Hong Kong: Clockenflap Festival – 25-27/11/2016

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Foto di Kitmin

di Lavinia Siardi

DAY 1

Il 25 novembre è iniziato ad Hong Kong il Clockenflap Festival, rassegna di tre giorni che porta in scena nomi del calibro di Sigur Rós, M.I.A. e Chemical Brothers.

Avventurandomi tra gli immensi grattacieli che vanno diradandosi man mano che ci si avvicina al porto, arrivo all’ingresso dell’evento con un discreto anticipo rispetto all’apertura dei cancelli. Anticipo sufficiente a farmi incontrare i primi local, tra cui Wailun, bassista dei Fantastic Day, che si esibiranno il giorno successivo. Mi rendo conto nel giro di poco tempo che il Clockenflap è il festival della socializzazione, dove un improbabile melting pot si mescola con una naturalezza quasi insolita a bordo palco (e non in fila ai bagni o al bar, perchè fino ad ora il festival si è rivelato meravigliosamente senza code).

Otto palchi disseminati lungo il porto della grande metropoli asiatica, svariate installazioni artistiche e numerosi angoli dedicati allo street food, il tutto incorniciato da uno skyline mozzafiato, contribuiscono a costruire un’atmosfera gioviale e vivibile, rendendo la manifestazione piacevolmente fruibile ed esplorabile per tutti.

Comincio la mia esplorazione della musica autoctona con gli I see the light before our planet explodes, band post rock appena riformatasi che si esibisce con l’incredibile Chi Shing, violinista sperimentale dall’aura mistica che più che uno special guest sembra essere il protagonista indiscusso della performance. Droni taglienti e dalle tinte acide contribuiscono a creare un costante gioco di climax ascendenti e discendenti, assumendo a tratti un tono quasi marziale, specialmente quando entra in scena il cantante Nathan Lin, performer granitico e a tratti quasi inquietante. Un buon inizio.

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Ellen Loo – Foto di Kitmin

Mentre percorro tutto il festival per raggiungere l’Electriq Stage la mia attenzione viene catturata da Ellen Loo, nome storico del Cantopop (contrazione di Cantonese pop music) e metà del duo a17. Uno show solido, fortemente emotivo e dal sound compatto caratterizzano uno degli apici di questa prima giornata di festival. Nonostante l’artista canti in cantonese il sound che traspare è facilmente fruibile e interpretabile anche alle orecchie di un occidentale, e colpisce piacevolmente il forte affiatamento che intercorre tra la cantante di Hong Kong e i suoi musicisti. Questo interessante spaccato di folktronica mi fa rimpiangere non essermi affacciata all’Harbourflap Stage con più anticipo.

Proseguo verso l’Eletriq Stage dove so esibirsi Jimmy Edgar, aspettandomi una situazione simil-Boiler Room, con folle pressate, temperature tropicali e bassi aggressivi. Mi sbaglio di grosso: un paio di centinaia scarse di persone chiacchierano e accennano qualche movimento scoordinato mentre il producer di Detroit, visibilmente disinteressato, regala un set sì preciso e di classe, ma estremamente sottotono. La situazione migliora leggermente col passare dei minuti, ma inizio a rendermi conto di un’interessante fenomeno di cui avevo avuto già qualche conferma in Giappone: in Asia generi cerebrali o di nicchia come il free jazz, math rock e post rock vanno molto di più dei producer che tanto spopolano in Europa.

Ne ho la conferma quando arrivo dai BADBADNOTGOOD, quartetto canadese electronic jazz fresco dell’uscita di IV, e mi trovo di fronte a un pubblico pigiato e infervorato. Impeccabili e dinamici, al loro debutto ad Hong Kong i quattro di Toronto regalano un live preciso e coinvolgente, con una scaletta che alterna brani storici a quelli usciti quest’anno. Il pubblico conosce i pezzi e risponde prontamente all’invito di Alexander Sowinski, batterista istrionico, a partecipare attivamente ai pezzi, immergersi nel sound e lasciarsi cullare dal groove. Incorniciati dai grattacieli attorno al porto, che si tingono di mille colori con l’arrivo del buio, i BADBADNOTGOOD sanciscono ufficialmente l’inizio di un festival vibrante e fortemente metropolitano.

