Intervista: CUT

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Di Manuel Graziani

Con Second Skin i CUT celebrano vent’anni di vita sul lato sbagliato della strada, suonando come “John Lee Hooker stretto nella camicia di forza del post-punk”, secondo la definizione particolarmente azzeccatta di una zine inglese. Se non lo avete già preso, fate ancora in tempo a recuperare in edicola il numero di Rumore di febbraio dove abbiamo dedicato lo spazio che merita al nuovo album del trio bolognese d’adozione, coprodotto dall’inglese Antipop e dalle etichette italiane Area Pirata, Dischi Bervisti e Bare Bones, che esce ufficialmente proprio oggi 20 febbraio. Vi riporto solo l’incipit: “Il sesto disco dei CUT è sorretto da una solennità nervosa e al contempo malinconica che dà i brividi. È pleonastico scrivere su Rumore che stiamo parlando di un gruppo cardine del rock(’n’roll) alternativo italiano”.

Ma una recensione, per quanto approfondita, è pur sempre una recensione e non rende giustizia appieno alla storia di una band che a partire dall’esplosivo album d’esordio del 1998, Operation Manitoba (omaggio a “Handsome Dick” Manitoba della mitica proto-punk band newyorkese The Dictators), ha percorso le strade più impervie e affascinanti del rock – con prefissi e suffissi vari – tenendo sempre la schiena dritta e l’attitudine giusta, sopra e sotto il palco. Con il terzo album, Bare Bones del 2003, i CUT si sono assestati come trio mostrando un’urgenza punk che da necessità è diventata punto di forza. Una forza esibita in tutta la sua spregiudicatezza r’n’r nei successivi album A Different Beat del 2006 e Annihilation Road del 2010: quest’ultimo registrato a New York nello studio di Matt Verta-Ray, chitarrista e socio di Jon Spencer negli Heavy Trash.

Per questi motivi, sfruttando l’occasione dell’uscita di un album importante come Second Skin, abbiamo deciso di sentire Ferruccio Quercetti: chitarrista, cantante e anima del gruppo assieme a Carlo Masu. Non voglio dilungarmi oltre perché, come potete leggere, è venuta fuori un’intervista ampia, profonda, a tutto campo. Ed è giusto ascoltare attentamente cos’hanno da dire i CUT. Questa chiacchierata conferma quanto ho sempre pensato rispetto alle interviste musicali: il giornalista deve essere un mezzo per arrivare a un solo e unico fine: la divulgazione del rock and roll. Buona lettura.

Con questo album festeggiate vent’anni “sul lato sbagliato della strada”. Inevitabilmente è tempo di bilanci.

Per citare il testo di un brano scritto dal nostro amico Pete Bentham, siamo stati sempre troppo impegnati a sopravvivere per accorgerci del tempo che passava. Del resto l’esistenza stessa dei CUT ci pone di fronte talmente tante sfide quotidiane che non abbiamo mai avuto un momento per fermarci e guardare indietro. Questo ventennale ci ha letteralmente colto di sorpresa. Ci siamo resi conto del fatto che ormai siamo dei veterani solo grazie alle domande che da qualche tempo ci vengono poste riguardo alla nostra lunga esperienza. Ci chiedono analisi e riflessioni sulla nostra storia e sulle varie epoche della musica indipendente italiana che abbiamo attraversato e ogni volta la prima reazione che abbiamo di fronte a queste richieste è: “È vero caspita, siamo proprio così tanto vecchi! Eppure sembra ieri che…”. In effetti in un’era in cui band e progetti musicali nascono e muoiono nel corso di pochi anni, una band rimasta insieme per più di vent’anni fa notizia, anche solo per mera longevità. Spesso ci ritroviamo a scherzare sul fatto che nel tempo intercorso tra il nostro quinto e sesto album molte band si sono formate, hanno fatto dischi e concerti, si sono sciolte e magari anche riunite. A noi sembra normale continuare a fare la cosa che amiamo di più nella vita, ma capisco la curiosità che la nostra lunga militanza può suscitare. Per noi non è un problema trovare stimoli in quello che facciamo, anzi è una domanda che nemmeno ci poniamo, perché ogni volta che ci vediamo per suonare quella passione e quel bisogno di comunicare che ci hanno spinto a formare i CUT si rinnovano in una modalità che non solo ci soddisfa ancora pienamente, ma ci lascia col desiderio di fare di più con questa band.

