Intervista: The Divine Comedy

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the divine comedy

Di Francesco Vignani

Arrivato ai 47 anni, sotto sotto Neil Hannon sa che meglio di così probabilmente non gli poteva andare. Non tanto sotto un aspetto personale che qua interessa fino a un certo punto, per quanto le ultime lo diano da qualche anno felicemente accasato con la collega Cathy Davey in una villa nella campagna irlandese. Quanto, per quel che qua più conta, sotto il profilo artistico: un paio di segnali? Un pubblico non enorme ma fedele e affezionato, per cominciare. O il fatto che molti al posto suo – visto il ventennale di Casanova, suo album di maggior successo – avrebbero passato l’anno a dedicarvi il solito, lucroso giro d’onore, arrotondando con quel merchandising museale che invecchia tanto chi lo compra quanto chi lo vende.

Il leader dei Divine Comedy, invece, s’è rifatto vivo con un disco riuscitissimo come Foreverland, pienamente in scia con la grandeur orchestrale dei dieci che lo hanno preceduto eppure attraversato da una serenità fino a qua inedita. Doppiamente balsamica, dato il periodo: Hannon in fondo vive e respira un’Inghilterra morta e sepolta, se non nell’immaginario pop. Altro che Brexit: qua il clima è quello di The Crown più che di Black Mirror, a decifrare l’umore del disco facendo paralleli con serie tv d’oltremanica. Lavoro che magari non si allontana troppo dai precedenti, ma alzi la mano chi pretendeva ribaltoni: sempre il solito il mix, fra un po’ di coriandoli di Cool Britannia, del pop da camera e il consueto piglio da dandy incapace di prendersi troppo sul serio. Non un caso che ad esempio in Italia li coverizzino i Baustelle, fra i più british al di qua delle alpi. Come d’altronde spiegano benissimo il soggetto la cronaca dei sei anni passati dal disco precedente, Bang Goes the Knighthood. Dedicati a composizioni classiche come a un (improbabile quanto riuscito) progetto parallelo dedicato al cricket, The Duckworth Lewis Method. Lo abbiamo raggiunto al telefono di casa, in una pausa del tour che lo porterà a Brescia al Teatro Grande il prossimo 10 febbraio.

Cominciamo proprio da Foreverland. Sei anni di pausa non sono pochi: mancavano gli spunti, il nome Divine Comedy comincia a pesare o era solo voglia di fare altro?

Non è una questione di ispirazione, quella bene o male non mi ha mai abbandonato. Ho soprattutto bisogno di motivazioni forti prima di buttarmi in un nuovo disco e infilarmi di nuovo nel disastro che ne consegue. Alle spalle non ho un esercito di persone che mi aiuti, faccio praticamente tutto da solo, mi serve sempre una quantità enorme di energia già solo per iniziare a scrivere un altro album. Faccio altre cose, ho i miei progetti. E quello aiuta a rinfrescare le mie…come dire? Vogliamo chiamarle urgenze creative?

Non si sente questa fatica nel disco. Anzi, è probabilmente il tuo album più positivo, ottimista persino.

È sicuramente così, i miei dischi sono sempre positivi quando lo sono anche i miei sentimenti per la persona a cui è dedicato. Ma ovviamente, come sempre capita quando sei così felice, c’è anche parecchia apprensione! Scherzi a parte, lo definirei un lavoro molto sentimentale, sicuramente più del precedente. Penso che sia un aggettivo che bene gli si addice, è un album molto pieno di vita.

Catherine the Great è non troppo velatamente dedicata alla tua compagna.

È una canzone d’amore molto mal travestita da omaggio a un personaggio storico. Diciamo che neanche ci prova a essere un omaggio, ok? (ride, nda) Nel disco però ci sono anche altri riferimenti, a Napoleone ad esempio.

Ti sei scoperto appassionato di storia?

Mi interessa, sono sempre stato una persona curiosa. Se non avessi fatto questo lavoro sarei probabilmente diventato un archeologo, una cosa del genere. Non so bene perché la storia mi attragga tanto, forse è solo perché mi piacerebbe sapere come abbiamo fatto a finire in una situazione come quella odierna. Più studio il passato e meno sopporto le persone che non vi si dedicano: c’è un qua e ora e poi c’è stato tutto quanto è successo prima di noi. È inutile parlare di Brexit se continuiamo a ignorare tutte le mostruosità che vi ci hanno portato.

Tu ti sei comunque allontanato da un certo tipo di caos: come mai la scelta di andare a vivere in campagna lontano da Londra?

Io sono cresciuto qua in Irlanda, tornarci a vivere non mi è costato molto. E la vita di campagna si adatta meglio al mio temperamento rispetto a quella di città. Non sono uno molto socievole: diciamo che la gente mi piace, un po’ meno stargli attorno. A volte mi viene da ridere se penso a quanti si sentirebbero soli al posto mio, in un’enorme casa lontana dalla città e dai suoi comfort. Io invece passo tranquillamente due o tre giorni senza vedere nessuno, se proprio mi sento solo parlo coi miei cani. Vivere con la mia fidanzata aiuta ovviamente, solo che in genere lei è nei campi coi cavalli, i polli o i maiali. Per quel che ne so ormai potremmo avere pure delle scimmie!

