Intervista: Minor Victories (Rachel Goswell)

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di Nicholas David Altea

Se non sapessimo da chi sono composti i Minor Victories, li avremmo considerati allo stesso modo? Forse. Una cosa è certa: il disco è una buonissima e intensa composizione che mette assieme varie anime di gruppi distillate in maniera differente; rimodulate facendo sì che nessuna travalichi l’altra. Travolti da un perfetto equilibrio zen, senza “prime donne”, da bravi fratelli e amici di lunga data. Così ha ragionato la band anglo/scozzese, formatasi a distanza, che ha composto il disco senza mai essere nello stesso studio. Un lavoro complesso di assimilazione e che ha necessitato di collanti vari per legare assieme diversi punti di vista, mai troppo lontani e mai troppo vicini. Se da una parte può essere un vantaggio aver membri di Mogwai (il chitarrista Stuart Braithwaite), Slowdive (la voce di Rachel Goswell) e Editors (la chitarra e gli effetti di Justin Lockey) con il supporto al basso del fratello, James Lockey, dall’altra può tendere a far storcere il naso e caricare di attese – spesso insensate – l’ascoltatore. I Minor Victories non sono uno di quei supergruppi o superband formati quando non si sa più da che parte sbattere la testa. Spesso quel nome così denso di ego non è sempre sinonimo di qualità. Non nascono di certo tutti i giorni nomi come Cream (Clapton-Bruce-Baker) o Crosby, Stills, Nash & Young, giusto per ripensare agli anni ’60. Alcuni poi assumono dimensioni più vicine a collettivi come i This Mortal Coil formati da Ivo Watts-Russell, Elizabeth Fraser (Cocteau Twins), Robin Guthrie (Cocteau Twins), Simon Raymonde (Cocteau Twins), Lisa Gerrard (Dead Can Dance) e molti altri, fino ai più recenti Broken Social Scene capitanati da Kevin Drew (KC Accidental) e Brendan Canning (By Divine Right, hHead, Valley of the Giants) insieme a Justin Peroff (Junior Blue), Charles Spearin (Do Make Say Think, KC Accidental) Leslie Feist – giusto per nominarne qualcuno. E se sentono la parola superband si irrigidiscono, e non poco, i BSS. Supergruppi che funzionano come fucine per band ancora più importanti: vedi i Temple of the Dog, fondati da Chris Cornell (Soundgarden) in onore dell’amico scomparso, Andrew Wood (Mother Love Bone). Là dentro c’erano già i pilastri di quelli che sarebbero stati i Pearl Jam: Stone Gossard (Green River, Mother Love Bone), Jeff Ament (Green River, Mother Love Bone), Eddie Vedder, Mike McCready, oltre al batterista Matt Cameron (Soundgarden), diventato poi batterista dei PJ nel 1998. Minor Victories è un nome che è di tutt’altro impatto rispetto a chi 7 anni fa esordiva sotto il nome di Monsters of Folk, composto da Conor Oberst (Bright Eyes, Desaparecidos), Jim James (My Morning Jacket), Mike Mogis (Bright Eyes, Lullaby for the Working Class) e M. Ward (She & Him). Un disco e poi nulla più. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, toccando esempi come i Fantômas di Mike Patton, the Dead Weather di Jack White, gli Atoms for Peace di Thom Yorke, fino ad una delle cose peggiori capitate: i Tired of Pony di Gary Lightbody (Snow Patrol), Richard Colburn (Belle and Sebastian), Iain Archer, Jacknife Lee, Peter Buck (R.E.M.), Scott McCaughey (The Young Fresh Fellows) and Troy Stewart che erano partiti benino e del secondo album, però, non se ne era capito il bisogno. Questo per dire che la matematica, in questi casi, serve a poco. Mettere assieme grandi musicisti non ti darà la certezza di avere di una superband di valore che è la sommatoria esatta di questi. Anzi, il rischio è di posizionarsi di molto al di sotto delle band di appartenenza e non aver nulla da comunicare. I MV esulano dall’aurea di supergruppo, come ci ha raccontato Rachel Goswell qualche ora prima di esibirsi all’Ypsigrock 2016, questa estate. E cosa quasi fuori dal normale, hanno qualcosa da raccontare, forse in maniera più drammatica e cinematografica delle rispettive band di appartenenza, ma la sostanza non latita ed tutta nell’album d’esordio omonimo uscito nel giungo 2016. Non sappiamo quanto dureranno, anche perché gli Slowdive stanno lavorando al loro primo album dopo più di vent’anni. Per ora ce li godiamo così, dopo un grande esordio in Sicilia e una seconda data autunnale, il 24 ottobre alla Santeria Social Club di Milano.