Prima dell’inizio degli headliner faccio una veloce capatina al KEF Stage, dove una folla pigiata assiste al finale dei TFVSJS, eroi locali della scena math rock dai volumi importanti e con due batterie sul palco. Vedo due ragazzine sulla quindicina twerkare con convinzione e realizzo che in questo primo giorno di festival ho visto persone ballare sui tempi dispari ma non sulla techno. A metà tra il perplesso e il divertito mi avvio verso il main stage, dove mi attende il gran finale targato Sigur Rós. Un live che va al di là di ogni aspettativa, altamente mistico e al tempo stesso a tratti incisivamente rock. Buona parte del Clockenflap si raduna in un grande abbraccio intorno al trio islandese, in uno spettacolo che ha un che di rito, arricchito da dei visual evocativi che contribuiscono a consegnare allo spettatore un viaggio onirico a 360 gradi.

Un concerto stereo avvolge l’ascoltatore, grazie a dei suoni perfetti e a delle dinamiche da un lato precise e misuratissime, e dall’altro esplosive. Lo spettacolo è sfaccettato come il prisma proiettato alle spalle dei musicisti, e non annoia mai, passando con disinvoltura dai momenti di coralità angelica a delle esplosioni graffianti e distorte che suscitano l’entusiasmo della platea, dove tra l’altro sventola discreta una bandiera islandese.

Lo show finisce, e la scritta Takk (“grazie” in islandese, anche titolo di un disco della band) che campeggia a fondo palco non lascia spazio a nessun bis, nonostante la folla continui a manifestare tutto il suo calore verso lo spettacolo appena concluso. Sono le dieci e mezza di sera, e mi avvio verso i gate di questo festival la cui buonanotte a orario di bambino mi lascia estremamente soddisfatta, curiosa di vedere cosa mi riserveranno i due giorni a venire.

clockenflapSigur Rós – Foto di Kitmin

DAY 2

Arrivo al secondo giorno di festival nel primissimo pomeriggio, con l’intento di esplorare le aree dedicate a ristorazione, intrattenimento e installazioni artistiche prima di avviarmi a sentire i Fantastic Day. Confermo l’impressione avuta il giorno precedente: il Clockenflap è un festival arioso, assai lontano dall’immagine di lunghe file e folle pigiate che mi porto dietro dalle mie esperienze europee. Ampie aree coperte ospitano i visitatori che, tra un concerto e l’altro, consumano i pasti acquistati ai numerosissimi stand di street food presenti, attenti ad ogni tipo di dieta e intolleranza e dall’offerta estremamente varia e gustosa. Tutti i pagamenti all’interno del festival, dalla birra al merchandise ai pasti, avvengono tramite un comodissimo chip ricaricabile incluso nel braccialetto che garantisce l’accesso alla manifestazione. Piccoli accorgimenti che contribuiscono a costruire un’esperienza fluida e godibile.

Passando accanto al Cinema Silenzio – versione cinematografica della più nota silent disco – e ad alcune installazioni artistiche – tra cui meritano essere segnalate Iteota, viaggio a 360° in una foresta attraverso gli occhi degli animali che la popolano, e Talk2Me, installazione sonora interattiva che invita i visitatori a condividere messaggi audio dai loro smartphone tramite una serie di giganti strutture a forma di corno – arrivo al KEF Stage, dove stanno per esibirsi i Fantastic Day, paladini dell’indie rock di Hong Kong. Mentre una discreta folla di autoctoni si raduna sotto palco, la band inizia un concerto storto e sgangherato ma dall’attitudine invidiabile. Dal sound è evidente come gli ascolti indie rock della band si affianchino ad alcuni dei classici, da Lou Reed a Bob Dylan, e le canzoni reggono bene, mentre il live con il passare dei pezzi si raddrizza sempre di più. Il pubblico risponde bene, e il concerto si conclude con una standing ovation per questi cinque rocker incoscienti e genuini che, in quanto a modi sul palco, mi ricordano i nostri Brian Jonestown Massacre.

