Intervista: Bloc Party

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di Elia Alovisi

La carriera recente dei Bloc Party è stata tutto tranne che tranquilla. Innanzitutto, i problemi di formazione: poche band dell’ondata indie rock dei primi anni duemila erano riuscite a creare una tale alchimia compositiva tra i suoi quattro membri. Kele Okereke alla voce e chitarra ritmica, Russell Lissack alla chitarra solista, Matt Tong alla batteria e Gordon Moakes al basso. Un album seminale come Silent Alarm e poi tre LP in continua evoluzione: il sognante e malinconico A Weekend in the City, il grezzo ed elettronico Intimacy, il minimale Four. Quattro membri, quattro album, quattro suoni diversi. E poi, come a chiudere un cerchio, l’uscita dalla band di Tong nel 2013 e Moakes nel 2015. In un’intervista ad NME, Okereke ha dichiarato che non c’è stato un evento catastrofico che ha portato alla cosa, ma piuttosto una serie di piccole cose tra cui “qualcuno che si faceva di coca e qualcuno a cui non andava”. Tante gocce e un vaso che non riesce a contenerle, insomma.

Il risultato di queste tensioni è Hymns, un album scritto a quattro mani con Lissack a cui si sono uniti il bassista Justin Harris dei Menomena e la giovanissima batterista Louise Bartle. Le chitarrone degli esordi sono lontane, così come le melodie tremolanti di A Weekend in the City e i viaggioni elettronici di Intimacy. I nuovi Bloc Party – questi Bloc Party – sono riflessivi, attenti, minuziosi. Non puntano sulla sezione ritmica, forse anche sensatamente date le scarpe importanti che Harris e la Bartle devono sostituire, ma sulla voce di Kele e sulle pedaliere di Lissack, impegnato a modificare il suono della sua chitarra fino a farla sembrare praticamente una tastiera. La cosa migliore di Hymns è l’onestà che traspare dalla voce e dai testi di Okereke, in totale coerenza con l’approccio contemplativo adottato dalla parte strumentale. Le parti più strane, invece, sono quelle in cui i nuovi Bloc Party cercano di fare i vecchi Bloc Party: per quanto The Love Within possa essere un singolo assolutamente capace di infilarsi nella testa di chi lo ascolta, la distanza con la The Prayer che cita nel suo testo rischia di essere percepita come abissale. Abbiamo quindi raggiunto Okereke al telefono per farci raccontare, nelle sue parole, il nuovo corso del gruppo.

In The Love Within canti “Lasciamo sia l’amore a consumarci”, ed è comunque una frase teoricamente sorprendente in un album che si intitola “Inni”, “Preghiere”.

Penso che l’amore sia un soggetto fondamentale per qualsiasi forma d’arte, perché parlare d’amore è parlare di passione. Ed è la passione a far risuonare l’arte, in un certo senso, a renderla così efficace. All’inizio probabilmente avevo una certa riluttanza a parlarne nei miei testi, e avevo una grandissima paura di cadere in cliché… I love you baby, sai? Con il passare degli anni mi sono però reso conto che le cose più importanti sono il modo in cui comunichiamo e il modo in cui relazioniamo, sono esperienze fondamentali dell’essere umano, ed è quindi giusto parlarne.

Penso che tu sia comunque riuscito bene ad evitare i cliché. Per dirti, uno dei miei tuoi testi preferiti è quello di Ion Square, in cui parli di un amore normale. Ed è difficile che, in forma-canzone, “amore” venga rappresentato come “normalità”.

Era quello che volevo provare a raccontare. La facilità dell’amare. Un amore molto romantico, ma contemporaneamente molto ordinario. Evitare di usare un linguaggio drammatico che, in un certo senso, forse avrebbe potuto essere più comprensibile. L’importanza che sta nel restare sul divano con la persona che ami a guardare programmi TV di merda. È una scelta molto facile da fare, e che molte persone prendono. È un modo che moltissime coppie moderne hanno per sentirsi vicini l’un l’altro. Ti relazioni al tuo amore in un modo non minaccioso. Ion Square è uno dei miei pezzi preferiti, è tanto che non la ascolto, ma dovrei farlo.

