Intervista: Leo Pari

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leo pari

di Antonio Belmonte

L’amore sconsiderato per il Lucio Battisti più melodico e sintetico a cavallo tra ‘70 e ’80, la nostalgia di un’infanzia scandita dai telefilm di fantascienza e dai cartoni giapponesi, la compassione per una città, Roma, che sta agonizzando sotto gli occhi di tutti, il crollo dei valori tradizionali, l’assuefazione collettiva al terrore e alla malvagità, il menefreghismo e l’insensibilità, il disincanto che ci riempie gli sguardi di fronte alle macerie del mondo – come dei novelli Candido di Voltaire – e la potenza didascalica del POP come privilegiata chiave di narrazione della quotidianità, perché, in fondo in fondo, “i cantautori sono i depuratori della società”.

Di questo, e di molto altro ancora, abbiamo parlato con il cantautore romano Leo Pari, a poche settimane dall’uscita di quello Spazio – suo quinto album in studio e terzo di una trilogia iniziata con Rèsina (2011) e proseguita con Sirèna (2013) – che ad oggi incarna senz’ombra di dubbio una delle migliori uscite di questo primo semestre del 2016. Un disco che pur cibandosi di citazionismo spinto e retrofuturismo ottantiano non cade nella trappola del cantautorato revivalistico o nel ginepraio dell’emulazione più celebrativa, palesando invece un personalissimo lavoro di tessitura melodica, un approccio filologico nella scelta dei suoni e un irresistibile piglio radiofonico che già lo hanno reso un classicone con 35 anni di ritardo!

Una bella chiacchierata, dunque, con l’esponente più nostalgico della scena romana proprio alla vigilia di un ballottaggio rovente per la carica di Sindaco della Capitale, nella speranza che, a prescindere dal vincitore, la Metro C possa finalmente “avvicinare la gente, il futuro e il presente della metropoli”.

Cominciamo doverosamente dalla tua ultima creatura. Spazio ha raccolto quasi ovunque riscontri lusinghieri, peraltro tutti abbastanza concordi nell’affibbiarti una gratificante discendenza battistiana e nel riconoscere come il tuo vero talento consista, alla fine, nel non avere minimamente snaturato né la tua identità né l’eredità dello stesso Battisti. Ecco, insomma, perché tra tanti proprio il buon Lucio?

Intanto perché è stato il più grande in Italia, l’unico che ha saputo portare il suo sound a un livello competitivo con quello internazionale e che ha dato un’importanza assoluta agli arrangiamenti, alle ritmiche e alla scelta degli strumenti da utilizzare nelle canzoni. Nei ’70 il cantautorato italiano suonava un po’ tutto uguale, grandi contenuti nei testi e messaggi molto impegnati per carità, ma il sound era sempre modesto e poco curato, anche le grandi produzioni RCA erano abbastanza di maniera. Invece Battisti, e con lui tutta la scena progressiva italiana, aveva ben chiaro in mente dove mettere le mani, ha avuto la possibilità e la capacità di sperimentare pesantemente, trascendendo la semplice forma canzone (penso ad Anima latina per esempio). Al di là della mia grande ammirazione nei confronti di Lucio, credo di avere una vocalità che in qualche modo si avvicina naturalmente alla sua come timbro ed estensione, forse per puro caso, o forse perché lo ho ascoltato tantissimo negli anni formativi dell’adolescenza, non saprei. In ogni caso non mi dispiace per nulla questo tipo di accostamento.

Peraltro il tuo Battisti di riferimento – non ne hai mai fatto mistero – è quello più melodico e sintetico a cavallo tra ‘70 e ’80. Mi chiedo, a questo punto, se quello più ermetico e panelliano sia finito nel tuo cestino di Windows.

Scherzi? I cinque album bianchi di Battisti-Panella, e aggiungo anche E già scritto a quattro mani con la moglie Grazia Letizia Veronese sotto lo pseudonimo di Velezia, sono degli album stratosferici, di avanguardia assoluta, li adoro. Rappresentano la sfida che Battisti ha voluto lanciare alla sua stessa immagine di musicista inattaccabile e colosso della canzone nazional-popolare, personalmente li trovo di una modernità esaltante. Tra tutti il mio preferito è L’apparenza, dove grazie anche ai testi incredibili di Pasquale Panella, si crea un’atmosfera equivoca, surreale e a tratti lisergica, che poggia su una base melodica e armonica davvero raffinata, con un utilizzo voluto di cacofonie e passaggi di accordi molto azzardati; le canzoni rimangono tuttavia, come quasi tutte quelle musicate da Battisti, belle, orecchiabili, cantabili addirittura. Un capolavoro.