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(Photo Credit: Brian Sweeney)

Chi ha avuto l’idea di formare i Minor Victories e come si è sviluppato il gruppo?

Rachel Goswell: “Mi contattò Justin, tramite il nostro management. Abbiamo gli stessi manager per gli Editors e gli Slowdive, e mi ha mandato della musica, per vedere se mi interessava aggiungerci qualcosa.  La prima canzone sulla quale ho scritto è stata Out To Sea, e tutto ha avuto inizio lì, poi discutendone abbiamo deciso di prendere un chitarrista, quindi ho pensato a Stewart, che avevo conosciuto l’anno precedente e siamo andati d’accordo, in più è un ottimo chitarrista. Non credevo che l’avrebbe voluto fare, per dire la verità, era così diverso rispetto ai Mogwai, ma gli ho fatto sentire quel pezzo Out to Sea e lui ha accettato subito. Poi Justin ha fatto entrare il suo fratello James, che suona il basso e la batteria, e tutti hanno partecipato a scrivere un po’ sull’album”.

Minor Victories mi dà l’idea di un nome con cui mantenere un basso profilo.

R.G.: “Credo che abbiamo fatto un po’ apposta a scegliere un nome di basso profilo perché comunicavamo via email, ci mandavamo degli elenchi con scritte tante cose, ed è stato l’unico nome con il quale tutti siamo stati indipendentemente d’accordo. Credo che il basso profilo ci sia andato bene perché subconsciamente volevamo evitare di venire etichettati come supergruppo, con tutti i musicisti che c’erano dentro, anche se non ne ero consapevole finché non abbiano iniziato a parlare di noi. E poi credo che sia un nome che ci calzi bene come persone”.

Tu odi l’appellativo di “superband”, vero?

“Trovo che sia un termine che mi mette a disagio. Tutti intendono cose diverse per supergruppo, ed io so che veramente è solo un nome per descrivere la gente di un gruppo che viene da altri gruppi, ma mi mette a disagio. Sembra quasi di vantarsene. Non mi piace dire alla gente «siamo fantastici»”.

È strano parlare con te di una band che inizia da zero. Ma per te dopo aver iniziato con Slowdive e Mojave3, come è stato partire da zero con i Minor Victories?

“Un po’ sì, lo è, suppongo, ma è stato divertente, e poi non siamo partiti del tutto da zero, perché abbiamo potuto suonare nei festival, che i nuovi gruppi di solito non potrebbero fare, e c’è stato subito l’interesse della stampa. Sarebbe stato interessante, forse in un universo parallelo, capire come saremmo andati se avessimo iniziato tutti come sconosciuti con questo gruppo. Mi chiedo come saremmo stati visti, credo sarebbe stato diverso, forse uguale per quanto riguarda le recensioni, ma…”

E poi arriva Willis Earl Beal, che aprirà i live di stasera all’Ypsigrock. Indossa un cappello abbastanza importante. Dal backstage ci spostiamo in un’altra sala del ristorante cupa e tetra. Willis Earl Beal se la beve, alla nostra salute.

Come è stato lavorare così distanti, mandandosi le canzoni e affrontare questo tipo di processo così diverso da quelli a cui sei abituata?

“Non ho mai fatto un disco in questo modo ma ci è sembrato facile, ci scambiavamo i file audio e mandavamo il tutto a Justin, e lui metteva tutto assieme. Ci sembrava molto facile e molto naturale. Non c’è stata molta pressione. Nessuno di noi si è mai girato per dire ‘guarda che hai fatto una merda’ e quindi è filato tutto abbastanza liscio”.

È stato difficile mettere assieme delle personalità così forti provenienti da altrettante band di rilievo?

“No, per nulla!  Capisco che forse da fuori lo si potrebbe percepire così ma no, è stato molto facile, e credo che ci sia un sacco di rispetto reciproco fra di noi. Per noi è stato qualcosa di naturale e semplice, e so che suona molto strano, ma è stato facile”.

Nel suono generale le senti un poco le influenze di tutti e tre i gruppi?

