Intervista: Trentemøller

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Di Tommaso Tecchi

Inserire Anders Trentemøller in una categoria precisa – che sia quella di produttore di musica elettronica o di frontman di una band – non è mai stato facile, e le cose non sembrano essersi fatte più chiare col passare del tempo. Nato a Copenhagen nel 1974, l’artista può vantare undici anni di carriera (o quattordici, se si contano i lavori che hanno preceduto il suo disco d’esordio) tradotti in quattro album e un numero enorme di EP, singoli, remix, live e collaborazioni. Se l’uscita di The Last Resort nel 2006 ha garantito al danese un ingresso trionfale all’interno della scena elettronica mondiale, il suo ultimo disco Fixion evidenzia tutto il percorso fatto dal suo autore negli anni per evitare di dare riferimenti chiari e per poter essere considerato un musicista completo.

Seguendo la scia di Into the Great Wide Yonder (2010) e Lost (2013) anche il suo quarto LP, uscito a settembre dello scorso anno via In My Room, è avvolto da un’atmosfera cupa fatta di elementi decisamente più affini al post punk e alla new wave che alla techno. La grande differenza è che in Fixion si ha l’impressione che Trentemøller abbia le idee più chiare e abbia raggiunto una maturazione tale da potersi smarcare quasi totalmente dalle etichette che gli sono state assegnate durante i suoi esordi. Ci ritroviamo così di fronte ad un disco fatto di brani dark, linee di basso à la Joy Division, synth freddi e importanti voci femminili: Jehnny Beth delle Savages su tutte, ma anche la fedele Marie Fisker (componente fisso della formazione live) e Lisbet Fritze dei Giana Factory. Se pensate però che quest’ultimo lavoro rappresenti un punto d’arrivo nella carriera dell’artista, vi sbagliate di grosso: Anders è un personaggio che vive la sua musica in modo frenetico, e fermarsi non sembra proprio essere nelle sue corde.

Ciò comporta anche un’instancabile attività dal vivo, che martedì 14 e mercoledì 15 febbraio lo porterà rispettivamente allo Spazio 900 di Roma e al Fabrique di Milano. Per l’occasione ho avuto modo di farmi raccontare dallo stesso artista qualche retroscena su Fixion e sui suoi predecessori; quello che leggete qui sotto è ciò che è emerso da una mezz’ora buona di telefonata su Skype tra Scozia e Francia.

Come è andato il tour finora?

“Sta andando davvero molto bene, siamo contenti di dire che tutti gli show sono andati sold out finora. È il miglior inizio possibile per il tour. Oggi siamo a Glasgow e speriamo di ripeterci”.

Non hai mai negato che i tuoi dischi rispecchino la tua evoluzione come artista e che il tuo obiettivo sia offrire ai tuoi fan qualcosa di completamente inaspettato ad ogni pubblicazione. Pensi di aver raggiunto questo traguardo anche con Fixion?

“Decisamente. In ogni album che scrivo ci metto dentro un sacco di sforzi, di lavoro duro e a volte anche molta frustrazione, perché capita molto spesso che le cose non vadano esattamente come ci si aspetta. E quindi bisogna affrontare anche molte seghe mentali quando si è in studio (ride, nda). Una sera pensi di aver fatto molto bene e la mattina dopo torni in studio non suona più nel modo fantastico in cui pensavi poco prima. Si tratta di seguire nel modo giusto le proprie idee. Per ogni album penso di aver finito quando sono davvero soddisfatto da ogni canzone e dall’unione di ogni singola traccia. Questo disco è stato realizzato in un anno e mezzo/due, finito il tour del 2015. Sono molto felice di Fixion e, anche se ciò accade spesso quando si pensa al proprio ultimo lavoro, in questo caso credo proprio che questo disco rappresenti al meglio me e la mia vita in questo momento”.

Quindi credi di aver trovato un’idea di suono più stabile e definitiva o stai solamente aspettando il prossimo cambiamento?

“Cerco sempre di avere una mentalità aperta prima di iniziare a lavorare ad un nuovo disco, per non essere limitato ad una specifica idea di suono o di vibe. Di solito a metà strada del processo di scrittura e di registrazione inizio a vedere un pattern speciale o un percorso preciso da seguire, poi la sfida è vedere quale traccia funziona all’intero dell’album e quale non ci sta bene. È una cosa che diventa naturale dopo qualche mese. Penso di aver imparato a farlo durante gli anni, questo è il mio quarto disco e ho realizzato molti remix. Ora so quando fermarmi quando la traccia è completa, ma è una sfida costante”.

Fixion ha una chiara influenza post punk, un genere che in molti stanno cercando di emulare nonostante non tutti siano in grado di apportarvi davvero qualcosa di nuovo. Qual è il modo giusto per fare un disco influenzato dal passato senza che suoni come qualcosa di realizzato nel passato?