Entriamo nel merito del tuo nuovo album. Per quanto Werther racchiuda, secondo me, il testo più bello del disco è su una strofa della La fine del mondo che vorrei soffermarmi: “arriverà la fine del mondo ma non ci stupirà”. So che potrà fregartene il giusto ma è esattamente ciò che mi ripeto anch’io da qualche anno a questa parte: brutto a dirsi ma tale è oggi l’assuefazione al male e alla distruzione che persino di fronte all’annientamento del nostro pianeta riusciremmo a fare spallucce. In questa canzone potresti passare come l’incarnazione pop del Candido di Voltaire.

Devo essere sincero, mi hai costretto a ripassare la trama del Candido di Voltaire, e in effetti sì, trovo delle analogie tra il punto di vista che ho nella canzone La fine del mondo con l’atteggiamento di ironico distacco che ha il protagonista del romanzo, che attraverso una satira apparentemente leggera e spensierata critica pesantemente la politica e la società europea del XVIII secolo. È così, siamo abituati a vedere di tutto, orrori di qualunque genere, sempre di più, guerre, stragi di innocenti, attentati, sparatorie a freddo durante un concerto, aerei abbattuti, potrei continuare per molto, e allo stesso tempo in questa parte di mondo siamo abituati anche ad avere tutto: musica e film gratis, automobili che ci stanno avvelenando, carte di credito, istruzione, ristoranti, sanità e così via. Lungi da me la bacchettoneria, ma stiamo veramente perdendo, anzi abbiamo perso totalmente e da un po’ di tempo, il senso e il valore della vita; a questo punto nulla ci può più sorprendere, tutto passa e ci scivola addosso, il meccanismo della storia ci sta divorando, il mondo potrebbe effettivamente finire da un giorno all’altro, ma questo non ci ucciderà, perché siamo degli insensibili.

A proposito di valori che crollano hai mai pensato che con quel “Ave Maria piena di graffi” potresti ingraziarti i consensi del Vaticano un po’ come accadde a suo tempo con Dio è morto, nonostante la censura all’epoca della DC. In Ave Maria parli, appunto, del crollo dei valori tradizionali. Quali esattamente? E per colpa di chi?

Per Ave Maria vale lo stesso discorso fatto per La fine del mondo, ma qui il punto di vista è soggettivo, parlo della mia infanzia e della mia adolescenza. La mia formazione scolastica è stata dalle suore prima, e dai preti poi, fin quando in terzo liceo ho capito che se non passavo a una scuola pubblica sarei esploso. Però la materia la conosco bene, e i primi a riempire di graffi un’icona come la Madonna sono spesso proprio gli addetti ai lavori, che strumentalizzano e fanno gioco sulla fede delle persone. Allo stesso tempo la religione, non solo la nostra, è stata il motore di tante guerre, o meglio, è stata spacciata come motivazione principale di alcuni atti bellici, per coprirne le vere cause e per circuire le menti più semplici. Quindi questa Maria non è altro che un simbolo, il simbolo della spiritualità, non per forza di orientamento cattolico, che da troppo tempo manca o viene bistrattata.

Stavo pensando che se dalla gestazione kafkiana della Metro C di Roma sei riuscito a tirarci fuori un’analisi spietata, a tutto tondo, del cittadino italiano medio non oso immaginare cosa potresti inventarti traendo spunto dalle vicende di Mafia Capitale.

Un tempo scrivevo canzoni molto politiche con un linguaggio molto diretto e, diciamo, esplicito. La politica oggi mi interessa ancora, ma preferisco parlarne passando per altre strade, attraverso dei simboli, magari raccontando una storia d’amore, che è uno degli atti politici più forti che conosca. In fondo La metro C è un attacco proprio all’incapacità del nostro sistema politico di portare a termine e per bene una cosa normale e necessaria per una città come Roma, appunto una nuova linea di metrò, ma come è spiegato tra le righe di questa canzone, se non iniziamo a cambiare noi, tutti, per primi, avremo poco da lamentarci contro il Comune, la Regione e lo Stato.

Ma davvero Roma si merita un calvario così inglorioso?

Certo che no, ma è difficile raddrizzare un tronco che è rimasto piegato per 100 anni.

