Intervista: Samuel (Subsonica)

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Di Elena Odelli

Ci furono i Subsonica, o meglio ci sono ancora. Solo che la band torinese sembra aver preso una pausa, non meglio specificata, per portare avanti i progetti solisti di ognuno dei suoi membri. Così dopo Boosta e Demonology HiFi, è la volta di Samuel Romano. Il codice della bellezza, in uscita il 24 febbraio via Sony, è solo un secondo tassello di questo percorso musicale in solitaria. Perché prima ci sono stati due singoli (La risposta e Rabbia), ed ora la partecipazione al Festival di Sanremo con Vedrai. Tappe che in qualche modo hanno ben messo a fuoco la virata musicale presa dal cantautore torinese. Pop ma anche no, verrebbe da definire così, un disco che sembra essere una telefonata sicura al successo. Michele Canova come produttore e Jovanotti come firma di cinque dei brani contenuti.

Debuttare come solista dopo più di vent’anni da frontman di una delle band più amate e importanti d’Italia, decidendo di iniziare da capo la scalata, che piaccia o meno, va annoverata sicuramente tra le imprese titaniche che un artista può compiere. Il risultato di questo viaggio, non è ancora dato saperlo.

Come ti stai preparando a questo Festival di Sanremo da solista? 

In realtà non ci sto assolutamente pensando e, forse, mi sto preparando esattamente così. Il Festival, alla fine, è un mondo talmente assurdo e pazzesco che non c’è un’aspettativa, bisogna essere sé stessi. Quando mi hanno proposto di andare, io non ho pensato assolutamente al concetto di gara e spettacolo, a chi c’era intorno a me, anche se alcuni arrivano da un percorso musicale distante dal mio. Mi sono limitato a pensare a quando da piccolo ho iniziato a scrivere canzoni, avevo circa sette anni e passavo i giorni del Festival con un taccuino, dove mi segnavo le frasi dei brani che mi piacevano di più. Ho ricordato quell’immagine e mi sono detto che mi sarebbe piaciuto, per una volta, andare da cantante solista su quel palco. Così, ho accettato in maniera anche un po’ folle, se vogliamo. Ad oggi il mio istinto non ha mai sbagliato.

Abbastanza coraggiosa è anche la scelta di uscire con un album da solista, a questo punto della tua carriera. 

Coraggiosa, dipende. Il gruppo è fantastico, il concetto di solitudine lo vivi in modo diverso. La creatività è accesa, ti scambi di continuo informazioni. Però, arriva sempre quel momento in cui ci si deve assumere la responsabilità. Quando succede, la responsabilità si ferma in mezzo, non arrivando mai ad esser sviscerata fino in fondo. In questo momento storico, io avevo la necessità di assumere la mia responsabilità fino in fondo, di prendermi il mio palo in faccia ad ogni costo. Addirittura lo sto proprio ricercando. Anche questa esagerata necessità di rischio, come affrontare il Festival di Sanremo, per uno che ha fatto il percorso che ho fatto, è proprio per velocizzare il più possibile questo palo in faccia, che prima o poi mi devo prendere. È stata una scelta coraggiosa, ma anche una mia necessità.

Perché hai scelto Michele Canova?

Michele Canova perché è un produttore con un forte carattere. Lui ha un suo suono e tende, come è giusto che sia, a piazzarlo su tutte le cose che produce. Io ho sempre lavorato con produttori dal carattere forte. Ho avuto la necessità di ingaggiare un ennesimo tiro alla fune. Questo perché reputo importantissimo, per la mia creatività, riuscire a non stare in una zona confortevole. Alla fine il disco non rappresenta il suono di Michele Canova e nemmeno quello di Samuel Romano.

Dici che il disco nasce dalla voglia di sviscerare il tema più popolare del mondo, quello dell’amore. 

