Intervista: Ryley Walker

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di Maurizio Narciso

È uno spirito libero, Ryley Walker. Si comprende dalla sua musica, trasversale ai linguaggi jazz, rock, blues, folk; dalle sue esibizioni dal vivo, in cui la componente di improvvisazione rende onore alla lunga tradizione dei musicisti jazz e noise di Chicago; e nondimeno dalle sue parole, dalle quali emerge con chiarezza la voglia di mettersi in gioco, di viaggiare e suonare in contesti diversi per esprimersi sì, ma soprattutto per ricevere risposte. Lo abbiamo incontrato per parlare del suo terzo disco solista, Golden Sings That Have Been Sung, uscito il 19 agosto. L’album allarga ancora di più il ventaglio delle sue soluzioni sonore, già più che apprezzabili nei due precedenti album Primrose Green (2015) e All Kinds of You (2014). Inoltre, opera una piccola, grande, rivoluzione: è partito tutto dai testi delle canzoni.

Ascoltando la tua esibizione dal vivo mi è venuto in mente un interrogativo, non saprei dire se la musica è più una forma di comunicazione oppure di arte, probabilmente entrambe le cose. Mi piacerebbe avere un tuo punto di vista su questo tema.

Per me la musica è prima di tutto un modo per esprimermi. Sono una persona molto riservata ma con quello che faccio riesco ad aprirmi agli altri, a comunicare le mie sensazioni. Poi, naturalmente, adoro viaggiare e poter incontrare persone diverse che vivono a centinaia di chilometri di distanza quando lavoro, perché di questo si tratta, in fin dei conti. Racconto le mie storie e quando qualcuno davanti a me le ascolta sono felice.

Pensi mai a come la tua musica viene percepita dal tuo pubblico? Ci sono sempre elementi espressamente messi in primo piano dal musicista, che sia in studio oppure dal vivo, ma c’è anche molto di non detto che suggestiona l’ascoltatore.

Ho capito cosa intendi. Posso dirti che io suono anche per ottenere risposte, non sono affatto un predicatore. Mi interessano molto le opinioni della gente, le cose che mi fanno intendere mentre mi esibisco o che mi dicono espressamente dopo il concerto. È come se io sia sempre alla ricerca di risposte e attraverso la musica prosegue questo processo di ricerca.

La tua geografia di provenienza, la città di Chicago in particolar modo, fornisce dei riferimenti culturali ed artistici ben precisi, seppur la tua sensibilità ti porta a comporre dischi personali che trattano il passato musicale, più o meno recente, solo come uno spunto di partenza. Può andare bene come istantanea sul tuo profilo?

Sì, direi che è ok. Riguardo a Chicago ci sono diversi elementi, non solo musicali, che ti condizionano, che fanno parte di me e di chi ci vive. Ci troviamo nel mezzo dell’America, non sulla costa come in California oppure New York, possiamo solo immaginare tutto quello che ci accade intorno…

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Intendi come sentire l’odore del mare senza vederlo.

Esattamente, bisogna avere molta immaginazione. Poi considera le bassissime temperature che abbiamo d’inverno, quando tutto ghiaccia. Fortunatamente ho molti amici, musicisti eccezionali con i quali esco a suonare tutte le sere. Sono loro la mia ispirazione principale in musica, non la mia collezione di dischi!

Sbaglio o il tuo suono è diventato nel tempo sempre più colorato e sfaccettato? Come se avessi preso coraggio ad esprimerti in maniera sempre più libera.

Oh, mi piace questa tua interpretazione. Effettivamente reputo Golden Sings That Have Been Sung come il primo album autenticamente “mio”, sono molto contento di com’è venuto. C’è dentro la mia voce, il mio punto di vista, non ci sono maschere, è il mio lavoro più compiuto. Sono molto fiero del risultato. Effettivamente è come se mi fossi lasciato andare completamente nella stesura dell’album.

The Halfwit in Me profuma di Canterbury. Per tornare al tema iniziale, è solo una mia suggestione?

No, no, hai ragione, ci sono parecchi riferimenti al Canterbury sound in quel pezzo. Durante la stesura dei miei due precedenti album ho sentito moltissima musica diversa, può succedere che alcune soluzioni ti rimangano in qualche parte nella testa e che vengano riprese anche a distanza di anni, in modo spesso inconscio.

