The Flaming Lips, riti catartici di metà inverno

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Testo di Stefano Locati / Foto di Paolo Proserpio

Con il nuovo Oczy Mlody uscito a gennaio, Wayne Coyne e compagni sono impegnati in un tour mondiale di ricognizione, decisi a ricostruire quel baccanale colorato e spudorato che è diventata la forza attrattiva dei loro live. Nell’unica data italiana, il 30 gennaio 2017 all’Alcatraz di Milano, li accoglie una folla pittoresca ed eclettica, che va dal cinquantenne in giacca e cravatta all’adolescente fibrillante con cappellino di lana inamovibile, dal signore distinto con completo variopinto striato di perline alla cosplayer militante che pare uscita da un loro video. L’atmosfera è di attesa, quasi come per un nuovo inizio. Negli ultimi anni i Flaming Lips sembravano essersi un po’ arroccati, tra cover dei Beatles e collaborazioni con Miley Cyrus (tolto l’inutile strascico di polemiche conseguente). The Terror, uscito nel 2013, e il precedente Embryonic, del 2009, li presentavano poi con suoni più cupi, quasi introversi. Oczy Mlody sembra voler chiudere la parentesi e tornare alle melodie stratificate e soavi degli album di successo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio (The Soft Bullettin, Yoshimi Battles the Pink Robots), o perlomeno funge da lussuoso raccordo.

Prima del pienone per il piatto principale, il compito sovrumano di riscaldare la platea è affidato all’inglese Georgia, al secolo Georgia Barnes (figlia di Neil Barnes dei Leftfield), batterista polistrumentista che si muove tra pop ruvido e post-punk. Le sue canzoni sincopate, composte da batteria fragorosa, urla e campionamenti, dal vivo funzionano, pur senza saturare l’atmosfera, e in particolare Feel It acquista una dimensione da anthem mancato. Però non si crea nessuna empatia con il pubblico, ancora distratto e svogliato, tra i troppi tentativi di captatio benevolentiae della cantante, che si spertica in lodi ai Flaming Lips e continua a dire quanto sia fortunata a trovarsi qui, e gli spettatori che si rianimano solo se dietro le quinte fa capolino Wayne Coyne o qualche membro della band.

La pausa di mezz’ora per riarrangiare il palco e preparare i tanti stunt dello spettacolo a seguire serve alla sala per riempirsi definitivamente. Da professionista consumato, il neocinquantenne Wayne Coyne passeggia tra i roadies indaffarati e si intrattiene a sparare coriandoli sulle prime file, già in delirio. Poi la festa ha inizio. Race for the Prize parte sferragliante e pomposa, con Coyne che si dimena come un direttore d’orchestra posseduto. Dal soffitto piovono coriandoli a bizzeffe, mentre una miriade di palle colorate viene lanciata sugli spettatori. Basta questo ad aprire uno squarcio nella realtà e a riposizionare l’Alcatraz in una dimensione altra, un mondo parallelo zuccheroso fatto di colori saturi, emozioni ipertrofiche e sorrisi irrefrenabili. Con due batterie, due/tre chitarre, basso, campionatore, voce e cori l’assalto sonoro è totalizzante. La band si muove con parsimonia e rimane sullo sfondo, in controluce rispetto agli schermi giganti che riproducono forme psichedeliche: l’unico possibile mattatore e protagonista assoluto è Coyne, che salta, si dimena, incita, grida, spendendosi fino alle ossa per il pubblico.

Le canzoni si susseguono in un dialogo ingegnoso tra passato e presente, con sporadiche pause per riorganizzare i giocattoli di scena. Il grosso della scaletta è composto da The Soft Bulletin (sei canzoni), a cui si accodano il nuovo Oczy Mlody (tre), Yoshimi Battles the Pink Robots (tre) e At War with the Mystics (due). Il secondo brano in scaletta, Yashimi Battles the Pink Robots, Pt. 1, è introdotta da una scritta gonfiabile gigante, “Fuck Yeah Milano”, prontamente fatta scoppiare quando rovina sulle prime file. Il primo sussulto è però con la successiva There Should Be Unicorns: Coyne scompare per qualche istante, poi riappare da un ingresso secondario e si muove tra la platea in sella a un unicorno luminescente, sospinto fino ai palchetti laterali, per la gioia incontenibile delle retrovie, avvolto in una ingombrante giacca colorata (la stessa che usava nel finale del video di How??). La linea di basso predominante, l’arrangiamento siderale e la sezione ritmica tribale, insieme alle liriche sussurrate dal cantante lontano dal palco, donano alla performance un’aura mistica che inizia a far intravedere il senso degli sforzi dei Flaming Lips. La performance, l’intera struttura dello show, apparentemente sguaiato e scanzonato, sono in realtà parte di un rito collettivo, di cui Wayne Coyne è l’alto officiante, pensato per aspirare preoccupazioni, dolori, tensioni e trasformarle in energia.

Nel mezzo c’è posto per altri picchi emotivi, come l’insostituibile cover di Space Oddity di David Bowie. Coyne, incapsulato in una sfera gigante trasparente, prima saltella sul palco, poi fa stage diving (o forse più propriamente stage bouncing?) e rotola sulle teste degli astanti, muovendosi avanti e indietro come un folletto in assenza di gravità. Non è la prima volta che i Flaming Lips dichiarano il loro amore per il Duca, e anche la performance nella capsula trasparente si era già vista ad altri concerti; ma il ricordo della morte di Bowie è ancora doloroso e l’omaggio è un ulteriore tassello in una progressiva scesa a patti con la realtà della sua assenza. Gli altri due nuovi pezzi dall’ultimo Oczy Mlody presentati, How?? e The Castle, si amalgamano bene con il repertorio, anche se proprio quest’ultimo svela qualche insicurezza nella voce di Coyne, che talvolta non lo accompagna fino in fondo. Le imperfezioni passano comunque in secondo piano, glassate dalla presenza scenica trainante, come quando in Are You a Hypnotist?? il frontman si mette al collo una luce traballante, novello Diogene in cerca di una diversa umanità – preferibilmente schizzata, si direbbe.

A confermare la sensazione di rito collettivo arriva infine il dittico di chiusura che funge da bis, composto da Waitin’ for a Superman e Do You Realize??, in cui i testi intimi sono riposizionati dalla spensieratezza della musica. Coyne domanda agli astanti come stanno, poi conferma che è lì per cancellare i pensieri negativi, per cui non c’è spazio: il loro compito, dei Flaming Lips, è proprio quello di portarseli via. Così il concerto assurge definitivamente a rito catartico collettivo, in cui ci si svuota della leggerezza ingombrante del vivere. Un rito pagano, privo di sensi di colpa e soluzioni monolitiche, che parte dall’innegabile kitsch dell’apparato visivo per cortocircuitare le inibizioni e i paletti anche del più snob e cinico tra i fan.

Ecco perché vale la pena assistere a un concerto dei Flaming Lips almeno una volta nella vita, ecco perché ha ragione chi la considera un’esperienza live imperdibile. Non tanto per il pur gustoso contorno di scriteriati effetti speciali a sorpresa, ma per l’effetto shock che almeno per qualche ora fagocita le vibrazioni negative, canalizzandole verso un altrove post-fiabesco. Sarà anche un processo semplice – come ricordano le scritte ossessive “Love, Love, Love, …” lasciate a pulsare sugli schermi prima del bis  – ma è una semplicità complessa e necessaria che sta al cuore del rock, (neo)psichedelico o meno che sia.

The Flaming Lips

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Redazione Rumore
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