Arrivo da un periodo storico in cui si è costruito un linguaggio sulla stratificazione e sulla complessità, andando a raccontare tante immagini tutte insieme e schiacciandole dentro ad un brano. Poi, ad un certo punto, arriva il rap che cambia la prospettiva, spostando il fulcro verso una lingua più semplice. Tutti gli autori hanno dovuto far i conti con questa corrente, sono dovuti passare dal concetto di complessità come bellezza, al concetto di semplicità come bellezza. Istintivamente ho pensato che fosse giusto così. Ho scelto l’argomento più abusato e semplice, l’amore, cercando di spostare l’inquadratura su angolazioni non tradizionali. Parlo, quindi, di rabbia, di un amore non corrisposto, dell’amore per se’ stessi. Cerco di usare l’amore come espediente per andare a raccontare tutti quegli angoli più scuri e travagliati. La bellezza è il meccanismo che utilizziamo per farci amare e quando ho dovuto trovare un titolo che racchiudesse tutte queste fasi dell’amore, mi sono trovato tra le mani Il codice della bellezza.

Dove risiede il codice nel disco e dov’è quella sensazione provata nel momento in cui lo inventasti?

Bisogna partire da un aneddoto. Tra la quinta elementare e la prima media iniziai a prendere appunti e studiare con un codice che avevo inventato. Questa cosa suscitò preoccupazione tra i miei genitori e insegnanti, che si adoperarono per bloccare questa tendenza, e me ne dimenticai. Quando mi è esplosa tra le mani questa frase, mi sono ricordato di quel bambino che si apprestava ad affrontare il mondo in modo personale, cancellando l’alfabeto che tutti noi usiamo, per costruirsene uno proprio. Ho riletto quel momento, l’ho avvicinato al momento musicale che sto vivendo. Ho voluto rimodernare quel codice. Il codice della bellezza è quell’enorme puzzle interiore che tutti noi abbiamo. Una scritta che può essere sempre cancellabile è migliorabile. Quando tutti i tasselli sono al loro posto e si trova un equilibrio interiore, una persona corre davvero il rischio di esser più bella, amabile. La ricerca di quell’equilibrio è ciò che spinge gli umani a vivere.

Alla luce di tutto ciò che ci siamo detti. Dove ti posizioni tu, nel panorama musicale italiano odierno?

In realtà non è il mio lavoro posizionarmi nel panorama musicale odierno.

Sì, di solito vieni posizionato da quelli competenti. Ma se tu potessi scegliere per te stesso, dove ti metteresti?

Nel cuore di più persone possibili. Quando scrivi musica la tua esigenza è quella di arrivare alle persone. Ho parlato di pop in alcune interviste. Secondo me, il pop è quella distanza che c’è tra la bocca di un cantante al cuore di chi lo ascolta. La mia posizione preferita in questo momento, è il riuscire ad arrivare dentro alle persone e il più velocemente possibile. La posizione di classifica e di graduatoria nella musica italiana non la so distinguere. Anche con i Subsonica, ho sempre vissuto una vitalità musicale molto nostra, auto-costruita intorno a noi. È difficile per me rapportarmi ad una misurazione differente.

Siete stati una band anomala, avete sempre perseguito durante la vostra attività come Subsonica, anche progetti paralleli. Pensi che questa disgregazione della band, ti abbia giovato musicalmente?

Sono stato tra i primi promotori dei progetti da solisti. Quando ho incontrato gli altri per dirgli che volevo fare una cosa solista, speravo che fosse un’idea comune. Anche loro hanno sentito le stesse cose che provavo io. Penso che questo momento dei Subsonica sia fantastico perché dà la possibilità a chi ama i Subsonica di vedere le nudità del gruppo, di andare a vedere quei luoghi che tendenzialmente quando siamo insieme nascondiamo, le nostre imperfezioni. È una prova di grande maturità di una band e dà la possibilità al gruppo di evolversi, di decostruirsi per ricostruirsi. Io trovo che sia eccezionale quello che ci sta capitando e spero che i miei soci la vivano alla stessa maniera.

Quindi pace e amore alla fine.

Più che altro il nostro amore per la musica. Se c’è una cosa che devo dire sui Subsonica è che, al di là dei caratteri forti che spesso creano attrito quando ci si confronta, abbiamo qualcosa che ci accomuna: la passione sfrenata per la musica, per l’andare a cercarla, viverla e sentirla intorno a noi. Questo ci accomuna e ci ha salvati da momenti difficili. Questo non lo reputo assolutamente un momento difficile, anzi.

Redazione Rumore
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