Sembra proprio che la vostra sia una passione totalizzante…

Forse l’aver bramato così intensamente e per così tanto tempo durante la nostra adolescenza la possibilità di poterci esprimere in questo modo, fa sì che l’idea di mollare l’osso sembri tutto sommato una cosa da viziati. Rimane il fatto che le motivazioni per quello che facciamo non risiedono in nient’altro se non in quello che questa band fa sin dal primo giorno: suonare, fare musica e condividerla. Non ci sono altre finalità dietro ai CUT e a noi sembra normale sia così anche per tutte le altre band che fanno questo tipo di musica. Piuttosto che fare bilanci tendiamo ancora a pensare al nostro futuro o anche semplicemente a come faremo ad arrivare al prossimo concerto sani e salvi. Lo so che questo può sembrare assurdo per uomini che hanno abbondantemente superato i quarant’anni e per una band che esiste dal secolo scorso ma tant’è… Siamo sicuramente dei veterani, ma non siamo ancora diventati dei reduci.

Che siate dei veterani e non dei reduci mi pare sia stato ben evidenziato dalla critica. Vi aspettavate che Second Skin fosse accolto così bene?

No. Francamente non ce l’aspettavamo anche perché, da più o meno 15 anni a questa parte, non è che fossimo proprio al centro delle scelte editoriali della stampa, delle radio o dei siti di musica indipendente italiana. Abbiamo sempre riscontrato l’attenzione di singoli giornalisti e conduttori radiofonici, alcuni dei quali ci seguono da molto tempo, ma ecco direi che non ci siamo mai sentiti particolarmente sovraesposti in questo ambiente. Alla fine degli anni 90, ai tempi dei nostri esordi, c’è stata un po’ di curiosità nei nostri confronti anche grazie a tutta la scena legata a Gamma Pop e al fatto che forse rappresentavamo una piccola novità agli occhi di qualcuno, ma quel momento è passato in fretta. Va bene così, nel senso che è ridicolo e infantile pretendere attenzione quando evidentemente quello che fai non ne suscita, almeno in certi ambienti.

Queste sono cose che io tratto come il tempo atmosferico: oggi piove, constatiamo che piove, non possiamo farci niente e continuiamo a fare quello che avremmo fatto comunque, magari mettendoci un cappuccio. Se domani uscirà il sole ci leveremo il cappuccio e a parte il dato meteorologico con i suoi effetti collaterali, nulla sarà cambiato. Per questo ci fa sicuramente piacere che Second Skin sia stato accolto positivamente e stia ottenendo qualche spazio in più rispetto a quello che ci viene concesso di solito… prendiamo quello che ci viene dato oggi, consapevoli della transitorietà del tutto, visto che l’abbiamo già vissuta in prima persona.

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L’album ha un titolo molto evocativo, visto che i CUT per voi sono proprio una seconda pelle. Quanto è difficile essere un musicista alternativo in Italia?

Devo dirti che non so bene cosa si intenda per “musicista alternativo”. Se con questa definizione si vuole indicare qualcuno che fa un tipo di musica che interessa a un numero molto limitato di persone, allora sì, possiamo chiamarci una band alternativa! Nel mio caso specifico non credo di potermi definire neppure un musicista perché il mio rapporto con la chitarra inizia e finisce nel contesto dei CUT: se sono progredito leggermente nel corso di questi vent’anni sul piano tecnico è solo perché sono stato chiamato in causa dalle necessità della band. Anche per quanto riguarda il mio progetto solista, Ferro Solo, la chitarra per me è per lo più un supporto grazie al quale riesco a scrivere delle canzoni. Io sono contento così peraltro, mi piace essere funzionale al lavoro di un collettivo e, nel caso di Ferro Solo, di utilizzare lo strumento musicale come un veicolo per fissare delle idee da sviluppare. Soprattutto mi sono accorto che per me è importante che i miei limiti coincidano con la musica che faccio. È una cosa che amo percepire anche nei dischi che ascolto, per una questione di intensità, sincerità e tensione espressiva.

Voglio dire, se all’epoca dei loro primi dischi i Gories fossero stati dei musicisti super tecnici che si divertivano a suonare roba primitiva nel tempo libero, la loro musica non avrebbe quel senso di necessità, ebrezza e disperazione, giusto? I limiti sono la cosa più importante nel rock and roll. Voglio ascoltare della roba che mi faccia capire che a un passo da quello che sto sentendo c’è solo il precipizio, sotto tutti i punti di vista. Tornando alla tua domanda devo dire che sono cresciuto in un’epoca – gli anni 80 – e in un contesto che mi hanno fatto capire da subito che questa musica in Italia è una faccenda per pochi. Mi è stato sempre chiaro che la mia passione mi avrebbe portato in luoghi assai poco frequentati dalla maggior parte degli appartenenti al consesso umano. Credo che questo valga anche per Carlo, l’altro membro storico della band. L’idea di vivere di quello che facciamo poi non ci è mai neppure passata per la testa, essenzialmente perché l’aspetto economico è quanto di più lontano dalle nostre motivazioni si possa immaginare. Inoltre se proprio vogliamo vederla da un punto di vita opportunistico e visto che spesso ci chiedono di esprimere un parere al riguardo, credo che solo un pazzo potrebbe pensare di guadagnarsi il pane con una musica come la nostra in questo Paese. Come individui ci siamo formati in anni in cui stavano nascendo i presupposti della visione efficientista, carrierista e riduzionista dell’esistenza che spopola oggi. Noi invece facevamo una scelta totalmente idealista, isolazionista e irrazionale che francamente credo mi abbia salvato l’anima e rovinato la vita allo stesso momento. Non saprei neanche se definirla una scelta in effetti: era una necessità, una condizione che ci portava a gravitare verso quel mondo sotterraneo e le sue espressioni così vitali e vicine a quello che provavamo.

