certo punto arriva l’accesa telefonata di un imprenditore, il titolare di un club di New Haven che in pratica lamentava: per tanti anni ho speso un sacco di soldi in pubblicità proprio sul “New Haven Advocate”, ma ora grazie a Facebook posso spendere molto meno e raggiungere un target più a fuoco per il mio locale.

Ma qual è esattamente la tesi di Rosenwald, che tante opinioni ha sprigionato? Rosenwald cita Roger Fidler, precursore del giornalismo digitale. Uno che già 30 anni fa si occupava del futuro dell’informazione. Essenzialmente il preconizzatore di faccende come il tablet: che avrebbe fatto rimbalzare in giro per il mondo lo stesso articolo, rendendolo disponibile a più persone, senza la necessità di stampare giornali. Oggi, a distanza di decenni, Fidler avrebbe fatto marcia indietro, secondo quanto scrive Rosenwald. Si dice preoccupato dall’esperienza della lettura digitale (più debole di quella tradizionale) e per la sostenibilità economica di questa forma di editoria. Rosenwald ne approfitta per segnalare che nessun modello emerso negli ultimi 20 anni (grosso modo da quando esistono realmente i siti d’informazione) si è dimostrato paragonabile al successo e all’efficienza del vecchio modello editoriale. La verità, sempre secondo i dati enucleati da Rosenwald, è che il mondo digitale – benché ampiamente affermatosi – fatica a crescere. Sia per quanto riguarda i lettori, sia (soprattutto) per ciò che riguarda le cosiddette revenues (i ricavi, quanto si guadagna detto in breve). Il suo approdo è quindi fin troppo chiaro: rinascono le librerie dell’usato, gli ebook non decollano ormai da tempo, i lettori sulla rete sono pigri e svogliati, non remunerativi. Non resta che tornare con convinzione e qualità alla carta stampata. 

Immagino che qui da noi il dibattito sia stato seguito con una certa curiosità dal gruppo L’Espresso, dall’omonimo settimanale e dal suo ottimo direttore (Tommaso Cerno). Che – nel rilanciare il periodico – fresco di sartoria editoriale, a fine febbraio 2017 – ha così intitolato il nuovo corso: “Scusate se il futuro è di carta”. Sottotitolo: “L’avevano data per morta. Invece sta rinascendo. Perché nell’era di Internet ci aiuta a uscire dal caos. E a capire meglio il mondo. L’Espresso ricomincia da qui”. Anche in questo caso, per citare il suddetto Rosenwald, il pensiero è il seguente: “La carta offre una modalità di lettura più lineare e con meno distrazioni, aiutando la comprensione”.

E qui arriva, sbottando, il Dan Kennedy che citavamo quasi in apertura. Dan l’ha presa storta l’uscita di Rosenwald. Così storta da dedicargli un articolo di risposta sul sito di news di WGBH (un’emittente di Boston che sta sotto l’enorme ombrello della National Public Radio statunitense). Il titolo del pezzo di Kennedy non ci gira intorno: “Here We Go Again: No, Print Will Not Save The Shrinking Newspaper Business”. Qualcosa del tipo: ci siamo di nuovo. No, la carta stampata non salverà il sistema dei giornali in contrazione. E poi giù con le analisi del caso. Sintetizzando: bisogna andare dove vanno i ricavi; appena i giornali locali capiranno che fare informazioni solo sul web è più redditizio che farla su carta, si tramuteranno in testate solo digitali; non esiste in alcun modo la possibilità che il modello di business cartaceo possa essere sostenibile in un’epoca in cui i lettori sono ossessionati dalle news, che recuperano facilmente da una serie molto ampia di fonti on-line.   

Lungi da me esprimere opinioni tranchant su un dibattito così delicato e articolato. E in fondo facciamo (nasciamo come) un giornale di carta. Ma pure un sito, con relative sponde social. Noto solo che si tende a costeggiare appena il problema principale, specie per i media suddetti. Ossia i ricavi pubblicitari. A conti fatti questi ultimi (sul web) si sono dimostrati assai più esili di quanto immaginato anni fa. La carta ha smarrito lettori, certo, e con essi anche parecchi ricavi pubblicitari. Prendiamo l’esempio del “New York Times”: nel 2000 il 70% dei suoi guadagni arrivava da lì, nel 2017 si era scesi a uno striminzito 28% (fonte “Wired”). I giornali si possono fare meglio o peggio, male o bene, di carta o digitali. Il portale/colosso degli annunci mondiale Craigslist ha 40 dipendenti, il “Boston Globe” 280. Il problema sta quindi nei costi. E nei mancati guadagni. Il dubbio è: la centralità della carta viene ribadita oggi in quanto tale (robustezza dell’apprendimento, anzi tutto) o perché i gruppi editoriali stanno cercando di convincere gli investitori e se stessi che la raccolta pubblicitaria deve ritornare alla fonte? Dove viene pagata meglio (del web, visto che non cresce e molti lettori sanno ormai come schermarla) ed è soggetta a minori accertamenti immediati: perché di quello vivono perlopiù i giornali.

Vi ricordate la storia menzionata qualche riga fa, quella del dibattito in radio? Kennedy e Bass che rispondono al titolare di un locale? Quello che aveva deciso di pubblicizzare solo il suo locale tramite Facebook? Il “Boston Phoenix” e il “New Haven Advocate” non esistono più. Chiusi. Zuckerberg invece sta benissimo. Del resto anche qui c’è gente che ancora pensa di promuovere un disco e un tour solo tramite le sponsorizzazioni di Facebook. Così forse è più semplice capire chi ha mangiato cosa.        

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