Editoriale 292: Conoscere gente sul treno

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di Rossano Lo Mele

In pratica: vivo da pendolare sulla linea ferroviaria Torino-Milano. Andata e ritorno, quasi tutto il santo giorno, come diceva quella vecchia canzone di Ivano Fossati. Da un po’ di anni ormai. Il che ti permette di osservare la palingenesi di una società. Tipo: l’ingresso della telefonia mobile. Come le persone reagiscono ai cambiamenti, alla tecnologia, come questa accarezza, blandisce la quotidianità. Poi: sul treno si conosce gente, come da titolo di questo pezzo. Come da titolo di una meravigliosa e spero indimenticata canzone degli Amari di qualche anno fa. Quindi, da sillogismo, si deduce che spesso sul treno s’incontra gente che usa il telefono. Tutti usano il telefono. In treno, in metropolitana. Nessuno legge più o quasi, resta qualche donna tenace in metro sulla linea verde M2, a Milano, così a naso. Tutti usano uno smartphone. Per socializzare e ascoltare musica. Ogni tanto si capisce cosa ascoltano (gli Amorphis, Calvin Harris). Più spesso no. Si isolano, in modo da non conoscere gente sul treno. Poi persistono gli obsoleti che ti leggono il giornale. Ne incontro uno.

Sta di fronte a me su un regionale, ma con il corridoio in mezzo. Sto sfogliando una copia di “Rumore” per evidenziare gli errori residui non emersi in sede di controllo bozze. Distinto uomo sui 50, completo blu. Si sporge, mi fa: scusa posso dare un’occhiata? Certo, gli dico. Dopo due pagine sfogliate mi dice: pensa te, esce ancora “Rumore”!? Gli dico: beh, non metterla giù così dai, ci lavoro. Ah sì, risponde? Continua. Io sono amico di Giorgio Valletta, andavo sempre a casa sua, a Torino. Giorgio, come no, dico io, una delle nostre firme principali. Scrive ancora, domanda? Beh sì, rispondo io, anche parecchio. Se non ti spiace allora mi avvicino, così parliamo un po’. No, no fai pure, dico. Sinceramente incuriosito. Siamo al cospetto del numero di marzo 2016, quello col quarantennale del punk in copertina. Comincia a sfogliare il giornale: trova l’intervista a Bob Mould. E mi fa: pensa te, ancora suona Bob Mould!? Eh sì, ciancico io. Va avanti: legge la storia del punk, Glen Matlock, Don Letts. Sogghigna indicando le pagine. Ma quando arriva alla recensione dei James sbotta: ma ci sono ancora i James!? Hanno fatto un disco nuovo, appena adesso, rintuzzo io. Mentre l’uomo di fronte – che scoprirò essere un ingegnere, area commerciale – mi racconta della sua passione per la new wave, gli ’80 e i ’90 penso a un recente fatto di cronaca. La settimana d’uscita dell’ultimo disco, i James hanno conteso in Inghilterra il primo posto nella classifica di vendita ad Adele. Adele. Addirittura, l’asfaltatrice seriale delle classifiche. Gli anonimi, invecchiati, dimenticati, provinciali, eterni secondi James (tralascio il fatto, anzi lo scrivo, che per me Laid del ‘93 è uno dei dieci dischi più intensi della storia del rock). Com’è potuto accadere ciò? Semplice: i giovanissimi comprano i giovanissimi (qui come altrove), ma chi è cresciuto con quella musica continua a ritenere “vera” teologicamente la musica della sua giovinezza. Così ecco che i fangosi, attempati James nel periodo giusto si giocano la loro carta, con la complicità dei fan di sempre. Ma io ho smesso, mi dice l’ingegnere, io non seguo più. Quindi nella sua pur evoluta e cortesissima testa, non seguendo più lui, quel mondo è morto.

Capita a tanti di pensarla così. Molti hanno la sagoma di quelli che si lamentano dei necrologi, nel rock soprattutto. Ecco: io penso che la questione sia biologica, tutto qui. C’è poco da lamentarsi e da fare i fenomeni: il rock, decenni fa, era una cosa giovane. Nato nei ’50, esploso nei ’60, ci ha sempre fatto conoscere – fino a un paio di decenni fa – gente che era appena diventata adulta. Negli anni 80 i Beatles erano finiti da appena un decennio, per capirsi. Oggi non è più così. Quei musicisti affiorati decenni fa, sono diventati vecchi, altri maturi. Alcuni muoiono, è normale. Altri – come i James, o Bob Mould, lunga vita a entrambi – incidono dischi. Una volta hanno chiesto a Roger Daltrey degli Who quando avrebbe smesso: lui ha risposto: perché devo smettere? La musica è la mia vita, ho ancora voce e voglia di esibirmi, perché dovrei mollare? Già. Vero che l’immobilismo sociale (specie nella musica) blocca l’ascesa e l’affermazione del nuovo (materiale buono per un altro editoriale che ho in testa: da Capitani Coraggiosi a Calcutta). Ma uno come Johnny Cash ha trovato la sua voce più profonda solo in tarda età. Se muoiono in tanti, è solo perché biologicamente sono arrivati al capolinea, molti proprio per l’anagrafe. Erano in tanti a suonare, sono in tanti ad andarsene e a farcire i necrologi, poche storie. Gli altri che resistono: fanno dischi, tra l’altro. Puoi lamentartene, meglio, sorprendertene solo perché non segui più? Perché l’età adulta implica l’abbandono di sciocche, effimere pulsioni giovanili? Al binario ci salutiamo: mi dice ciao, e che riprenderà a comprare “Rumore”. Ma ovviamente io, Bob Mould e i James sappiamo benissimo che non è mica vero.

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