Una battuta telegrafica sui candidati a sindaco?

Il nuovo sindaco di Roma per me sarà come Dio: non ci credo, ma ci spero.

Torniamo alla musica: strada facendo hai progressivamente allentato il piglio autobiografico degli inizi. Spazio in tal senso sembra rappresentare il colpo di grazia, no? Zero intimismo e quintali di disincantata quotidianità Pop, peraltro melodicamente ammiccante e filologicamente inattaccabile.

Vero, con Spazio ho cercato di uccidere il cantautore che è in me, ho provato a nascondermi dietro le canzoni, lasciando che fossero queste a parlare al posto mio. Anche la scelta di una copertina così astratta, anonima per certi versi, non è casuale. Mi sono divertito a fare la voce fuori campo, il narratore di alcune storie, e questo secondo me è la vera chiave del Pop, ossia la possibilità di trasformarsi come un attore ed interpretare tanti personaggi diversi. Il cantautore ci mette la faccia, parla sempre e solo di esperienze personali, invece l’artista Pop ci mette la maschera, e racconta storie che magari neanche ha vissuto in prima persona, ma ha rubato in giro, forse origliando conversazioni di sconosciuti o semplicemente immaginando di vivere vite di altri.

Sei consapevole che se Spazio fosse uscito la bellezza di 35 anni fa avrebbe avuto tutte le carte in regola per sgomitare in classifica con gente come Baglioni, Venditti, Sorrenti, Tozzi ecc? Ma oggi che le classifiche neanche esistono più?

Ci ho pensato tantissime volte a come sarebbe stato vivere e scrivere negli anni in cui ancora esisteva una discografia. Chissà, forse a quei tempi non avrei avuto neanche la possibilità di registrare un album, oppure avrei potuto realizzare guadagni molto importanti, chi può dirlo? La cosa certa è che questo sistema di aver reso gratuita ogni opera musicale e cinematografica sta verosimilmente massacrando il sistema; canzoni che fanno centinaia di migliaia di views su YouTube o su Spotify alla fine vendono pochissimo, le sale dei cinema sembrano città superstiti a catastrofi nucleari, insomma, non va mica bene.

Tra citazionismo sparso e retrofuturismo ottantiano non hai mai avuto paura di incappare nell’agguato del cantautorato revivalistico?

Era una delle possibili trappole, me ne rendo conto, però Spazio secondo me prende alcune suggestioni sonore tipiche del periodo a cavallo tra i ’70 e gli ’80 come riferimento di partenza, per portarle poi da un’altra parte. Con Sante Rutigliano, co-produttore artistico dell’album insieme a me, abbiamo lavorato molto con sintetizzatori d’epoca, ma anche con tecnologie attuali che ci hanno permesso di sperimentare tantissimo durante la costruzione degli arrangiamenti. Paradossalmente il sound di questo album parla più di me rispetto a quanto non facciano i testi, perché ho cercato di ricreare il suono della mia infanzia, quello che usciva da una piccola televisione che trasmetteva solo telefilm di fantascienza e cartoni animati giapponesi.

Due parole due sul tuo progetto San La Muerte. Lo hai archiviato definitivamente?

Mi fa piacere che tu me lo chieda, perché quando uscì San La Muerte nel 2009 non ci ha filato quasi nessuno. Evidentemente l’esperimento di fare un southern rock cantato in italiano deve aver fatto poca presa sulla critica di allora, ma il progetto non è mai stato ufficialmente concluso. In realtà avremmo anche molto materiale su cui lavorare per un nuovo disco, e non è escluso che un giorno torneremo a fare del sano rock’n’roll due chitarre, basso e batteria senza tante sofisticazioni, anzi adesso che ne scrivo sento un certo prurito.

Il disco, il libro, il viaggio, il film e la persona che ti hanno cambiato la vita.

Il disco: Fetus di Franco Battiato, è stata la prima vera scelta musicale ragionata che mi ha poi introdotto al mondo della musica prog e psichedelica.
Il libro: Pensieri così di Vincenzo Cerami, una tra le menti più brillanti del secolo scorso.
Il viaggio: l’interrail che ho fatto nel ’96, nell’estate dopo il quarto liceo, mi ha insegnato molto.
Il film: Blade Runner, emotività cibernetica.
La persona: un po’ me l’hanno cambiata tutte quelle che ho avuto la fortuna di conoscere finora.

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