Portare avanti questo tipo di “ideali” ha comportato delle rinunce?

Sapevo che stavo rinunciando a qualsiasi eventuale prospettiva di vita familiare, di successo e carriera lavorativa nel mondo “normale”, almeno nei termini di una visione dell’esistenza largamente condivisa e sempre più dominante, ma di cui a me non fregava un cazzo. Sapevo anche che stavo sviluppando e ingigantendo una parte di me che nessuno avrebbe mai capito fino in fondo e che avrei dovuto fare i conti con questa cosa per sempre. Se sei stato completamente solo e isolato dai tuoi pari in certi anni di formazione poi questa cosa te la porti dietro tutta la vita. Devo dire però che preferivo di gran lunga girare da solo o starmene a casa, piuttosto che fare le vasche in centro per fare commenti vomitevoli sulle ragazze o stare seduto in un pub davanti a una birra cercando di interessarmi a discorsi di una noia mortale. In quegli anni ho allevato il mio odio per l’idea di uscire solo per “vedere gente” o per fare socialità spicciola. Pensa che per anni ho condotto un programma radio di musica indipendente il sabato sera per evitare di dover uscire con i miei coetanei e non fare una mazza tutta la sera. Ancora oggi se esco di casa lo faccio per andare a vedere qualcosa che mi stimoli (un film, un concerto, uno spettacolo, una mostra), per suonare o mettere dischi: in quelle occasioni incontro persone che condividono i miei interessi. Peraltro ci tengo a ribadire come gli anni Ottanta siano stati uno dei periodi più merdosi della storia, della cultura e della civiltà e questo revival infinito mi fa ribrezzo. Se dovete proprio tornare agli anni 80 fatelo per scoprire grandi band che nessuno considerava come i Wipers, non tutta quella merda synth pop thatcheriana che adesso fa tanta simpatia, ma che all’epoca non è che fosse semplicemente parte del problema, ERA il problema. Odio questa visione nostalgica, consolatoria e reazionaria della musica!

In ogni modo io ringrazio quegli anni perché mi hanno permesso di alimentare, attraverso la privazione, la mia passione. Se ho sviluppato una qualche forma di determinazione che mi ha fatto sempre andare avanti nelle faccende legate alla musica lo devo a quello che ho vissuto all’epoca. Questo mi ha anche reso piuttosto sobrio nella mia valutazione delle prospettive e degli spazi che una band come i CUT poteva avere in Italia. Eravamo così certi che il nostro sound non poteva interessare a nessuno che l’unico modo possibile per poter pubblicare qualcosa ci sembrava mettere su un’etichetta noi stessi. Questo spiega il nostro coinvolgimento iniziale in Gamma Pop, insieme al desiderio di mettere in relazione tra di loro delle realtà della scena indipendente italiana che apprezzavamo particolarmente. Certo ci sarebbe sempre piaciuto poterci dedicare esclusivamente alla band e all’etichetta senza dover fare altri lavori per sopravvivere, ma purtroppo non è possibile, o almeno non per noi. Ne prendiamo atto e quello che possiamo fare è cercare di considerare il mondo intero come nostro terreno d’azione e di farci limitare meno possibile dal fatto di essere geograficamente collocati in Italia. I mezzi di comunicazione di questo millennio hanno tanti difetti, ma un aspetto positivo delle nuove tecnologie è sicuramente la possibilità di poter organizzare tour e mantenere contatti internazionali senza spendere una fortuna in telefono e spedizioni. Saremo anche dei vecchi trogloditi che nel 2017 suonano le chitarre e credono ancora nel rock and roll, ma qualche e-mail abbiamo imparato a mandarla pure noi.

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Dopo questa risposta così articolata ed esaustiva, vorrei farti una domanda leggera che immagino interessi a chi suona r’n’r disastrato: che strumentazione usate tu e Carlo?