clockenflap-2José González

Preparandomi ad avviare verso il main stage, dove sta per esibirsi José González, mi rendo conto che fuori dal tendone del KEF Stage sta imperversando il diluvio universale. Sfido la pioggia, che non sembra minimamente turbare i locali, per scoprire che, rispetto a come lo ricordavo dal vivo una decina di anni fa, ora González, dopo un primo pezzo in solo, si esibisce con tutta la band, regalando uno spettacolo ancora più elegante ed emozionante di come lo ricordassi. Alternando i vecchi cavalli di battaglia ad alcuni brani tratti da Vestiges & Claws, ultimo lavoro del cantautore argentino-svedese, González regala uno show impeccabile, dove ogni intervento di ciascun musicista è a servizio delle canzoni, proponendo un esempio di minimalismo virtuoso, delicato e convincente. Riesce ad emozionare un pubblico infreddolito e stretto sotto la vasta moltitudine di ombrelli, consegnando al Clockenflap un set di rara magia.

Mi sposto quindi verso l’Electriq stage, dove spero di trovare un’atmosfera diversa rispetto al giorno precedente. Apparentemente lo sconforto per la pioggia, l’euforia del weekend e la cassa dritta di Lone aiutano, e mi ritrovo immediatamente, nonostante l’ora pomeridiana, in un contesto da club: il pubblico pigiato sotto la consolle si muove a ritmo, qualche intrepido ascoltatore si lancia in complesse coreografie sotto la pioggia e il producer di Nottingham regala un set intenso, diretto e coinvolgente. L’impressione è che ci sia molta attenzione attorno al suo show, attenzione del tutto meritata: Lone conduce il dancefloor con naturalezza, scaldando finalmente uno dei palchi che durante il primo giorno aveva più stentato a decollare.

La pioggia continua ad imperversare fitta e persistente, le temperature si fanno decisamente rigide per gli standard di Hong Kong ma il festival prosegue con la sua line up senza particolari intoppi o ritardi, ricompensato da un pubblico che stoico sopporta il diluvio per affollare i diversi palchi della manifestazione. Decido di seguire la fortissima hype che circonda i London Grammar e tornare quindi al palco principale. Decisamente uno degli show più attesi del Clockenflap, la band, capitanata dall’eterea e glaciale, a tratti quasi elfica, Hannah Reid, offre un live raccolto e misurato, perfetto in tutte le sue sfaccettature ma alla lunga un po’ piatto e monocorde. L’estrema eleganza del set, impreziosita dalla presenza di un quartetto d’archi, a volte rischia di avere il sopravvento sull’immediatezza delle canzoni, ma il concerto nel complesso conquista il pubblico, che rimane ipnotizzato nonostante l’acqua, che ormai scende a secchiate.

Raccolgo le poche energie e soprattutto il poco calore corporeo rimasto per un’ultima capatina all’FWD Stage, dove si sta esibendo Blood Orange. Una distesa di ombrelli che si alzano e abbassano seguendo il groove dell’artista britannico mi fa ben presagire, e nel giro di pochi minuti pioggia, grigiore e freddo vengono scalzati da un live caldo e dall’attitudine funky di una band di altissimo livello, che si diverte e sa divertire gli ascoltatori. Dev Hynes si conferma un performer irresistibile, lanciandosi in balli sfrenati e saltando da una parte all’altra del palco mentre uno dopo l’altro i pezzi scorrono leggeri, divertenti e variegati, acquisendo pacca e consistenza rispetto alla loro versione su disco e aprendo degli spazi all’improvvisazione dei musicisti presenti, Hynes incluso. Rinfrancata dallo show più caldo e spensierato della giornata corro in ostello, sperando in un meteo più clemente per il giorno successivo.

clockenflap-3Blood Orange

DAY 3

Il terzo e ultimo giorno di Clockenflap viene premiato da un clima perfetto: non una nuvola in cielo, temperature miti e un’aria di festa pervadono il Central Harbourfront sin dall’apertura dei cancelli. Comincio la mia indagine domenicale andando a curiosare la performance del collettivo Fragrant Village, che riunisce sotto il suo nome diversi musicisti indipendenti provenienti dai New Territories. Una formazione in costante evoluzione consegna al pubblico, ancora poco numeroso ma estremamente attento, storie e tradizioni che rischierebbero altrimenti di scomparire. A metà tra musica pop e spoken word, complice una meticolosa spiegazione bilingue, lo spettacolo contribuisce a rafforzare l’impressione che al Clockenflap non si faccia solo intrattenimento, ma anche cultura.

