Festival Moderno: la rivoluzione del pop è passata per Milano

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di Tommaso Tecchi ed Elia Alovisi / foto di Starfooker, tranne dove segnalato

Tra le polemiche che hanno inaugurato questo 2016 una delle più accese ha coinciso con l’annuncio della line up del Primavera Sound di Barcellona. La tesi era quella che quasi tutti i programmi dei maggiori festival internazionali stanno diventando una sorta di cimitero degli elefanti, con ospiti – seppur di spessore, sia chiaro – già visti e rivisti durante gli anni e non proprio all’apice della carriera (se non addirittura riesumati per l’occasione). Questo accadeva alla fine di gennaio; da quel momento fino all’arrivo dell’insopportabile caldo milanese c’è stato però chi ha accettato la sfida, cercando di proporre format diversi e capaci di spiccare non solo tra i confini nazionali, ma anche di diventare un esempio da esportare. Club to Club, dopo l’ambizioso festival torinese, ha deciso di sfruttare la dinamicità di Milano; prima con un evento primaverile che ha portato in Lombardia artisti come Arca, Animal Collective, Babyfather, GFOTY e Powell, e poi con la prima edizione del Festival Moderno. Come si evince dal nome, con quest’ultima rassegna C2C ha deciso di rompere in modo netto con quei tabelloni pieni di nomi-salvagente che se da una parte possono garantire il sold out, dall’altra lo fanno spesso a discapito del divertimento e dell’unicità dell’esperienza.

Il leitmotiv della serata è quindi il pop moderno, etichetta dopotutto non così scontata come potrebbe sembrare, che racchiude tutte le nuove correnti presenti in quella fetta di scena underground che più si avvicina alla musica popolare mainstream (o viceversa, se preferite). Dentro questo grande contenitore ritroviamo così una rapper taiwanese (Aristophanes), un rapper transgender (Mykki Blanco), un duo tamarrissimo che usa i libri al posto delle percussioni (Sofi Tukker), due giovani cantautrici di casa (L I M e Giungla), una delle menti di PC Music (Danny L Harle) e ovviamente i due headliner Blood Orange e Grimes. Riflettendoci, quelli che abbiamo incontrato al Circolo Magnolia giovedì sera sono effettivamente i maggiori esponenti di un nuovo pop, aperto alle influenze più disparate (la musica asiatica ricopre qui un ruolo fondamentale) e ad un pubblico quanto mai eterogeneo. E bisogna ammettere che il tutto ha funzionato al meglio: i presenti hanno apprezzato e si sono divertiti, nonostante sui tre palchi del festival non si stessero esibendo i migliori musicisti del pianeta.

(TT)

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(foto di Tommaso Tecchi)

Grimes

Se pensiamo a quella del Festival Moderno come ad una missione, nessun ambasciatore sarebbe adatto quanto Grimes, ospite più atteso della serata. Claire Boucher non si esibiva in Italia dal 2012 e dall’ultima volta che è passata da queste parti la sua carriera è mutata radicalmente. Durante i tour successivi all’uscita di Visions, l’artista canadese ha portato sul palco quello che di fatto era il lavoro che svolgeva in studio: in solitaria, con un paio di tastiere e di campionatori e con la stessa aria che si ha dopo cinque tazze di caffè per riprendersi dal jet lag. Bisogna riconoscere che quel lato DIY ai limiti dell’amatoriale aveva il suo fascino, e d’altronde Grimes non ha mai nascosto i suoi limiti tecnici. Quello a cui abbiamo assistito giovedì al Magnolia è stato invece un concerto radicalmente diverso.

Innanzitutto va precisato che in questi anni l’artista ha fatto di tutto per riuscire a farsi riconoscere come pop star, dopo il rifiuto di Rihanna – a cui aveva offerto il suo brano Go – e le critiche di chi la preferiva ancorata ad una scena che ormai non le apparteneva più. Art Angels è stata la sua rivincita e sembra quasi che il suo tour serva più a promuovere questo senso di rivalsa che il disco in sé. Claire arriva sul main stage accompagnata da due ballerine e dalla sua collaboratrice Hana, che si è esibita da sola qualche ora prima e che a seconda dell’occorrenza si trasforma in corista, chitarrista e ballerina. L’unica altra ospite sul palco è stata Aristophanes, arrivata insieme alle prime note di SCREAM. Il concerto scorre liscio, con Grimes che si dimena – senza però nascondere un po’ di emozione di fronte ad un pubblico che probabilmente non si aspettava l’avrebbe accolta così calorosamente. Ai brani dell’ultimo disco (Laughing and Not Being Normal, REALiTi, Flesh without Blood, Venus Fly, World Princess part II) si alternano i singoli dei lavori precedenti come Genesis. Oblivion è iniziata con una falsa partenza: al momento in cui tutti i fan stavano per iniziare a saltare l’artista ha sbagliato base, ma il tutto è stato semplicemente rimandato a pochi istanti più tardi. Go viene presentata con queste parole: “so che a molti questo brano non piace, però è il mio preferito”. Il concerto si conclude tra le grida di Kill V. Maim. Grandi assenti l’ultimo singolo CaliforniaVanessa, estratto da Darkbloom.