La mia è una normalissima Fender Telecaster collegata a un Twin Reverb Silver Face degli anni 70. Per il resto uso solo una scalatura di corde un po’ più spessa del normale. Ad oggi comunque il Twin rimane il miglior acquisto che abbia fatto in vita mia e per fortuna che l’ho comprato in Croazia negli anni 90, comprarlo oggi mi costerebbe una fortuna che non posseggo. Il suono di Carlo è il vero trademark dei CUT. Carlo usa una testata Fender Super Bassman Silver Face, in poche parole la versione da basso del Dual Showman. Secondo alcuni era il tentativo della Fender di replicare all’SVT Ampeg, visto che il Fender Bassman “normale” era stato abbandonato dai bassisti per essere adottato dai chitarristi e comunque non poteva competere con l’avvento dell’SVT. Carlo la suona su una cassa Orange 4×12. La chitarra è una Fender Bullet dell’inizio degli anni 80, una chitarra molto semplice e per niente cool, almeno secondo certi cultori, ma che funziona perfettamente per le nostre finalità.

Dopo aver provato varie alternative spesso più blasonate, Carlo è arrivato a sostenere addirittura che se avesse posseduto una chitarra migliore non avrebbe potuto ottenere un suono così personale. Anche il nostro sound è stato determinato dalle avversità e dalla scarsa disponibilità di mezzi, per diversi motivi. Quando il nostro bassista ci ha lasciato ci siamo ritrovati con tre chitarre in formazione e abbiamo deciso di fare necessità virtù con Carlo che ha iniziato a sviluppare questo suono ibrido tra basso e chitarra. Prima della defezione del bassista eravamo in sei nella band: basso, batteria, voce e tre chitarristi. In seguito è andata via una chitarrista, poi la cantante e alla fine ci siamo ritrovati in tre. Mano a mano che la formazione si assottigliava la chitarra di Carlo prendeva sempre più spazio fino a diventare uno degli elementi caratterizzanti del nostro sound, soprattutto dal punto di vista timbrico.

Nella recensione ho scritto che l’album “è sorretto da una solennità nervosa e al contempo malinconica”. Questo secondo aspetto mi sembra molto più presente che in passato…

Premesso che siamo sempre stati dei cazzoni inguaribili e che odiamo l’atteggiamento serioso, ma quasi mai serio, della maggior parte della gente che in questo Paese si definisce artista, musicista o quant’altro, devo dirti che sono contento del fatto che il nostro disco sia caratterizzato da un’atmosfera piuttosto “solenne e malinconica”, come la definisci tu. Non c’è stato uno sforzo consapevole in questa direzione, ma mi fa piacere non partecipare al clima di quella che da anni potremmo definire “l’era del sarcasmo”. Viviamo in un ambiente culturale saturato di ironia mediatica post-moderna che viene rigurgitata automaticamente nella speranza di disinnescare qualsiasi cosa, solo per dissimulare il fatto che la maggior parte di noi non ci sta capendo un cazzo ormai da decenni.

Siamo in una fase storica estremamente difficile da interpretare e gli strumenti ideologici e filosofici, giusti o sbagliati che fossero, che fino a poco tempo fa ci aiutavano a leggere il mondo sono stati ampiamente delegittimati o semplicemente sono passati di moda. Allo stesso tempo, attraverso un mistificatorio strumento tecnologico di partecipazione, veniamo sollecitati a esprimere opinioni su tutto, da complesse questioni socio-politiche fino all’ultimo modello di scarpe da ginnastica. Questo crea una tensione che molti pensano di risolvere essenzialmente attraverso delle cazzate. Far vedere che siamo in grado di scherzare su tutto è diventato più che altro un modo di ostentare sicurezza, come se fossimo sempre a un tale livello di consapevolezza da poterci permettere un approccio ironico costante. A costo di rinunciare alla propria coolness sarebbe molto più umano gettare la maschera e ammettere candidamente che abbiamo perso ogni leva per intervenire sulla realtà, anche solo con le nostre opinioni. Sarà perché peso più di un quintale, ma per esempio questo primato della leggerezza a tutti i costi e in tutti gli ambiti sta cominciando a rompermi i coglioni.

Mi verrebbe da dire che la leggerezza ha un costo: in tutti i sensi.

La leggerezza in certi contesti se la possono permettere in pochi e purtroppo io non sono tra questi. La leggerezza presuppone un percorso che non può essere barattato con due battute ironiche e quattro citazioni sofisticate copiate e incollate sulla propria timeline di Facebook. Nella maggior parte dei casi quello che vedo è invece solo disperata vacuità faux savant spalmata un po’ ovunque tanto per dare l’idea di avere la situazione sotto controllo e per non fare brutte figure. L’ironia e il sarcasmo sono sempre stati sacrosante armi di difesa contro il mondo e nei confronti di cose che sentiamo di non poter cambiare, ma a questo punto a me sembrano per lo più dei rassicuranti generatori di conferme per l’ego, quando non dei veri e propri strumenti di sorveglianza perfettamente interiorizzati dalla maggior parte di noi e funzionali alla conservazione dello status quo. Tutto questo è già triste nell’ambito della politica e delle relazioni sociali, ma diventa addirittura letale quando viene trasportato in contesti in cui mi aspetto un po’ più di coraggio, tipo la musica o l’arte in generale.