Avendo deciso di dedicare la prima parte del pomeriggio all’esplorazione della scena locale, mi sposto quindi verso l’FWD Stage per il concerto dei More Reverb, band post-rock di Hong Kong dalla tecnica fastidiosamente perfetta ma efficace, che cavalcando diversi generi e continuando costantemente a ruotarsi agli strumenti contribuisce a creare un’atmosfera scura e notturna nonostante sia solo il primo pomeriggio e il sole splenda alto nel cielo. Passando da dei momenti che sfiorano il metal ad altri che accennano al math rock, con un occhio che costantemente guardi ai Mogwai come grande riferimento, i More Reverb regalano un bello show, solido e godibile.

Incuriosita dalla descrizione fornita dal programma del Clockenflap, mi avvio quindi ad ascoltare il live solo di Reonda, cantautrice nativa di Brooklyn ma pubblicata dall’autoctona Harbour Records. Si rivela subito essere una delle grandi scoperte di questo Clockenflap 2016: una voce a metà tra Kimya Dawson e Victoria Legrand dei Beach House, brani semplici, diretti e malinconici e un uso impeccabile della loop station contribuiscono a creare uno show ipnotico nella sua semplicità ed immediatezza. Testi agrodolci e un’attenzione particolare alle melodie fanno sperare che questa cantautrice dal sorriso sbarazzino possa presto andare lontano: le atmosfere sognanti, gli assoli storti e gli amori tormentati costituiscono una perfetta cornice ad un’attitudine sì lo-fi, ma emozionante e sincera.

Rimanendo in tema cantautrici, questa volta direttamente dalla Gran Bretagna, mi accosto al palco dove sta suonando Lucy Rose. Sorridente, esplosiva e spensierata, dialoga con il pubblico tra un pezzo e l’altro, raccontando che per lei e la band si tratta di un concerto speciale perché batterista e tastierista storici stanno per lasciare il progetto, il primo per dedicarsi full time ad Amnesty International e la seconda per coltivare a tempo pieno il suo progetto solista. I brani assumono forza e personalità rispetto ai dischi, e il pubblico supporta la minuta artista britannica con calore e affetto, lasciandosi trasportare nel suo mondo fatato e grintoso. Tra i pezzi più famosi Lucy Rose riesce anche ad infilare un inedito che uscirà con il nuovo disco: si tratta di un lento romantico e toccante, e l’emozione dell’artista è palpabile.

Cambiando completamente genere, mi sposto all’Electriq stage dove sta per esibirsi il francese Roscius. Il set promette bene: gong, maracas, campanelle e molti altri strumenti percussivi si affollano attorno ad un campionatore e svariati microfoni. Il tutto verrà usato magistralmente da William Serfass (vero nome di Roscius) nel costruire uno show basato sull’improvvisazione dai picchi musicali e compositivi di altissimo livello, ma mai cerebrale: la pista si infuoca velocemente, e alcuni degli spettatori vengono invitati come comparse sul palco, creando una fusione tra artista e pubblico che si trasforma immediatamente in una sorta di rito allegro ed energico. Una scoperta, probabilmente il live più originale e denso che ho visto al Clockenflap, premiato da una platea riconoscente e partecipe.

Rimango all’Electriq stage per gustarmi il set dell’eroina della scena DJ femminile di Hong Kong: Miss Yellow. Personalità eclettica e grintosa, gusto e tecnica impeccabili e soprattutto un’identità sonora e visiva fuori dal comune spiccano immediatamente all’occhio, e il dancefloor si infuoca con i ritmi martellanti proposti dall’artista, esaltati dai visual geometrici e lampeggianti proiettati alle sue spalle.

Concludo questa terza giornata di festival, a dir poco soddisfacente, dirigendomi al main stage per il live probabilmente più atteso di tutta la manifestazione: The Chemical Brothers. I volumi vengono finalmente spinti al massimo, gli schermi si inondano di colori e immagini esplosive e il duo-leggenda conclude il Clockenflap con un concerto a dir poco leggendario. Suoni taglienti e ritmi ossessivi conducono l’onda del pubblico in un’enorme, indimenticabile festa conclusiva. Festival promosso a pieni voti.

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The Chemical Brothers – Foto di Chris Lusher
Redazione Rumore
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