Torniamo ad Hymns: è un titolo che presuppone contemplazione, e a livello musicale per gran parte del disco ci siamo. Ma in diversi momenti c’è come una sorta di tensione, di amarezza. 

Anche se non sono la persona più spirituale che mai conoscerai, sicuramente riesco a riconoscere quanto la spiritualità sia importante. Chiamare il disco Hymns era un personale tentativo di onorare quelle cose che spero possano accadere nella mia vita. Insomma, quello che voglio è solo sentirmi bene. Non c’è necessariamente una connessione allo spettro della religione.

Certo, quella che traspare non è una visione interamente negativa. Sembra più un passare attraverso le difficoltà per uscirne purificati. 

Sai, parte della cosa viene dal fatto che, mentre ero a casa dei miei genitori, mi sono messo a sfogliare dei libri di canti religiosi di quando ero bambino e usavo a scuola. Mi sono quindi reso conto che un inno ha due funzioni. È innanzitutto una celebrazione, un ringraziamento, ma anche una richiesta d’aiuto in un momento difficile. Volevo quindi che questo dualismo si riflettesse nell’album. Volevo ci fosse un elemento di investigazione dell’anima, ma anche una parte di gioia.

The Good News è una canzone molto diversa rispetto a tutte le altre presenti sul disco. Mi ricorda un po’ quello che avevate fatto inserendo Coliseum in Four. Come mai questa scelta? 

È stata una delle ultime canzoni che abbiamo registrato per l’album. C’è stato un po’ di tira e molla a riguardo, ma proprio il fatto che era molto diversa rispetto a tutte le altre canzoni che avevamo registrato mi ha convinto ad esplorare questi nuovi territori. A livello tematico comunque sono rimasto coerente con il resto, anche il testo di The Good News è una richiesta d’aiuto in un momento difficile.

A livello musicale, la più grande novità che salta all’orecchio è il modo in cui avete approcciato la chitarra, come mettono in chiaro ad esempio i suoni che Russell fa lavorando con i pedali su The Love Within.

Sì, è stata una scelta che ho fatto consciamente quando mi sono lasciato incuriosire dai limiti dello strumento che ho sempre suonato. Volevo che ci approcciassimo alla chitarra in un modo diverso rispetto a quanto avevamo fatto finora, soprattutto per quanto riguarda Russell: non volevo fosse un chitarrista ma una sorta di architetto sonoro. Abbiamo cercato di creare un suono affilato e metallico, post-punk, come un graffio contro una superficie. E abbiamo provato a farlo con un po’ di trucchetti.

Avete già iniziato a comporre nuovi brani assieme a Justin e Louise?

Sì, dato che è il modo in cui abbiamo sempre lavorato ed è il motivo per cui siamo rimasti in vita così a lungo.

Ai tempi di A Weekend in the City, avevi introdotto due temi piuttosto importanti: in Song for Clay parlavi di Londra Est definendola “un vampiro che ti risucchiava ogni gioia” e Uniform sosteneva che i giovani di allora fossero “tutti uguali”. Come si è evoluto il tuo pensiero a riguardo? 

È passato così tanto tempo… ora vivo a Londra Sud, e quindi c’è un’atmosfera completamente diversa ad ogni livello. Ma ogni volta che torno a Londra Est mi sento decisamente strano. È quasi come entrare in un’altra nazione. Non essendone più circondato sicuramente ora mi frustra di meno. Non c’è più quell’elemento di ansia che mi pervadeva, e ora è solo un luogo come un altro. Per quanto riguarda Uniform, ad essere sincero ormai mi sento completamente disconnesso dai giovani, e nemmeno io mi sento più parte della cultura giovanile. Non saprei bene come rispondere, mi dispiace!  Io sono dell’81, dovrei parlarne con Louise [Bartle, la batterista, che ha 20 anni nda]!

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