Londra: Alex G, i concerti DIY e la cultura delle warehouse

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alex g

di Elia Alovisi

Nella mia esperienza musicale ho potuto toccare con mano il concetto di concerto DIY meno di quanto avrei voluto. L’unica opportunità per farlo a Cremona, dove sono nato, era il CSA Dordoni: un capannone marcio a dir poco lungo una delle vie più grigie della città, completamente ricoperto di graffiti e di cui ricordo vividamente il calciobalilla (che solitamente chiamo fubolino, ma non so se si dice in giro per l’Italia) più splendidamente lurido a cui abbia mai giocato. Ecco, una tradizione del Dordoni è il concerto dei Cripple Bastards, e una versione di me molto più giovane e metallara di quella attuale andò a vederli assieme ai Brutal Truth in quello che resta uno dei concerti più incazzati che abbia mai visto. Fino a quel momento le mie esperienze concertistiche consistevano principalmente nel farmi scarrozzare da mio padre fino all’Alcatraz di Milano o a recarmi spavaldo all’Arena Parco Nord di turno per uno di quei bei mega-festival RUOCK che siamo così bravi a organizzare (/ironia). Quella sera era stata sporca, viscerale, improvvisata e genuina.

brutal truth[Una foto del concerto dei Cripple Bastards di cui sopra, via]

Qualche anno dopo, mi trovo a Milano e riesco a vivere il colpo di coda di una cosa chiamata Dauntaun di cui potrebbero parlare con più cognizione di causa persone che l’hanno vissuto appieno. Per la mia esperienza, il Dauntaun è “solo” uno scantinato del Leoncavallo con giardinetto disastrato annesso dove sono passate leggende dell’HC, post-HC, punk, emo et similia in uno dei momenti più esaltanti della scena milanese. Ci andai solo dopo essermi preso visceralmente di quella-roba-lì, avere visto per la prima volta i Fine Before You Came e i Gazebo Penguins in una simil-festa di paese a Bussero dal nome “Reggae Rock Festival” (brrrrr) ed essermi recato all’ultima edizione dell’AntiMTVDay all’XM24 di Bologna per trovarmi di fronte i La Quiete, i Raein e l’ultimo concerto di sempre dei Laghetto. Senza troppa retorica e tagliando corto: è stato un momento di importante crescita personale e forse la prima volta in cui mi sono sentito parte di una “scena” senza limitarmi però a fare solo parte di essa. E la chiusura del Dauntaun fu un momento che a me passò relativamente sopra dato che l’avevo vissuto davvero poco – ci vidi solo i Loma Prieta, e i RVIVR con i Verme (c’è anche un video di me che canto Va tutto malone mentre va via la luce se volete cercarlo su YouTube). Ma per molti, che c’erano dall’inizio, fu la fine di qualcosa di bello, autoprodotto e genuino, sostituito poi da altri spazi che però non ne hanno riacquistato l’epicità.

Morale: il concerto DIY, la band che suona nel capannone, il cantautore che ti fa il set senza palco in una casa occupata restano sempre esempi piuttosto fulgidi della bellezza della semplicità e dell’arrangiarsi. È un tema così sentito, in chi lo adotta pienamente, che può diventare soggetto poetico – spesso identificandosi nel culto del “basement”, dello scantinato. “Getting wasted with our friends / In a basement with some bands / that we don’t even know” cantano i Dowsing all’apice della loro Amateur Cartography, e così canta anche chi va a vederli in giro per il mondo nel basement di turno. Oppure, con ironia, i Joie de Vivre se ne escono con un “Potrei andare a scuola in Minnesota e ripagare il mio debito tra vent’anni / Ma preferisco restare in uno scantinato ad Akron, Elkhorn o Kansas City” in una canzone che si chiama Quel tizio ha una vita deprimente.


[Come fai a guardarlo e non dire VIVA L’AMATORIALITÀ dai]

