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Intervista: Suuns

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di Marcello Torre

Non sono molte le band capaci di amalgamare con successo opposti e contraddizioni: nei Suuns si uniscono luce e oscurità, rock ed elettronica, movimento e immobilità, silenzio più assoluto e rumore più assordante. La band di Montreal ha un’anima artistica che riesce ad annichilire con i suoni più cupi e le melodie più tenebrose ma allo stesso tempo mantiene un’energia più viva che mai grazie a ritmi che fanno pulsare le viscere dell’ascoltatore. Nati nel 2007 dal sodalizio inizialmente elettronico tra il cantante e chitarrista Ben Shemie ed il bassista e chitarrista Joe Yarmush, il gruppo canadese ha in seguito accolto il batterista Liam O’Neill ed il tastierista Max Henry, fino a firmare per l’etichetta Secretly Canadian nel 2010. Il primo album, Zeroes QC (il nome della band, “Suuns”, significa “zero” in lingua thailandese) è arrivato lo stesso anno coprodotto da Jace Lasek dei Besnard Lakes, ma il successo definitivo è coinciso con l’uscita del secondo disco Images Du Futur, uscito nel 2013 e prodotto dal solito Lasek, che li ha portati ad essere candidati al Polaris Music Prize. Nel 2015 hanno esplorato nuovi suoni e culture collaborando col gruppo Jerusalem in My Heart, progetto canadese-libanese che ha come proprio fulcro il musicista di Montreal Radwan Ghazi Moumneh: il risultato è stato l’album Suuns and Jerusalem in My Heart, 35 minuti di mescolanza tra sonorità del mondo orientale ed un’elettronica minimalista che tocca la drone music.

Hold/Still, ultimo lavoro uscito lo scorso 15 aprile, rappresenta una svolta: registrato a Dallas, in Texas, è stato prodotto da John Congleton, già producer di artisti come Modest Mouse, Black Mountain, St. Vincent e di fenomeni del calibro di David Byrne, Bono e Brian Wilson. La band lo ha definito il disco più rischioso: pur rimanendo fedeli al loro stile, Shemie e compagni esplorano un tipo di tensione diversa, basata sulle contrapposizioni che stanno alle radici della stessa band. Abbiamo incontrato il frontman per parlare di tutto ciò in occasione del loro concerto del primo novembre al Locomotiv Club di Bologna.

Iniziamo parlando di Hold/Still: dopo il successo di Images Du Futur cosa vi ha portato alla sua realizzazione?

Penso volessimo fare qualcosa di leggermente diverso: non abbiamo cercato di creare un nuovo suond, semplicemente di registrare in maniera differente. Abbiamo lavorato in una città differente (Dallas, nda) e con un altro produttore (John Congleton, nda), cosa che non avevamo mai fatto in precedenza: in ogni caso non volevamo cambiare direzione alla band o cercare un nuovo stile. Per molti versi questo è stato il nostro disco più impegnativo, il più difficile da realizzare, in parte perché ci siamo dati l’opportunità di non fare compromessi: John Congleton ci ha spronati a raffinare il più possibile il nostro sound e a sentirci liberi di fare qualsiasi cosa invece di soffrire alcun tipo di pressione.

Vi hanno influenzato in questo senso band o artisti in particolare?

L’ispirazione viene da moltissima musica elettronica: non ci siamo focalizzati solamente su questo aspetto, ma è sicuramente la parte che abbiamo curato di più rispetto al passato. Nell’album c’è meno basso elettrico e più synth bass, ma non posso dire che fosse qualcosa che cercavamo, è successo e basta. C’è anche più spazio per i testi: come cantante e compositore mi sono sentito più sicuro delle mie abilità e ho scritto molte più parole, anche grazie a percussioni e reverb più limpidi, e questo penso sia un ottimo sviluppo.

L’album è pieno di oscurità e suoni cupi: che emozioni ci sono alla base?