Quanto contano i testi nella tua musica? Credo che abbiano un valore molto importante e quindi mi viene da chiederti se viene prima un suono oppure un concetto da voler esprimere.

È successa una cosa particolare in fase di scrittura dell’ultimo disco: per la prima volta ho cercato di essere un cantautore e non un chitarrista. Non credo sia necessario saper suonare la chitarra per scrivere bella musica. Adoro la chitarra, non voglio negarlo, ma questa volta mi piaceva essere un autore prima che un musicista e quindi sono partito dai testi, da quello che avevo dentro. Mi sono svegliato un giorno con in testa la frase Golden Sings That Have Been Sung, che poi è diventato il titolo dell’album e fonte di ispirazione. Ogni mattina mi appuntavo delle frasi su un foglio di carta e pian piano sono nati tutti i testi, solo dopo è arrivato il suono.

Per i tuoi precedenti album, quindi, partiva tutto dall’improvvisazione alla chitarra?

Sì, hai presente quando si strimpella con la chitarra cantando sopra canzoncine banali, beh esattamente così! Soltanto dopo rifinivo bene il tutto e davo un senso più personale ai testi. Suono la chitarra tutti i giorni, senza pensare alla composizione. Suono e basta, improvvisando. Le canzoni vengono fuori da sole, senza cercarle, come quando si perdono le chiavi di casa – è inutile girare e rigirare alla loro ricerca, riappaiono sotto i nostri occhi appena si pensa ad altro.

Ti sei preso un rischio cambiando l’approccio alla composizione, forse scrivere un testo su un pezzo che ha già un certo groove è più semplice rispetto ad adattare il suono alla parola. Anche se in questo modo hai messo più cuore nel disco.

Giusta osservazione, c’è più cuore che testa nell’ultimo disco. Inoltre, credo che prendermi dei rischi sia la parte più bella del mio lavoro. Mi capita spesso di suonare con gente che non conosco, può andare bene oppure male ma non importa, quello che conta è provarci, stare insieme e divertirsi. L’improvvisazione e il rischio sono fondamentali. Sono un grande fan dei Grateful Dead proprio per questo. Sono la rock band che improvvisa per antonomasia, ogni loro serata è diversa e un pezzo può durare 5 minuti oppure mezz’ora, fantastico.

Hai altri numi tutelari dei quali vuoi parlarci?

John Coltrane. Non serve aggiungere altro, è lui il migliore in assoluto.

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Sei in tour per presentare il nuovo album, nel frattempo hai già idee per un prossimo progetto o collaborazione artistica?

Quando suono non ho mai una scaletta pronta, le canzoni vengono fuori una dopo l’altra in modo del tutto naturale, quindi può accadere che improvvisi idee nuove che forse faranno parte del mio prossimo album. È un atteggiamento che fa parte di me, caratteristico della scena musicale di Chicago, che ti porta ad essere ricettivo e dinamico, a far parte di parecchie band e suonare tutti i giorni, di continuo. È importante essere sempre occupati. Quindi, seppur presento il mio nuovo album, non lo suono uguale a com’è sul disco, sarebbe noioso.

Quando capisci di avere in mano il materiale per un nuovo disco?

Ti dico la verità, a me interessa soprattutto suonare. Non penso alla registrazione di un nuovo album se non quando ricevo una telefonata dalla mia etichetta. Magari la prendono alla larga, mi chiedono come va, cosa sto facendo, e allora capisco che è arrivato il momento di dare loro qualcosa di nuovo.

Quando hai capito che saresti diventato un musicista?

Avevo 18 anni e alcuni miei amici già suonavano, mi convinsi che il college fosse completamente inutile e imbracciai la chitarra. Sentii il bisogno di viaggiare, di esprimermi attraverso la musica e allora dissi “fanculo ogni cosa, mi metterò a suonare.”

Un’ultima curiosità, se Ryley Walker non fosse un musicista cosa sarebbe diventato?

Un barbone, davvero, lo credo sul serio.

Ryley Walker suonerà dal vivo lunedì 28 novembre a Santeria Social Club, a Milano.

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