Poi sono venuto a Londra. E mi sono progressivamente reso conto di quanto la cultura della warehouse, del capannone, abbia ancora senso e forza in una città sacrificata all’altare della gentrificazione (diversi approfondimenti interessanti a riguardo qua). In primis lo ha avuto per la club culture locale lungo tutti gli anni Novanta, ma per evitare di intavolare discorsi troppo ampi ci concentreremo sulla musica-con-le-chitarre – ma solo perché questo pezzo deve parlare di Alex G che, nonostante abbia suonato dieci giorni fa in un pub e con tutti i crismi sabato sera in un locale storico come il KOKO assieme a Basement (nome perfetto, tornando al discorso che facevamo prima) e Tigers Jaw, ha suonato anche la sera di giovedì 12 febbraio. E l’ha fatto in una warehouse disastrata, propriamente chiamata Unit G (qua su StreetView), nel mezzo della teoricamente poco raccomandabile Hackney Wick. Per entrare c’erano i biglietti, come a un concerto “tradizionale”, probabilmente per evitare che i proprietari di casa si vedessero arrivare un’orda ingestibile di gente. Ma costavano 5 sterline ed erano biglietti virtuali su DICE, una fantastica applicazione che permette di vendere e comprare biglietti all’interno dell’app senza pagare spese di commissione. Il che significa 1) metterlo in culo, sterlina dopo sterlina, ai colossi del mercato quando la cosa è applicata ai normali concerti, il che fortunatamente accade molto spesso e 2) rendere facile, pratica e aperta a tutti l’organizzazione di propri eventi.

All’interno, una stanza piuttosto grossa, foderata di gente, senza un palco e con un “bar” che consisteva in un tizio con un tavolino e abbastanza ingredienti per fare un numero onesto di gin tonic (e nient’altro). Il resto – birra, vino, eccetera – te lo potevi portare da solo. Come supporto, una band di disperati regazzini casinari dal nome Porridge Radio che ha passato più tempo a fumarsi le siga, tenere in testa le corone di alluminio che si erano preparati e fare bordello più che a fare canzoni, con però alcuni crescendo decisamente riusciti e una generale buona capacità di tenere il palco (che non c’era, ma viva le frasi fatte ogni tanto). Mentre suonavano, Alex G era nel pubblico, preso bene, a parlare con tutti e bersi una birra e ballare. Poi ha suonato, e ha suonato in modo quasi improvvisato, prendendo pezzi dai suoi ultimi quattro album. Non ero davanti, data la quantità di gente presente, e quindi non ho visto assolutamente nulla. E anche a livello sonoro la situazione non era un granché, dato che c’erano delle casse per la voce e tutto il resto usciva direttamente dagli amplificatori. Ma è stato bellissimo e perfetto così.


[Non sarebbe bello che anche le nostre band dei regazzini del liceo diventino qualcosa del genere? Eh?]

E questo perché Alex G, nonostante abbia firmato un contratto con nientepopodimeno che la Domino per il suo ultimo LP Beach Music, è dal mondo DIY che viene ed è lì che resta nonostante il sempre maggiore eco che la sua musica crea. Prima che l’industria musicale organizzata si accorgesse di lui, Giannascoli ha fatto anni e anni a suonare in scantinati della East Coast americana, registrando da solo i suoi mille album e sviluppando contestualmente un seguito invidiabile per un artista interamente grassroots come lui. Questo, c’è da dire, anche grazie anche alla sua temporanea e azzeccata affiliazione ad Orchid Tapes, un collettivo che di artisti DIY di qualità ne ha tirati fuori molti (gli Elvis Depressedly, Foxes in Fiction, Sam Ray/Ricky Eat Acid per dirne alcuni). Ma anche se ora ha un contratto e va in tour con due band molto più grandi e seguite di lui, Giannascoli cerca lo stesso di suonare il più possibile cercando spazi disponibili a dargli un luogo in cui tirare fuori ancora una volta i suoi capolavori lo-fi. Ed è un valore immenso il fatto che eventi e luoghi simili, in cui coesistono vivere collettivo e promozione di cultura, esistano in una città dagli affitti spropositati come Londra.

E questo si applica dalla Unit G alla warehouse di Tottenham Hale in cui spesso membri della scena math rock della città si ritrovano a jammare, passando per il DIY Space for London fino alla celebrazione definitiva del concetto di riutilizzo dello spazio che è il Bussey Building di Peckham, recentemente salvato dalla chiusura grazie a una petizione che ha impedito la costruzione di un blocco di appartamenti di lusso proprio di fronte al locale-capannone. Insomma, ha senso che prima di questa visita londinese Alex G abbia suonato lo scorso 20 ottobre al 100 Club di Oxford Street, il luogo dove il punk ha avuto una delle sue prime maggiori celebrazioni – quel 100 Club Punk Special che vide suonare, in due giorni, dei neonati Sex Pistols, The Clash, The Damned, Buzzcocks e Siouxsie & The Banshees. Magari senza tutto quel clamore, senza quella portata rivoluzionaria, ma nel suo piccolo anche Alex G contribuisce a portare avanti l’attitudine punk e la cultura dell’autogestione nonostante faccia parte di un’industria musicale pesantemente schematica, organizzata e uniforme.

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