“Il mio contributo vocale è abbastanza diverso rispetto ai Slowdive. Ci saranno elementi degli altri gruppi ma non credo che ce ne siano nel modo di cantare, forse per quanto riguarda la chitarra c’è un po’ di Mogwai. I Mogwai sono simili agli Slowdive, per certi versi.

È un momento particolare per il Regno unito dopo la Brexit. Qual è il tuo parere al riguardo?

“Credo che sia una cosa atroce.  Mi ha sconvolto, shoccato, e vedere l’aumento del numero di persone che sembrano pensare che sia accettabile essere apertamente razzisti è abominevole, fa schifo. Io vengo da un paese piccolo del Devon, e ho amici che hanno votato a favore della Brexit. E ne parliamo razionalmente, perché hanno i loro motivi che non c’entrano con la faccia e la voce del Brexit che sentiamo. Ma non volevo che ce ne andassimo, i miei amici intimi idem. Ho paura che tanti di quelli che si erano informati male si pentiranno della loro scelta, chiederanno di votare di nuovo. Si tratta di una cosa senza precedenti, ma alla fine il governo dovrà affrontarla in qualche modo, vedremo cosa succederà, ma sì, è deprimente”.

Nella canzone For Your Always c’è la voce di Mark Kozelek (Sun Kil Moon / Red House Painters). È una sorta di dialogo tra voi due. Parla del vostro rapporto di amicizia. Chi ha avuto l’idea di mettere assieme questi pensieri molto intimi?

“Ha fatto tutto Mark, dovresti chiedere a lui.  Si tratta di un dialogo intenso che parla dei 20 anni che ci conosciamo e le cose che sono successe.  La storia è molto concentrata di Mark e Rachel, suppongo. Mark ha scritto tutto il testo”.

C’è un passaggio del testo che mi ha colpito e dice: You were still the Crazy Koz from the CMJ That winter. Hai qualche aneddoto legato a questo?

“Con i Mojave 3, c’è una canzone su una b-side di non mi ricordo quale nostro disco, Crazy Koz (ndr l’album è Excuses For Travellers), e l’ha scritta il batterista, Ian, e abbiamo scritto una canzone un po’ divertente, irriverente, carina su di lui. Lui ne era al corrente. Il CMJ è questo enorme festival a New York. Eravamo a NY quando c’era lui, quindi è un riferimento di nuovo ai Mojave 3″.

Scattered Ashes (Song for Richard) con James Graham dei Twilight Sad suona davvero rilassata, ma il testo è di tutt’altro tenore.

“La canzone parla di qualcuno di nome Richard che ho conosciuto in un pub con il mio fidanzato, ci voleva offrire di bere. Sua moglie aveva perso un bambino 3 settimane prima, e quel giorno erano andati a prendere le ceneri del cadavere, dovevano decidere che farne… parla di quello”.

Il video è geniale. Chi ha avuto l’idea dei gatti invasori?

“Il video è dei Lockey Brothers. Per Justin e James è una specie di omaggio ai Beastie Boys…”

Ho notato che, sia la cover del disco, che i video, virano tutti su tonalità di grigio oltre al bianco e nero.

“Hanno fatto tutto James e Justin.  Adesso gli piglio per il culo, “ah anche questo vuoi colorare di grigio, James?”  Non so perché lo fanno, queste cose in bianconero, fa parte di, boh, dovresti chiedere a loro, suppongo che sia molto lineare e semplice, fare le cose in bianconero, ha un effetto drammatico, e può accompagnare i video in modo diverso. I testi non accompagnano molto i video, sono completamente diversi, ma mi piace la semplicità con la quale sono stati girati”.

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Il brano Higher Hopes, invece, ha un significato speciale per te.

“L’ho scritto su mio figlio. Ha avuto un intervento a cuore aperto all’età di 5 mesi, aveva il cuore come un noce, era piccolissimo, la canzone parla di lui e parla di quel momento e tutte le emozioni coinvolte. Adesso ha una visita di controllo ogni anno e per anni io e suo padre aspettavamo per capire se avrebbe avuto bisogno di altri interventi, quest’anno dopo i vari test abbiamo scoperto che non ne ha bisogno, e che il suo cuore funziona meglio di quanto non si pensasse all’inizio. Una canzone molto positiva, l’ultima che abbiamo scritta, l’ho finita alle 18 di capodanno, l’ho registrata e poi sono andata al pub ad ubriacarmi”.

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