Scelta di vita che rispecchia un po’ la definizione di aristocratico che spesso la stampa usa per te. I problemi nascono quando lo stesso aggettivo è ribaltato sulla tua musica?

È una definizione sciocca, davvero. La musica che scrivo deve piacere a me per primo, dev’essere un riflesso almeno decente di chi sono. È strano quando mi dicono che scrivo pop aristocratico. A me poi, che sono socialista da sempre. Posso capire che la mia musica non sia semplice, che mi si dica che nei miei pezzi capita parecchio, anche troppo. Semplicemente io apprezzo la complessità di certi arrangiamenti. È il mio modo di fare sembrare eroico il mondano, se vuoi.

Negli anni sono cambiate le tue influenze?

Col tempo cambiano, è inevitabile. Da teenager ero un indie kid, mi piacevano i My Bloody Valentine, i R.E.M. e i Pixies, solo crescendo ho iniziato a esplorare altri generi. Sono tuttora un grandissimo appassionato del pop inglese uscito fra il 1977 e il 1982, è stata una vera età dell’oro. Il post punk e la new wave andavano a incrociare il pop più puro: un periodo irripetibile, fantastico. Poi ci sono tutte le altre mie influenze: le canzoni francesi, i crooner, il cabaret. Tutte innegabili, mentre di recente ho iniziato a ascoltare moltissima classica. Vedi? Sono pieno di influenze, e più aumentano di numero e più è faticoso evitarle! Anche perché non è che solo perché un genere mi piace quello in automatico si trasforma in un bene per il mio stile.

C’è un disco dei Divine Comedy che ti rappresenta al meglio? Se dovessi tirare a indovinare direi A Short Album About Love.

Che è stato sì molto importante per, me ma non è il mio preferito: alla fine li amo tutti come figli, anche con tutti i loro orrendi difetti. Sono tutte perfette riproduzioni di me in un determinato momento, sono sempre stato molto fortunato in quello. Riflettono sempre i miei pensieri, i miei interessi. Anzi, alla fine quelli che hanno avuto meno successo sono proprio quelli in cui ero meno coinvolto da un punto di vista emotivo.

Casanova compiva vent’anni nel 2016: le offerte non saranno mancate, vero?

Ci ho pensato, ovviamente. Ma ci ho anche rinunciato subito: che fatica, dai. Avrei bisogno di un sacco di musicisti per suonarlo ora, e so già che a un certo punto mi sentirei in colpa nei confronti degli altri dischi. Non sono un nostalgico, soprattutto: so di aver avuto un picco nei Novanta. Vogliamo chiamarlo successo? Ok, ci sto. Ma è stato solo un passaggio nella mia carriera. Intendiamoci, adoravo essere una popstar ma sono anche molto felice di non esserlo ora.

Altri musicisti inglesi non sembrano avere ricordi altrettanto positivi degli anni del brit pop.

Sono ricordi confusi, più che belli. Ero sempre occupatissimo, non mi ricordo praticamente nulla. È una specie di nebbia, ma mica perché fossi sempre sotto effetto di alcol o droghe. Al contrario, sono andato a pochissimi party, ero già più interessato alla musica che ad altro: quando ti dicevo che non sono uno socievole intendevo dire che non lo sono mai stato. Mi sono divertito, certo. È stato eccitante e un bel po’ di sogni infantili – Top of the Pops? Dei singoli in classifica? – si sono avverati.

Come vedi al confronto la scena inglese attuale?

Non sono un grande fan, e sono diplomatico. Credo che il modo in cui l’industria musicale è andata avanti negli anni abbia dissuaso dal fare musica quei talenti che avrebbero scritto del gran pop: si occupano di videogiochi, probabilmente. Credo che molta della creatività sia ormai andata, nel settore: e siamo rimasti con dei tizi che vogliono solo vedere le loro orrende canzoni romantiche in uno spot. È tutto così orientato al mercato, è tutto terribilmente noioso.

Aiuterebbe se almeno fossero rimasti dei soldi…

Esatto, neppure quelli sono rimasti. Sarà per quello che sono diventati tutti così meschini?

Restano i tour, in pratica?

Sì, e stranamente mi divertono più ora che in passato. Ho imparato a rilassarmi, a godermi di più il cameratismo fra band e crew. Andare in giro per brevi periodi è uno spasso. Questo poi è uno show molto lungo, per la maggior parte la scaletta è fatta da brani degli ultimi due dischi e di contorno ci sono un po’ di pezzi vecchi.

Vedo foto di te in costume, intanto.

Certo, adoro travestirmi! In alcuni brani indosso un costume da Napoleone, lo spunto è ovviamente un pezzo come Napoleon Complex. Ma, visto che finalmente passiamo pure dall’Italia, vorrei tranquillizzarvi: non vi preoccupate, questa volta non ho intenzione di invadervi!

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