Intervista: Luke Haines

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Per molti Luke Haines resterà sempre il leader degli Auteurs, quello che insieme a Brett Anderson aveva dato fuoco alle polveri del Britpop e che con Show Girl, ne aveva composto uno dei manifesti più decadenti. In realtà, da quasi vent’anni la sua carriera ha preso derive che ne hanno fatto uno dei pochi artisti capaci di sperimentare nell’angusto recinto della pop song.

Personaggio difficile e sfaccettato quello di Haines. Un carattere insulare, talvolta insopportabilmente auto celebrativo, quasi sicuramente genio del pop e “bigmouth” per eccellenza, i cui spigoli sono stati acuminati da un destino non certo benevolo, costellato di occasioni mancate e progetti controversi. Come quello che allestito nel ’96 con lo pseudonimo di Baader Meinhof, un concept di raro cinismo sull’omonimo gruppo terroristico tedesco, con testi che flirtano con ogni tipo di tabù e che portano alle estreme conseguenze la sua misantropia.
Black Box Recorder è  l’altro nome che fa ancora sanguinare il cuore degli amanti del pop noir. Una band che Haines fonda insieme all’ex Jesus And Mary Chain, John Moore e alla cantante Sarah Nixey, e con cui produce tre album oscuri e romantici. È quando inizia a operare con proprio nome, però, che la musica si fa teatrale e magniloquente. L’ego smisurato e il bisogno congenito di veder riconosciuto il proprio talento, lo condurrà a produzioni sempre più bizzarre (come 9/12 Meditations On British Wrestling Of the 1970s And Early ’80s) e ad una rilettura costante delle proprie vicende artistiche. In questo senso s’inseriscono i due libri da lui scritti: Bad Vibes: Britpop and My Part in Its Downfall (pubblicato per rispondere in maniera arguta e un po’ piccata a chi ne aveva snobbato le qualità ai tempi degli Auteurs) e Post Everything, una sorta di fenomenologia dell’outsider nel mondo del pop.

Nell’ultimo periodo, fra le altre cose, lo abbiamo visto riscrivere la storia del punk newyorchese in chiave mitico-fantascientifica (con l’album New York in the 70s) ed abbracciare un sound più minimale e sintetico che lo ha portato, nel 2015, a pubblicare il suo l’album  più estremo. Allestito attorno ad un tema distopico, a base società proliferate nel sottosuolo  e culti nati all’ombra della minaccia nucleare, British Nuclear Bunkers è una mini opera di rara eleganza e misura, di cui ci siamo voluti far parlare dallo stesso Haines.

Non si può certo dire che alla tua discografia manchino album curiosi. Eppure, in un certo senso, British Nuclear Bunkers li batte tutti. Come hai pensato di legare il questo tipo di concept ad un album essenzialmente strumentale?

“Non saprei, è stato tutto naturale. Inizialmente stavo lavorando ad un album completamente diverso, una cosa prevalentemente acustica. Vicino al mio studio c’era questo vecchio bunker antinucleare. Una specie di scatola di metallo che in realtà è l’ingresso del Camden Borough Control, il quartier generale di tutta la rete di bunker a nord di Londra. È una cosa che mi ha molto colpito quando l’ho saputa. Inoltre io sono sempre stato un collezionista di vecchi strumenti elettronici. Per cui le due cose (i bunker e l’elettronica vintage) si sono legati insieme naturalmente”.

Mi sembra che a dispetto del tema distopico, il mood dell’album sia abbastanza giocoso. È solo una mia impressione?

“Niente affatto. Il tutto vuole essere assolutamente curioso e surreale, per nulla cupo. È piuttosto una specie di omaggio alla musica del passato”.

Da cosa nasce questa tua fascinazione per la vecchia strumentazione elettronica? Se non sbaglio abbondava anche nel precedente New York in the 70s.

“Ho sempre amato i vecchi sintetizzatori. Li ho sempre visti alla solita maniera in cui vedo le chitarre. Voglio dire, i buoni sintetizzatori per me hanno lo stesso valore delle buone chitarre, sono portato ad avere la solita attitudine verso di loro. Mi piacciono le linee di chitarra molto semplici, così come adoro le sonorità elettroniche minimali. Non sopporto tutta quell’accozzaglia digitale che si sente oggi in giro. Questo disco è la cose più organica che abbia mai fatto. Perché al suo interno non c’è nulla di digitale. Non ci sono MIDI o cose del genere. Ci sono solo strumenti analogici suonati dal vivo”.

I tuoi album recenti trattano temi molto vari, quasi tutti in maniera surreale. Vorrei sapere se secondo te c’è qualche elemento che li accomuna.

“Li accomuna il fatto di inserirsi nella tradizione psichedelica inglese, in quell’idea di creare il proprio mondo, scollegato dalle leggi di quello reale. Per me è una specie di filosofia, un gesto politico. Mi sento piuttosto fortunato ad avere il mio mondo personale in cui potermi rifugiare. Credo che sia questo il motivo per cui registro così tanti album, perché ogni volta mi consentono di scappare nella mia realtà personale”.

È per questo che non hai mai pensato di utilizzare gli stessi espedienti narrativi per trattare temi di attualità?

