Intervista: Blonde Redhead

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Blonde-Redhead

di Maurizio Narciso

Blonde Redhead, sono stati e continuano ad essere una band impossibile da comprendere o, semplicemente, da raccontare, senza scomodare il termine universale “libertà”. È una parola che perseguono fin dai loro esordi, a livello stilistico, di ricerca e di espressione, e non è un caso che questa ricorra spesso nell’intervista che segue, concessa da Amedeo Pace nei giorni che anticipano il loro nuovo mini-tour in cui suoneranno per intero il loro Misery Is a Butterfly, uscito nel 2004 (le date sono in fondo all’intervista). Si parla di passato, presente e futuro, della formazione, in modo candido, entrando in punta di piedi nel loro peculiare mondo compositivo.

Se penso ai Blonde Redhead mi viene in mente prima di tutto il termine “punk”, non tanto dal punto di vista musicale ma piuttosto dell’attitudine. Siete stati e continuate ad essere sfuggenti eppure fedeli ad una sorta di libertà artistica totale. Può andare bene come istantanea sul gruppo?

Questa cosa di cui parli è sempre stata molto importante per noi, non ci siamo mai sentiti controllati da un’etichetta o da un produttore, siamo sempre riusciti ad esprimerci come volevamo, come ci sentivamo nel momento di crescita o in quello dei cambiamenti. Certo, siamo anche bene attenti a quello che accade, ci pensiamo molto a quello che facciamo, anzi ti direi che mi piacerebbe sentirmi ancora più libero di così, anche come attitudine verso la musica, come espressione, ma è molto difficile da portare avanti questa cosa, o fa parte di te oppure no. Siamo molto cambiati dall’inizio, questo è vero, ma come scriviamo, come suoniamo, come intendiamo il nostro lavoro rimane tutto un po’ come all’esordio e di questo siamo lieti.

Un altro aspetto che mi piacerebbe approfondire è la vostra “geografia esistenziale”, forse ancora più sfumata di quella artistica. Siete due fratelli italiani cresciuti in Canada e una giapponese, che vivono a New York. Credo che l’essere in qualche modo apolidi in musica vi abbia aiutato a non essere legati a nessuna scena artistica, a guardarvi dentro anziché attorno. E’ così?

Sì è vero. E poi siamo anche molto diversi l’uno dagli altri e questo ci ha spinto ancora di più a guardare dentro di noi. Quando si hanno dei conflitti di interesse, di gusto, anche di emotività, con persone con le quali si lavora, si tende a riflettere di più su quello che per te è davvero importante, su cosa vuoi esprimere. Un altro aspetto che ci caratterizza è legato alla capacità di suonare, nessuno di noi è un estroso dello strumento, non siamo quelli che prendono la chitarra, cantano e suonano in pubblico tranquillamente, siamo molto chiusi e abbiamo creato un nostro stile di espressione ben preciso proprio per funzionare dal vivo, per avere un senso, per sentirci a nostro agio ed andare al cuore delle cose a cui teniamo. C’è sempre una ricerca quindi, concentrata su di noi e non a quello che c’è intorno.

Agli esordi veniste frettolosamente associati al suono dei Sonic Youth. Immagino da un lato l’onore del riferimento, ma dall’altro anche un po’ di frustrazione, no?

A dire il vero, a me non dava troppo fastidio, mentre a Kazu sì. Quindi abbiamo smesso di parlarne alle interviste, a non rispondere alle domande che ci ponevano circa le nostre influenze e se ci ispiravamo ai Sonic Youth. Anche nelle recensioni si facevano continui paragoni, ma poi è iniziato a succedere sempre meno. Io ero abbastanza tranquillo perché convinto che stavamo sviluppando un nostro stile, una nostra maniera di espressione musicale e vedevo che con i dischi nuovi eravamo davvero difficili da paragonare ad altri gruppi.

Mi parli del vostro disco del 1995 La mia vita violenta, dedicato a Pasolini? Mi piacerebbe sapere com’è nato, ad oggi rimane uno dei dischi più intensi della vostra discografia.