A parte qualche sbavatura qua e là l’esibizione di Grimes è stata decisamente coinvolgente, anche se l’impressione è che questa versione live dell’artista sia una fase di transito tra il fai-da-te degli esordi e una performance pop più completa. La Boucher che abbiamo visto a Milano passava senza sosta – anche durante un solo brano – dalle tastiere alla chitarra e alla parte frontale del palco con solo microfono, e di conseguenza è stato difficile inquadrare quale fosse il ruolo della ragazza a livello puramente strumentale. Come del resto ha recentemente ammesso in un’intervista rilasciata al sito di Ableton, un ruolo fondamentale durante le sue esibizioni dal vivo è giocato dagli effetti e dal lavoro dei suoi tecnici (oltre al supporto di Hana per gli arrangiamenti), che sopperiscono alle piccole mancanze di una performer che in ogni caso riesce a trasmettere la sua arte anche solo ballando davanti al pubblico.

(TT)

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Blood Orange

La modernità, nella musica di Dev Hynes – o Blood Orange, non sta nei suoni: quelli sono tutti debitori del funk, del soul e dell’R&B dei Settanta e degli Ottanta, attraversati sporadicamente da lampi di melodie post-indie rock nella concezione più brit del termine, organizzati con un approccio cantautoriale. Sta invece sia nella scrittura testuale che nella lucida consapevolezza delle logiche di retromania che, ciclicamente, rendono di nuovo fighi e contemporanei approcci ormai non-fighi da decenni. Declinazione fisica di tutto ciò è Freetown Sound, il suo nuovo album e terzo con questo nome: una narrazione altamente personale attorno all’identità africana nella società occidentale di oggi unita a una serie di suggestioni su questioni di genere, parità di diritti, violenza della polizia e razzismo. Il tutto, dalla prospettiva di un Sierraleonese nato a Londra ed emigrato a New York City.

Insomma: Festival Moderno è un festival palesemente LGBTQ-friendly. Però, mentre la maggior parte dei musicisti che ne calcano i palchi lo palesano o nella loro apparenza o nei loro suoni iperrealisti, vitalmente esagerati, gioiosi, Dev esprime il potere sociale e inclusivo della sua musica tramite le parole: e allora è un po’ triste rendersi conto che una frase come “Questo concerto è dedicato a tutte le persone che hanno perso la vita negli ultimi giorni”, in riferimento in particolare agli omicidi di Philando Castile e Alton Sterling, cada nel vuoto: non ci sono applausi, né grida di approvazione. Allo stesso modo, un dialogo come “Vi piace ballare?” “YEEEAAA!” “Bene, ma non me lo state dimostrando!” un po’ lascia la morte nel cuore, a vedere come tutti si scatenavano dopo con Grimes.

Che poi son questioni di gusto, ci mancherebbe: ma penso che il nostro ritardo linguistico-culturale sia una palla al piede che tuttora ci impedisce di godere appieno della varietà semantica e sonora dell’agglomerato splendidamente informe che la musica è arrivata ad essere oggi. Il set di Dev è impeccabile, costruito quasi interamente attorno a brani di Cupid Deluxe – forse per non straniare un pubblico ancora poco abituato al neonato Freetown Sound. Se la scelta permette al pubblico che è effettivamente lì per lui (“Quando finisce questo venite?” leggo sullo schermo del cellulare di una ragazza di fronte a me) di divertirsi con i brani che ascolta da anni, al contempo proporre brani decisamente energici come Best to You o Hands Up sarebbe potuta essere una scelta vincente.