Il guardarsi dentro prima di tutto: non necessariamente dentro di me, non si tratta veramente di definire un te, un me o un io; sto parlando di un noi più generico, e penso che alla base ci sia un certo tipo di ansia. Quello di Brainwash in questo senso è probabilmente il testo più interessante; è il mio pezzo preferito del disco perché in qualche modo ne incarna lo spirito, a partire dalla chitarra che si alterna con suoni elettronici molto potenti, il tutto accompagnato da parole molto evocative che riguardano la mente ed il lavaggio del cervello. C’è un lato psicologico che fa di essa la canzone migliore per riassumere l’album.

In diversi brani ho sentito molto la contrapposizione tra la tensione di certi beat elettronici e atmosfere più distese: c’era da parte vostra una volontà di suscitare sentimenti contrastanti?

Non siamo mai stati veramente una band che ‘prova’ a fare qualcosa in particolare: per capire cosa va e cosa non va seguiamo solamente il nostro istinto. È in questo modo che solchiamo quella linea tra rock ‘n’ roll e musica elettronica, tra luce e ombra, ed è così che risulta quel tipo di tensione.

Com’è stato collaborare con i Jerusalem in My Heart l’anno scorso? Che genere di esperienza è stata?

Eccezionale: essendo tutti di Montreal siamo amici da molto tempo, ci conosciamo molto bene. Il progetto riguarda proprio il nostro essere amici e l’avere gli stessi interessi musicali: in tour assieme abbiamo passato un sacco di tempo nel furgone a discutere di musica. In generale è stata un’esperienza molto positiva, e la ragione per cui sono così fiero del nostro disco insieme – e per cui penso che suoni così bene – è perché non abbiamo avuto alcuna pressione, non abbiamo cercato di fare qualcosa. Abbiamo lasciato che tutto succedesse, impiegando parecchio tempo anche a causa dei nostri impegni, e quando tutto è venuto fuori è successo in modo molto naturale, senza aspettative. So che molta gente è venuta ai nostri show ed è rimasta delusa dalla collaborazione perché forse si aspettava solo un nostro concerto, ma sinceramente non me ne frega un cazzo (ride, nda). Ci siamo divertiti.

Avete altre collaborazioni in programma per il futuro?

Al momento non abbiamo altri collaboratori, non so ancora che strada prenderemo. Ora come ora sarei più interessato a collaborare con qualche visual artist, magari qualcosa di sperimentale che riguarda i film, oppure sound art, ma non necessariamente qualcosa legato al fare musica con altri artisti. Sarebbe bello comunque poter collaborare con un cantante di diverso tipo, magari una ragazza.

Quanto è importante la componente visiva nella vostra musica?

Lo è di default dal momento che facciamo video musicali, ma di certo è molto importante anche negli show e lo dimostrano i gonfiabili che usiamo dietro di noi: abbiamo cercato di fare qualcosa di assurdo e divertente al tempo stesso creando un contrasto tra la serietà della musica e questo bel vaffanculo visivo. In generale siamo sempre stati molto attenti all’immagine come componente e quello che ne risulta sono appunto i video, ma essendo il nostro un progetto primariamente musicale questo aspetto è sempre passato in secondo piano rispetto alla musica.

Ci sono altre band di Montreal o dei dintorni che seguite con interesse?

Sì, la comunità è piccola ma è anche piena di gruppi. Ce n’è uno che amo molto chiamato Big ‡ Brave: fanno una sorta di post-rock lento, con canzoni molto lunghe e oscure e direi che sono la mia band di Montreal preferita.

Qual è il significato del titolo di questo ultimo album?

Ci sono diversi significati. Uno di questi riguarda la copertina: la ragazza che compare – una nostra amica – è stata fotografata con una fotocamera con foro stenopeico: l’intero procedimento richiedeva che stesse ferma sulla sedia per alcuni minuti, perciò il titolo è anche un riferimento a questa immobilità (“hold still” significa letteralmente “tenere fermo”, nda). Un altro ancora riguarda il fatto che la musica dell’album si muove pesantemente, ed è come se ti dicesse “non muoverti”, il che costituisce una contraddizione. Infine Hold/Still è un ordine, un po’ come quello di un dottore: nello stile e nei testi del disco c’è un’attitudine a comandare, un senso di dominazione. Qualcosa che riguarda un noi che amministra e dice cosa fare.