La mia vita violenta è stato un disco molto importante, anche dal punto di vista sonoro, perché con esso abbiamo intrapreso un percorso ben preciso, ci sono gli accordi che ci piacevano, il modo di suonare le chitarre come volevamo, Kazu ha iniziato a suonare proprio in quel periodo, è un album con dei pezzi più personali e introspettivi. Anche ascoltandolo adesso, seppur ci sono alcune soluzioni immature o passaggi non propriamente a fuoco, è un disco che mi piace, con pezzi che vorrei scrivere ancora oggi. Riguardo Pasolini, quello era un periodo in cui eravamo molto appassionati del suo cinema e, ancora di più, della sua attitudine. Siamo stati ispirati da lui e da Godard, dalla loro espressività, da come utilizzavano la musica nei loro film, da come potevano essere rozzi in un momento e romantici in un altro, senza aver paura di essere estremi in una maniera o nell’altra. Trovo che la loro sia stata un’espressione del tutto naturale, inconscia quasi, molto punk-rock. Ci volevamo sentire liberi come loro.

In occasione dell’uscita, nel 2000, di Melody of Certain Damaged Lemons, che conteneva soluzioni sonore meno aspre del passato, dichiaraste che eravate semplicemente alla ricerca del bello in musica. Mi piacque molto questa affermazione. Vale ancora oggi, vero?

Non ricordo bene chi di noi disse questa cosa, forse Kazu. E comunque sì, è questo il nostro mestiere. Ancora oggi cerco il bello in musica, sopratutto quello più nascosto, che magari viene da un mondo che non conosco. Non avere il controllo su qualcosa ti permette di esplorarne il senso in modo diverso. Per esempio alcuni accordi possono venire fuori da situazioni non previste, oppure ripensando ad alcune vicende della mia infanzia… non è facile da spiegare. Posso dire che vedo molti gruppi che cercano di fare delle cose belle e poi, invece, vengono fuori delle robe abbastanza false. Ecco, per me è sempre stato molto importante capire cosa sia il bello e cosa possa anche funzionare. Magari un incastro tra due idee dissonanti però belle, non per forza un bello oggettivo.

Seppure la bellezza sia, inevitabilmente, in continuo divenire, c’è un momento nella vostra carriera in cui credi di esserci arrivato veramente alla tua, personale, concezione di bello?

Insieme a Kazu e Simone stiamo scrivendo materiale nuovo ed io, in particolare, negli ultimi giorni sto lavorando ad un pezzo che ha accordi molto belli, con una melodia bellissima. In questo momento la ritengo fantastica, ne sono entusiasta. Magari vivendoci assieme le cose cambiano, si possono provare delle emozioni che poi svaniscono. Queste sono cose che purtroppo accadono quando si scrive musica e quando si sta davvero su un pezzo, all’inizio può piacere e poi, magari, comunque stancare. Le cose più belle per me, quelle che rimangono, sono gli errori, gli incidenti, le cose che succedono tra noi e che non ci aspettiamo per via delle diverse personalità. Chiaramente poi ci sono pezzi che mi piacciono più di altri – per esempio ieri stavamo provando Anticipation, che è uno dei miei nostri pezzi preferiti e quando la ascolto o la suono sento molta emozione. Non è una cosa che succede spesso, perché a distanza di anni alcune sensazioni si stemperano, invece quella canzone la sento ancora toccante.

Tra poco risuonerete dal vivo per intero Misery Is a Butterfly. Cosa si prova a fare un’operazione del genere? Non è mai facile tornare sul luogo del delitto.

Sarà un’esperienza strana, sopratutto perché è un periodo in cui sento la voglia di registrare materiale nuovo, di esprimere cose diverse, dunque sarà insolito tornare indietro e sentirci come ci si sentiva un tempo. Oggi siamo sicuramente delle persone diverse e ci aiuterà nell’esecuzione l’aver aggiunto un quartetto d’archi. Eseguiremo l’album in un modo nuovo, sentiremo una nuova spinta dovuta agli arrangiamenti inediti. Poi vorremmo suonare almeno un pezzo di quelli nuovi, o magari un paio, e questa piccola parentesi di libertà ci da ulteriori motivazioni.

Con 23, per la prima volta, è attivato il termine “pop” ad accompagnare le varie definizioni della critica. Come avete reagito?

Io non leggo mai le recensioni. Simone lo fa un poco, mentre Kazu le legge per bene e le analizza, se la prende quando qualcosa non viene capito oppure è molto felice se trova una rispondenza con quanto fatto. Quel disco è stato scritto in modo abbastanza veloce, abbiamo cercato un atteggiamento più diretto, volevamo essere naturali e non impelagarci troppo nei dettagli come può accadere. Poi, di fatto, abbiamo comunque speso del tempo per rifinirlo al meglio, anche in fase di mix con Alan Moulder che ci ha assistito, e su disco si sente. Riguardo al pop, a cui certa critica ha iniziato a fare riferimento… diciamo che non ci siamo mai curati di far piacere le nostre cose agli altri, quanto piuttosto di scrivere canzoni belle che soddisfacessero noi per primi. Le nostre ispirazioni hanno sempre avuto a che fare con la libertà e la naturalezza nella scrittura. Recentemente mi piacciono molto i Deerhunter e i Grizzly Bear, formazioni che hanno suoni delle volte inaspettati, un’attitudine trasformista tra il concreto ed il sofisticato.