Che dire… sono d’accordo con te, non c’è proprio un cazzo da ridere.

Tornando a noi spero che Second Skin contribuisca a mettere una certa distanza tra i CUT e lo zeitgeist di questo inizio millennio, perché molta della musica che sento oggi mi sembra un sottoprodotto di quello che descrivevo sopra. Anche io mi ritrovo spesso coinvolto in certe dinamiche, ma quando suono cerco di evitarle, non di perpetuarle: se non facessi così mi sembrerebbe di tradire la mia unica ragione di vita. Un giorno dovremo rispondere ai nostri discendenti del casino di questi anni e a me piace pensare di poter dir loro che nel mio piccolo ho fatto qualcosa in cui mi sono esposto senza remore e in cui mi sono impegnato senza risparmiarmi, invece di essere costantemente ossessionato da quanto il tono del mio prossimo tweet o della mia prossima canzone (a volte sembra non esserci differenza) può farmi sembrare intelligente ed elegantemente distaccato. Se poi tutto questo rischia invece di farmi apparire goffo, vecchio e ingenuo agli occhi dei miei contemporanei poco importa: al netto di tutte le mie incertezze e insicurezze, fare le cose in questo modo, oltre ad essere importante per me, mi sembra anche l’unico statement politico che posso esprimere onestamente attraverso quello che facciamo.

A questo punto sono curioso di sapere qualcosa in più sui testi, di cui peraltro sei autore.

Mi è capitato altre volte di dire che quando scrivo i testi dei CUT cerco di essere portavoce di una sensibilità collettiva, per nulla conscia e consapevole sia chiaro, che mi viene suggerita dalla musica che facciamo. Per quanto mi è possibile cerco di tenere il lavoro sulla parte strumentale collegato allo sviluppo delle linee vocali. Molto spesso infatti mi ritrovo in un secondo momento a trasformare in frasi di senso compiuto e a strutturare delle cose improvvisate in sala prove mentre stavamo suonando. Voglio che linee vocali e musica si alimentino a vicenda in termini di energia, ritmo e atmosfera. In qualche misura però il mio privato è sempre rientrato nei testi che scrivo per la band. In modo del tutto irrazionale e inspiegabile ci sono state delle liriche che hanno addirittura previsto alcuni eventi della mia vita.

Tipo?

Ad esempio un brano come Summertime su Annihilation Road (album del 2010 su Go Down Records, ndi) descrive perfettamente una situazione in cui mi sono trovato diverso tempo dopo l’uscita di quel disco e che a sua volta ha ispirato gran parte dei testi di Second Skin. Forse questa forma di scrittura automatica ha una strana dote di preveggenza o semplicemente si tratta di un fenomeno che la psicologia sociale definisce “profezie che si autoadempiono”: in poche parole mi porto sfiga da solo. Nel caso di Second Skin devo ammettere che il mio privato è presente in maniera molto più preponderante e riconoscibile rispetto al passato. Da ormai diversi anni sto attraversando un periodo molto difficile sotto il profilo personale. È una fase che persiste tuttora e che ho cercato di affrontare tramite il mio progetto solista, Ferro Solo. Tuttavia si tratta di vicende, stati d’animo e scelte così forti per me che non potevano non confluire anche nella poetica della band e nelle liriche di questo disco.

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Come sai mi piace molto il pezzo Catch My Fall che avete scritto assieme a Sergio Carlini dei Three Second Kiss.

Sergio è uno dei chitarristi più dotati di personalità, gusto e stile che io abbia mai avuto la fortuna di ascoltare. Il suo suono e il suo stile sono inconfondibili… a mio avviso pochi altri chitarristi contemporanei possono vantare un segno musicale forte quanto quello di Sergio. La sua cultura musicale gli consente di poter spaziare in contesti diversi, lasciando sempre una firma perfettamente riconoscibile e mai uguale a se stessa come si evince dalle cose che ha fatto con il progetto Serra/Carlini, con la sua avventura solista Jowjo e ovviamente con la collaborazione con noi per Catch My Fall. Quel brano è nato con una facilità incredibile perché basta dare a Sergio una chitarra e un amplificatore e nell’arco di 5 minuti hai già spunti per 10 pezzi!