“Questa è una cosa decisamente importante. Come hai detto, non volevo fare qualcosa che si fosse già sentito totalmente negli anni ’80; ma è anche vero che sono cresciuto in quell’epoca e si tratta di band che ascoltavo da adolescente. La loro estetica è ormai nel mio sangue in qualche modo. Quindi non è semplicemente una cosa che cerco solo di evitare, si tratta piuttosto di portare qualcosa di personale in quel vibe. Per questo Fixion non è solo un revival, ma è anche – spero – qualcosa che guardi in avanti. Questo disco è venuto fuori con un suono probabilmente più anni ’80 dei miei lavori passati, ma magari la prossima volta uscirà qualcosa di totalmente diverso. Quindi dipende molto dal mood in cui mi trovavo durante la realizzazione e spesso molte canzoni semplicemente richiedono quel tipo di suono”.

I brani in cui appare Jehnny Beth delle Savages sono il frutto del vostro lavoro a stretto contatto in studio. Credi che questo approccio sia ancora essenziale ora che è sufficiente scambiarsi mail e registrazioni per realizzare una buona collaborazione?

“Credo che trovarsi insieme a lavorare nello stesso momento sia importante, sì. Io e Jehnny avevamo in totale due giorni per finire le canzoni, il processo di scrittura e per registrarle, quindi è stato tutto molto frenetico. Allo stesso tempo è stato anche decisamente bello perché abbiamo dovuto provare a fare del nostro meglio nel limite di tempo che avevamo e credo che entrambi siamo riusciti a lavorare bene sotto pressione. C’era questa sorta di energia claustrofobica e frenetica che ha influito molto sulle canzoni. Si trattava di non riflettere troppo su cosa stessimo facendo, ma di farlo e basta. Penso sia questa la principale differenza rispetto alle collaborazioni con Marie (Fisker, nda), perché abbiamo a disposizione settimane e a volte mesi per lavorare ad una sola canzone; possiamo sempre tornare a lavorarci facendo ognuno avanti e indietro dal proprio studio. Provare le cose più volte è utile, ma è bello avere questa dinamica istantanea e spostanea: è sicuramente una cosa che voglio esplorare di più nel mio prossimo disco”.

In Never Fade canti anche tu per la prima volta, cosa ti ha spinto a provare dopo tutti questi anni?

“Canto solamente un paio di frasi in pratica, ma è stato divertente dato che di solito non lo faccio mai. Un giorno mi trovavo in studio abbastanza tardi e volevo che queste quattro frasi venissero ripetute, ma non c’era davvero nessuno a cui chiedere e così ho attaccato il mio microfono ad un effetto per chitarra per sporcarlo un po’ e poi l’ho registrata. Ora canto Never Fade anche quando suoniamo dal vivo. Non sono decisamente un cantante e quindi non posso affrontare una canzone intera, ma queste melodie sono abbastanza semplici anche per me. In questo caso è stata una coincidenza, perché per quella canzone in particolare volevo qualcosa di semplice e ripetitivo. Ma non potrei mai cantare una canzone intera, suonerebbe in modo terribile (ride, nda)”.

Leggendo le tue interviste ho notato che sei uno dei pochi artisti ad ammettere onestamente di essere interessato alle recensioni che riceve. In che modo la critica influenza il tuo lavoro?

“In realtà per questo album ho deciso espressamente di non leggere nessuna recensione, perché tendo ad essere abbastanza influenzabile. Non mi riferisco solo alla critica negativa, ma anche alle recensioni che non prendono seriamente la mia musica e si concentrano solo sull’hype. È capitato che qualche giornalista ritenesse che fossi stato spinto eccessivamente, ma poi non diceva nulla sul mio disco e questa è una cosa che non mi può aiutare in nessun modo, fa solo più rumore nella mia testa. Così questa volta non ho voluto leggere neanche le recensioni positive. Sono sicuro che questo disco sia la cosa migliore che potessi fare, perché ci ho speso tanto tempo e non ho sentito il bisogno che qualcuno mi dicesse cosa ha funzionato e cosa no. Potrei leggerle in futuro, ma è una cosa che a volte mi può confondere, soprattutto quando il disco è appena uscito e lo sento ancora molto vicino”.

Per alcune date del tuo tour hai scelto come opening act Matteo Vallicelli, che come saprai è il primo italiano a firmare per la Captured Tracks. Come vi siete conosciuti e cosa ti ha portato a sceglierlo per il tuo tour?

“Lo conoscevo già come batterista dei Soft Moon, così il suo manager mi ha inviato alcuni suoi lavori solisti e mi hanno colpito molto. Ho pensato che fosse perfetto per quello che cercavo, perché è musica elettronica, ma con un beat speciale e questi ritmi ipnotici da batterie live. Ho pensato subito che la mia musica suonasse bene con la sua. Sono molto contento di aver lavorato con lui e anche il pubblico ha risposto molto bene ai suoi set. Penso sia stata un’ottima combinazione”.

Mettendo a confronto gli anni in cui hai iniziato a fare musica, come pensi si sia evoluta la situazione per i giovani artisti danesi o, più in generale, europei?