Come nasce un disco dei Blonde Redhead? Semplicemente dalla voglia di suonare insieme oppure vi date dei tempi per sviluppare le idee singolarmente.

In genere io lavoro con Kazu su pezzi appena abbozzati o su idee generali. Quindi vado a casa sua, dove c’è una tranquillità diversa da quella della sala prove. Si inizia così, poi tutti e tre assieme iniziamo a suonare e a condurre queste idee all’interno di un discorso più ampio. È la fase in cui Simone lavora sulle sue parti e sviluppiamo il suono come una band. Quindi in principio ci sono semplicemente alcuni miei accordi e tutto ciò che a Kazu viene in mente ascoltandoli.

I Blonde Redhead e l’elettronica: da Penny Sparkle in poi la curiosità riguardo alle macchine si è ampliata, o sbaglio?

Sì, è così. In Penny Sparkle abbiamo lavorato con dei produttori molto concentrati sull’elettronica ed è stata un’esperienza particolare. Abbiamo vissuto un periodo un po’ conflittuale ma anche molto stimolante. E’ un disco che mi piace perché ha un bel suono ma è anche molto strano, direi diverso dai nostri canoni tradizionali.

Siete dei perfezionisti in studio oppure per voi vale il “buona la prima”? Oppure, magari, una via di mezzo.

Direi un po’ tutte e due le cose. È accaduto per esempio che Kazu abbia cantato su un pezzo e che quella sul disco sia la prima registrazione in assoluto. Altre volte succede di lavorare per ore ed ore ad un brano, e quindi di non uscirne fuori con naturalezza. In teoria ci piacerebbe essere sempre molto diretti e naturali, meno attenti ai dettagli, ma non accade sempre.

Puoi darmi una manciata di titoli di vostri pezzi che credi siano stati fondamentali per la storia del gruppo?

Girl Boy, che è l’ultima traccia del nostro primo album, è stata divertente da scrivere e da registrare, a casa con un 4 piste a cassette, ed ha ancora un suono ed una qualità incredibile. Per me non è invecchiata per niente e mi affascina ancora molto. Su La mia vita violenta c’è Down Under, che è uno dei pezzi che reputo fondamentali per il gruppo, per l’espressione, la melodia, gli arrangiamenti, per tutto. Su Fake Can Be Just As Good c’è Bipolar, che quando la ascolto reputo ancora molto valida. Mi piace ancora moltissimo Distilled, che ho cantato io, suona ancora nuova e chiara. Poi c’è This Is Not, che ero convinto fosse il pezzo più pop mai scritto, contiene dei passaggi molto belli per me. Anticipation, ogni volta che la sento provo molta emozione. Dr. Strangeluv, My Impure Hair, 23, ma anche Silently: sono canzoni molto libere. Su Penny Sparkle è difficile, forse Black Guitar, mentre su Barragan mi piace molto The One I Love per come l’ha cantata Kazu, con una voce stupenda e molto naturale.

Un’ultima domanda: c’è un luogo che esercita su di te una grande fascinazione e che ti ispira anche solo a pensarci? Una sorta di casa dell’anima.

Non so come mai, ma fin da bambino sono affascinato dai torrenti. Ho sempre voluto avere una casa accanto a un fiume oppure a un ruscello, con magari l’acqua che scorre tutto l’anno. Mi piace la natura, in senso più generale, quindi l’aria, il vento, la freschezza della mattina presto. Mi piacerebbe avere uno studio dove creare, scrivere, registrare immerso nella natura. Prima o poi credo che cercherò di farlo. In mezzo alla natura mi sento più libero, diverso.

I Blonde Redhead suoneranno Misery Is a Butterfly per intero nelle seguenti date:

17/7 Fiesole (FI) – Teatro Romano
19/7 Pescara – Spazio Aurum
21/7 Milano – Teatro CRT
22/7 Gardone Riviera (BS) – Anfiteatro del Vittoriale
23/7 Roma – Cavea dell’Auditorium Parco della Musica
25/7 Rimini – Corte degli Agostiniani

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