Mi dicevi, peraltro, che proprio i TSK hanno battezzato i CUT nella metà degli anni 90, quando tu e Carlo eravate impegnati in altre faccende musicali.

Sì, senza tema di smentita alcuna posso dirti che se non ci fossero stati i Three Second Kiss neppure i CUT sarebbero mai esistiti, quindi se vi stiamo sul cazzo per qualche motivo prendetevela con Massimo Mosca e, appunto, con Sergio Carlini. La storia ha inizio nei primi anni 90 quando io avevo messo su un duo con un mio amico berlinese che trascorreva parte dell’anno a Giulianova, mio paese natale sulla costa abruzzese. Era l’estate del mio primo anno da universitario a Bologna e qualche tempo prima con i Clumsy Lovers – ci chiamavamo così – avevamo anche realizzato un demo totalmente casalingo e registrato con un quattro tracce a cassetta. Fu davvero emozionante sentire le mie prime canzoni registrate e arricchite dalla chitarra del mio amico Markus “Biti” Bauck, un musicista veramente capace che si era messo al mio servizio con una generosità che non pensavo di meritare. Timidamente spedimmo la cassetta a qualche giornale e venimmo recensiti positivamente da Rockerilla. La cosa ovviamente mi colpì tantissimo: nell’arco di poche settimane ero passato dall’isolamento assoluto della mia cameretta post-adolescenziale a una recensione su uno dei giornali che avevano formato il mio gusto musicale e fomentato la mia passione! Qualche mese prima a Bologna avevo conosciuto Sergio. Avevo risposto a un suo annuncio affisso sulla bacheca del leggendario Underground Records di Via Malcontenti, un posto che sicuramente ricorderai…

Lo ricordo sì! Quel meraviglioso negozio di dischi e luogo d’incontro è stato parte integrante della mia educazione musicale. Ma andiamo avanti…

Dicevo dell’annuncio di Sergio… be’ citava praticamente tutte le band che amavo all’epoca e faceva capire che c’era intenzione di mettere su un gruppo con quelle coordinate stilistiche. Fu così che mi recai a casa sua per un primo incontro. Per farla breve quel fantomatico gruppo non nacque mai, nacque invece una grandissima amicizia tra di noi che mi consentì, tra le altre cose, di seguire da vicino i primi passi dei TSK. Nel settembre del 1993 Sergio invitò i Clumsy Lovers ad aprire un concerto dei TSK alla Festa di Liberazione di Bologna. Allo stesso tempo però anche Massimo Mosca, bassista dei Three Second Kiss, aveva chiesto a un suo amico di far loro da spalla quella sera. Quel suo amico si chiamava Carlo Masu e visto che ormai eravamo stati convocati si decise che avremmo suonato tutti e due prima dei TSK. Così, grazie a un curioso caso di overbooking, ho suonato dal vivo per la prima volta in vita mia e ho conosciuto quello che sarebbe stato il mio sodale per più di vent’anni.

Ricordo che alla fine della serata, trasportato dall’entusiasmo del debutto live, dissi a Carlo che sarebbe stato bello fare qualcosa insieme prima o poi: non so su che basi perché la musica dei Clumsy Lovers aveva davvero poco a che vedere con quella del Carlo Masu solista! Settimane dopo io mi sarei trasferito in Inghilterra, Biti sarebbe tornato a Berlino e con Carlo ci saremmo persi di vista fino al mio ritorno dal Regno Unito quando decisi di dar vita a quelli che poi sarebbero diventati i CUT. Il nostro primo incontro però è avvenuto per merito dei Three Second Kiss e chissà come sarebbe andate le cose senza il fortunato equivoco che ti raccontavo sopra. Come se non bastasse il nostro primo demo è stato registrato con un quattro tracce a cassetta proprio da Massimo Mosca, nella sala prove dei Three Second Kiss ricavata nel garage di Lorenzo Fortini, il loro batterista. Insomma se a questo aggiungi il loro costante incoraggiamento e supporto direi che ci sono elementi sufficienti per considerarli a pieno diritto i nostri mentori degli esordi.

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A proposito di quegli anni e di Bologna, dal di dentro che aria si respirava nell’underground felsineo?

All’inizio degli anni 90 Bologna viveva di un fermento che mi ha catturato subito. Bastava fare una passeggiata in quelli che adesso sono additati come i luoghi del degrado (Piazza Verdi, Via Zamboni) per essere aggiornato su quello che avveniva in città. Via del Pratello ribolliva di iniziative culturali e politiche. I manifesti sotto i portici e i volantini che ti capitava di raccogliere per strada parlavano di concerti, spettacoli, proiezioni cinematografiche, mostre e performance. Nella maggior parte dei casi si trattava di cose organizzate nell’ambito della comunità studentesca e, più in generale, della scena controculturale della città. Non c’era bisogno di internet per venire a conoscenza di quello che stava accadendo anche perché molte delle cose più interessanti avvenivano per strada, sotto i tuoi occhi: bastava mettere il naso fuori di casa e immettersi nel flusso.