“Credo che sia più facile pubblicare musica ora, perché anche se non hai un contratto con un’etichetta puoi semplicemente postare qualcosa su Soundcloud e questo rende le cose più facili rispetto a dieci anni fa. Allo stesso tempo è però difficile far emergere la tua musica quando c’è già così tanto in giro e quando le cose si muovono così velocemente. Un giorno un blog parla di una canzone e il giorno dopo parla già di un’altra. Quindi è difficile, a meno che non hai qualcosa di veramente unico. Questa è la sfida, e lo è sempre stata ovviamente: trovare il proprio suono e il proprio modo di fare musica, perché è sicuramente più facile suonare come qualcun altro e trovare il proprio stile di musica richiede uno sforzo più importante. La sfida di oggi è quella di riuscire ad emergere fra servizi di streaming come Spotify, Soundcloud, YouTube. Sono una cosa grossa per molti giovani musicisti, perché semplicemente hanno smesso di aver bisogno di un contratto e con molte views possono costruire una buona carriera. Questa è una differenza enorme rispetto a quando ho iniziato io”.

Il tuo progetto solista è nato dopo diverse esperienze all’interno di band danesi. Come è stato il percorso da quegli anni formativi al tuo disco d’esordio?

“Credo che suonando nelle band ho imparato che la sfida maggiore lavorando con altre quattro o cinque persone sia trovare un’idea comune: magari il chitarrista vuole suonare in un certo modo, il cantante vuole fare altro e così via. Si tratta di trovare compromessi e dopo un po’ mi sono stancato di perdere così tante ore ogni settimana per questo genere di cose. Vent’anni fa suonavamo molto spesso e facevamo questa musica ispirata al brit pop e allo shoegaze, ed era qualcosa che non sentivo suonasse bene come volevo, perché non riuscivamo veramente ad essere d’accordo su un suono specifico. Perciò quando ho scoperto il campionamento e la produzione di musica elettronica è stato facile per me diventare il mio stesso capo e per me così si è aperto un mondo. Ho iniziato a fare musica da solo, ora ho lentamente ricominciato a suonare con una band per i miei live ed è fantastico, perché sono molto più sicuro di come dovrebbe essere il nostro sound e mi fido di ognuno dei membri. Mi danno continuamente degli input e quindi è proprio una cosa da gruppo, non sono solo io che gli dico come devono suonare, ma è uno scambio di feedback. Si tratta della cosa migliore di essere in una band, condividere musica con altre persone che possono darti idee che non avresti mai avuto da solo. Quindi credo di stare finalmente beneficiando del fatto di essere in una band, a vent’anni di distanza”.

Come hai già detto non ti trovi a tuo agio parlando di hype, ma il successo di The Last Resort è stato piuttosto sorprendente. Come sei riuscito a gestire tutte le attenzioni che hai ricevuto con il tuo primo album?

“È una cosa su cui tendo a non riflettere molto, perché se iniziassi a sentire troppa pressione, se iniziassi a pensare a cosa si aspetta la gente, sarei totalmente spaventato. Cerco di fare la musica che mi sembra giusta in un preciso momento e ho sempre lavorato così. Non sento alcuna pressione ora, ma mi capita di essere nervoso a volte prima di suonare dal vivo, accadeva specialmente durante i nostri primi concerti. La prima volta che suoni una nuova canzone live pensi a come la gente potrebbe reagire o cose come: “riusciamo a suonarla abbastanza bene?” e “c’è qualcosa di tecnico che potrebbe saltare?”. Una volta durante il primo show di un nostro tour il mixer saltò 20 minuti prima di salire sul palco e la nostra crew ha dovuto trovarne un altro in un club vicino a dove stavamo suonando. Abbiamo iniziato il concerto con 20 minuti di ritardo. Queste sono cose che ti possono rendere nervoso sul palco, ma poi dopo tre o quattro concerti diventa più facile: sei più sicuro di tutto, soprattutto per la parte tecnica, e si fanno un sacco di prove. Ora abbiamo un’organizzazione forte e affidabile quando prepariamo un concerto”.

La tua musica è stata usata molte volte in film e serie TV come Halt and Catch Fire, hai mai pensato di comporre un’intera colonna sonora originale?

“In realtà è una cosa che avrei voluto fare una decina di anni fa per un film danese, poi però ho realizzato quanto lavoro servisse per comporre un’intera colonna sonora dall’inizio e quindi ho sempre preferito lavorare alle mie canzoni per gli album. È comunque sempre bello quando i registi usano della musica che ho già scritto in precedenza, ma non me la sento proprio di passare metà anno o magari anche di più a fare un’OST, preferisco sicuramente lavorare alle mie cose”.

Cosa farai una volta finito il tour?

“Non ho davvero dei programmi, ma se c’è una cosa di cui sono sicuro è che comincerò a lavorare al mio prossimo album. Ho già iniziato a lavorare a qualcosa sul bus della band, visto che abbiamo molti tempi morti fra una città e l’altra o in attesa dei sound check. Mi porto sempre dietro la mia strumentazione portatile e mi capita spesso, in un secondo momento, di usare in studio le idee che mi vengono in tour. Sono anche sicuro che dopo due mesi e mezzo di tour avrò bisogno di un po’ di riposo, ma visitare città diverse durante le tournée è una cosa che mi mantiene sempre ispirato”.

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