L’impressione che Hynes lascia è, di per sé, splendida: una band che fila liscia, una capacità di alternare momenti di pura, distensiva melodia tra brevi assoli di sassofono e intrecci di tastiera a divagazioni funk in cui il nostro lascia la chitarra da parte e si dedica solamente a cantare e ballare con il buon Michael Jackson nel cuore. Sarebbe però bello, in un mondo utopico, che l’attenzione che diamo alla parte lirica della musica cantata in italiano venga riservata anche a chi viene da un’altra nazione. E forse ci sarebbero state più persone pronte a ballare, e applaudire, e prendersi bene.

(EA)

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Mykki Blanco

Che cosa fai se sei in ritardo fottuto per il tuo concerto, dato il tuo DJ ha dimenticato in albergo la chiavetta con su le basi dei tuoi pezzi e il traffico delle 18 di Milano non è certo facile da affrontare per il povero runner di turno? Decidi di abbandonare totalmente il palco, e quindi le distinzioni tra performer e pubblico, per lanciarti in un’esibizione viscerale, sanguigna, anarchica, in cui le assi del palco sono cemento e non c’è bisogno di un’asta del microfono – come dimostra la foto qua sopra.

Il concerto di Mykki Blanco è stato, scusate la frase fatta, breve ma intenso. Il rapper transgender ha valicato qualsiasi barriera linguistica semplicemente immedesimandosi nel messaggio dei suoi testi: “sii libero, sii te stesso, piaciti chiunque tu sia e stai tranquillo, ché se qualcuno ti dice che hai qualcosa di sbagliato sta dicendo il falso”. Non serviva capire le parole di High School Never Ends per comprenderne la sensazione, bastava vedere Mykki ballare, sudato, in mezzo al pubblico per poi arrampicarsi sul precario palchetto del Magnolia. Il suo nuovo, secondo album arriverà a settembre: speriamo che ripassi dalle nostre parti, e che la memoria del suo DJ non lo tradisca.

(EA)

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(foto di Nicholas David Altea)

Danny L Harle

Finiti a notte inoltrata i concerti è arrivato il momento dei DJ set. Tutti quelli che non se ne sono andati dopo il live di Grimes (sfortunatamente non tantissimi) si sono spostati verso il second stage e stanno già ballando, quando arriva dietro la consolle il buon Danny L Harle. Il producer è un ragazzone che sorride sempre, con gli occhiali e una felpa con su scritto “HUGE DANNY” (slogan che ritornerà regolarmente anche come sample tra un brano e l’altro). Oltre ad essere tutto ciò Harle è anche uno degli artisti che stanno a fondamento del collettivo PC Music. Per capire l’importanza che ha la presenza dell’etichetta al Festival Moderno bisogna capire innanzitutto cos’è PC Music, ma la risposta non è molto semplice da trovare.

Quello che sappiamo è che nel 2013 una dozzina di producer londinesi capitanati da A.G. Cook ha invaso Soundcloud con dei brani ultra pop, con una pesante base elettronica e un uso spropositato di voci femminili pitchate verso l’alto. Il singolo che ha provocato la curiosità generale del pubblico internazionale è stato Hey QT di QT, una sorta di video promozionale per un energy drink chiamato appunto DrinkQT. Questo fatto ha portato a due domande: QT è davvero un’artista o è un personaggio fittizio costruito dai produttori del collettivo? Ma soprattutto, la clip è un video musicale o una pubblicità di una bevanda? Per confondere ancora di più i suoi interlocutori PC Music ha solo in seguito messo in vendita la bevanda DrinkQT. Intanto il brano ha raggiunto anche XL Recordings, che ha collaborato alla distribuzione del singolo.

Il 2015 è stato un anno fondamentale per la crescita del collettivo, che dopo essersi esibito per la prima volta al completo al SXSW di Austin, ha pubblicato la sua prima raccolta PC Music Volume 1 e ha annunciato di aver firmato per una major, ovvero la Columbia. La prima uscita per l’etichetta statunitense è stata non a caso il Broken Flowers EP del nostro Danny: produttore che, come ha raccontato in un’intervista sul nostro numero di marzo, viene da una formazione musicale classica e ha iniziato ad occuparsi di elettronica solo per divertimento. E se magari a livello lavorativo questo approccio naif è stato limato per necessità, è fortunatamente rimasto intatto nei suoi set. Durante l’intera esibizione Huge Danny è sembrato infatti divertirsi come un bambino, tra i brani degli artisti di PC Music (soprattutto Hannah Diamond), le sue hit più conosciute e remix improbabili. Wrecking Ball di Miley Cyrus su tutti.

(TT)

Redazione Rumore
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