Grazie a Bologna ho conosciuto stili di vita, forme di pensiero e di espressione che neppure immaginavo potessero esistere. Pensa che nel 1994 stavo valutando la possibilità di trasferirmi in Regno Unito, mi è bastato rientrare a Bologna per qualche settimana per farmi risucchiare nuovamente dalla città. Ovviamente c’erano tanti problemi anche allora, ma rimane il fatto che quel tipo di fermento di cui sopra l’ho ritrovato solo nella Berlino dei primi anni del millennio e, più di recente, a Lipsia: due città che mi sono piaciute proprio perché in momenti diversi mi hanno ricordato la “mia” Bologna. Anche se oggi, per cause molto complesse e che è difficile riassumere brevemente, quell’energia si è persa, specie a livello della strada, Bologna continua a essere uno dei posti migliori in cui stare in Italia, specialmente se ami un certo tipo di musica e di cultura. Io sarò sempre grato a Bologna per avermi permesso di realizzare le mie aspirazioni sul piano musicale e voglio essere ottimista per il futuro di questa città.

Uno dei pezzi che preferisco è Take It Back To The Start, prodotto e registrato da Andrea Rovacchi dei Julie’s Haircut. Una ballata lontana dal vostro sound, di solito molto riconoscibile. Come è venuta fuori?

Take It Back To The Start è l’unico brano già edito di Second Skin, quasi tre anni fa era stato condiviso sul Bandcamp dei CUT nel contesto del progetto CUT Must Die!. Andrea Rovacchi, tastierista dei Julie’s Haircut, è da sempre uno dei nostri fonici live e sound engineer preferiti nonché compagno di mille avventure. Inizialmente il lavoro su CUT Must Die! doveva essere separato da quello che stavamo portando avanti per il nostro nuovo album, tuttavia mentre gli spunti si accumulavano su entrambi i fronti ci siamo resi conto che queste collaborazioni ci rappresentavano tanto quanto i pezzi che stavamo costruendo in tre. Dopo vent’anni ci siamo accorti che i CUT sono una storia di cui fanno parte anche tutte quelle persone che hanno lavorato con noi, che ci sono state accanto e che stimiamo. Ci sembrava giusto che l’album del nostro ventennale accogliesse tutto questo e ne prendesse atto. E così molti brani di CUT Must Die! sono confluiti dentro Second Skin. Questo spiega l’elevato – e per noi insolito – numero di ospiti presenti sul disco.

Tutte le altre collaborazioni su Second Skin sono inedite ma Take It Back To The Start si inseriva così bene nel contesto dell’album che abbiamo deciso di includerla lo stesso, nonostante fosse già stata pubblicata on line. La cosa buffa è che molti si stanno accorgendo di questo brano solo ora che è finito dentro Second Skin a riprova del fatto che, almeno nel nostro caso, sono ancora i dischi stampati a determinare uno scarto positivo in termini attenzione e cura nell’ascolto e nella considerazione di certi appassionati, con buona pace delle nuove tecnologie e della musica “liquida”. Sarà che da bravi vecchi non sappiamo usare certi mezzi di comunicazione in maniera efficace, sarà che forse siamo un gruppo old school seguito per lo più da gente altrettanto old school, ma resta il fatto che questo brano ha suscitato un po’ di interesse solo nel momento in cui è stato presentato nel contesto dell’album diventando parte di una release fisica. Archiviato questo dato curioso posso dirti che Take It Back to The Start rappresenta un caso per ora unico nella nostra piccola storia in quanto è stato pensato, scritto e registrato in un giorno solo. Non ci era mai capitato di andare in studio di mattina senza avere la minima idea di quello che avremmo fatto e di uscirne la sera stessa con la versione definitiva di un pezzo, voci incluse. Devo dire che è stata un’esperienza inebriante che ricordiamo tutti con grandissimo piacere.

All’inizio della session presso il suo Bunker Studio di Rubiera, Andrea aveva solo espresso il desiderio di sfruttare quella che lui vedeva come una nostra propensione al groove per tirare fuori qualcosa che suonasse più “pop” rispetto ai nostri standard. Ai suoi occhi la cosa assumeva i toni di una sfida, dato che non siamo certo noti per il nostro amore per la melodia soave. Ci siamo messi a jammare con questa vaga suggestione in testa e in poche ore abbiamo messo insieme un brano che ci ha soddisfatto tutti. Siamo usciti dallo studio con la versione che puoi sentire su Second Skin già affidata al nastro. Non so quanto quello che ne è venuto fuori corrisponda all’idea originale di Andrea, sicuramente è un pezzo che sotto tutti i punti di vista si trascina per meandri piuttosto oscuri, pur essendo meno aggressivo del nostro solito. Del resto sarebbe quantomeno poco realistico aspettarsi del sunshine pop da una band come la nostra.

Dimmi qualcosa in più sul progetto CUT Must Die!

L’idea alla base di CUT Must Die! era quella di lavorare su una serie di brani con il contributo di amici e collaboratori che ci sono vicini da sempre, magari partendo da zero e creando dei pezzi ex novo da condividere on line o in qualsiasi altra forma che di volta in volta ci sembrasse più adatta. Nell’ottobre 2013 abbiamo pubblicato il primo brano, con alla voce Pete Bentham di Pete Bentham & The Dinner Ladies, da Liverpool: una band straordinaria e persone meravigliose che tu conosci. Anche grazie al loro supporto siamo riusciti ad andare in tour in Regno Unito spessissimo. Noi abbiamo restituito il favore organizzando diversi tour italiani per loro. Al momento abbiamo dovuto mettere CUT Must Die! in pausa per dare priorità all’album, ma io conto di riprendere le nostre avventure extraconiugali al più presto! Ci sono altre cose in programma ma appunto, trattandosi di rapporti clandestini, per adesso possiamo dire poco al riguardo. Anticipo solo che c’è altro materiale con Mike Watt per esempio, su cui prima o poi dovremo trovare il tempo di rimettere mano.

Visto che hai citato Mike Watt chiudiamo facendo un triplo salto mortale dall’Emilia Romagna alla California: dopo Sergio Carlini e Andrea Rovacchi, un ospite davvero di peso è proprio il “vecchio” Mike, basso pulsante in Automatic Heart (Tacoma Time Travel) che cita mirabilmente i Sonics. Come è avvenuto l’incontro con l’uomo di San Pedro?

Amiamo fIREHOSE e Minutemen sin dall’adolescenza. Uno dei motivi per cui ci chiamiamo CUT si nasconde tra i solchi di Buzz or Howl Under the Influence of Heat dei Minutemen, nelle vesti di un brano scritto proprio da Mike (che s’intitola Cut per l’appunto, ndi). Negli ultimi anni poi abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in lui in tantissime occasioni e per varie ragioni, tra queste la data insieme a Iggy & The Stooges a Villafranca di Verona nel 2012, uno dei momenti più importanti e significativi per i CUT, per motivi che non credo ci sia bisogno di spiegare. Tra l’altro secondo noi il fatto che Mike si sia unito agli Stooges come bassista rappresenta la chiusura di un cerchio, il coronamento di un percorso e di un approccio di cui gli Stooges e Mike stesso sono pietre miliari. È una di quella cose che ti fanno pensare che forse si può ancora sperare in un po’ di giustizia a questo mondo. Inoltre Mike suona insieme a un altro ospite del nostro disco, Stefano Pilia, nel progetto Il Sogno del Marinaio. Il loro secondo disco è stato registrato da Bruno Germano presso il Vacuum Studio, dall’altra parte del muro rispetto alla nostra sala prove. Questa è stata un’ulteriore occasione per frequentarci e conoscerci ancora meglio.

La stima che nutrivamo per lui prima ancora di incontrarlo di persona è stata solo accresciuta dalle mille occasioni in cui Mike ci ha dimostrato con i fatti di essere l’incarnazione di uno spirito di cui molti parlano soltanto. Lo ha dimostrato anche con la semplicità e la naturalezza con cui ha accettato la nostra proposta di collaborazione: ha detto più volte di sentirsi onorato di aver potuto suonare sul nostro disco, pensa te! Addirittura mi ha intervistato per il suo programma radio, il Watt from Pedro Show. È anche un grandissimo storyteller: farsi raccontare la sue reazione alla convocazione per la reunion degli Stooges è stato divertentissimo. Ti fa pensare che anche tu avresti reagito così perché Mike è innanzitutto un appassionato, proprio come lo siamo noi. Verrebbe da dire che è uno di noi, ma in realtà lui è the man in the van with bass in his hand mentre noi siamo solo una piccola band italiana. Mike si incazzerebbe tantissimo se mi sentisse dire queste cose perché per lui non devono esistere gerarchie tra punk rockers… ancora una volta ha ragione lui, ma di fronte alla sua storia e alla sua attitudine come fai a non provare una certa reverenza?

CUT con Mike Watt

Manuel Graziani
Manuel Grazianihttp://www.manwell.it
Manuel = Manwell = brav’uomo al servizio del garage punk rock'n'roll sgarrupato e della narrativa scostumata

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