“Vedi, credo che un artista faccia meglio a commentare il passato piuttosto che cercare soluzioni per il futuro. Ho fatto cose del genere tempo fa. Ho fatto un disco che parlava di terrorismo. Nel 2012, poi, è uscito The North Sea Scrolls, l’album che ho realizzato insieme al mio amico Cathal Coughlan, in cui immaginavamo una storia alternativa dell’Inghilterra. Una sorta di “What if” album. La cosa incredibile è che alcune di quelle cose stanno accadendo ora. Ma in generale non credo che sia possibile fare ancora delle canzoni politiche, per via dei social media. Il mondo si muove molto velocemente e prima che tu abbia composto e registrato una canzone è probabile che su internet l’argomento sia stato sviscerato sotto ogni punto di vista.

Qualche tempo fa ho letto una tua recensione dell’ultimo album di Robert Forster (bellissimo, a proposito) in cui biasimavi la sua scarsa prolificità dicendo che un artista dovrebbe scrivere una “fottuta canzone al giorno“. Immagino che a questo punto tu sia pieno di brani non pubblicati.

“Beh, l’album di Robert Forster è fantastico. Però è vero, io produco più materiale di quello che riesco a pubblicare. Quest’anno ho pubblicato Raving (un disco uscito in sole 75 copie, ognuna con differenti versioni delle solite dodici canzoni). Prima di British Nuclear Bunker è uscito un altro mini album di sei canzoni (Adventures in Dementia). Se fosse per me pubblicherei almeno tre album all’anno. Ma purtroppo la Cherry Red riesce a pubblicarne solo uno. Così ho un backlog di brani inediti piuttosto vasto”.

C’è qualche tema in particolare che ti attira in questo momento e su cui magari hai intenzione di concentrarti per un prossimo album?

“Sono attirato da tutto ciò che è assurdo e curioso. Anche se non saprei dirti qualcosa nello specifico. Una volta erano le cose che mi facevano arrabbiare ad innescare il meccanismo narrativo, oggi sono le cose che mi divertono. Attualmente sto lavorando ad un progetto insieme al mio amico Johnny Ray e all’artista Bruce McLean. Un’opera teatrale che sarà pronta per il 2017”.

Se non sbaglio anche in passato hai scritto opere, libri, articoli. In generale il tuo lavoro di artista si estende in vari ambiti. Per quale ragione continui a fare musica in un momento in cui rock, ma anche un certo pop d’autore, è ai suoi minimi storici?

“Credo che si faccia confusione del mezzo con il supporto. La musica rock non sta vendendo molto per via del declino del CD. Questo non significa che il rock stesso sia in declino. Non c’è alcuna ragione per cui lo sia. La musica rock è fatta da esseri umani e non da computer. Credo che sia questo quello di cui essenzialmente stiamo parlando. Fino a che c’è gente che fa musica non penso che possa considerarsi in declino. Per quanto mi riguarda, poi, ho sempre fatto quello che l’istinto mi ha detto di fare”.

Come artista hai un rapporto conflittuale con l’industria musicale, ma sempre in modo peculiare. Ad esempio ho letto che non sei così critico nei confronti dei talent show.

“Perché penso che, sotto altre spoglie, i talent show siano sempre esistiti, anche negli anni 60 e 70. Non discuto che ci sia un problema di tipo morale, ma davvero non sono qualcosa di nuovo. Oggi i musicisti devono affrontare il problema un altro problema che è quello dello streaming. Ma purtroppo è così e non si può tornare indietro. Non si può neanche chiedere ad un ragazzo di pagare per qualcosa di effimero come un mp3. Qualcosa che non esiste davvero e che sta in un computer. Per questo credo che per i musicisti e per l’industria, il fatto che il vinile stia tornando sia una buona cosa. Non so come, ma forse l’industria musicale dovrebbe investire di più sul vinile, per aumentarne la capacità di produzione. Se io oggi voglio pubblicare un disco in vinile i tempi si dilatano perché la fabbriche di vinile sono poche e c’è una lunga lista d’attesa. Se la produzione di vinile aumentasse magari la gente sarebbe più invogliata a comprarne. Magari la soluzione è più semplice di quello che pensiamo”.

Uno delle ultime manifestazioni di potenza dell’industria musicale è stato proprio il Britpop. Tu hai scritto addirittura libri sull’argomento e sul tuo essere un outsider rispetto a quel fenomeno.  Non credi che col senno di poi, che gli ultimi grandi songwriter e performer britannici vengano proprio da quell’esperienza?

“Credo che le prime band fossero valide. Certamente lo erano i Pulp, i primi Suede e anche Damon. Dopodiché si è trasformata velocemente in una cosa idiota. Il fatto è che non si trattava neppure di una scena. Le band non si conoscevano fra di loro. Anch’io ai tempi degli Auteurs ho sempre lavorato separatamente, senza alcun tipo di contatto con nessuno di loro. Stiamo parlando di una cosa che non è mai esistita, un’operazione della stampa a cui l’industria si è accodata”.

C’è qualcosa che ricordi volentieri di quel periodo?

“Tutto il periodo del primo album (New Wave, 1993) è stato buono. Ricordo con piacere anche le registrazioni del terzo album (After Murder Park, 1996). Tutto quello che riguarda la realizzazione dei dischi è stato fantastico, ci sono un sacco di episodi divertenti a riguardo. Non ci sono mai stati momenti spiacevoli o dolorosi. Ho scritto un libro in cui raccontavo delle mie esperienze e in cui ho inserito tutte le cose peggiori, più che altro per farla sembrare una specie di commedia”.

Segui la musica odierna?

“A dire il vero non ascolto molta musica odierna, ma sono incappato negli Sleaford Mods un paio di anni fa. Credo che siano grandi. I loro testi sono brillanti, la cosa migliore uscita dall’Inghilterra negli ultimi dieci anni”.

Recentemente hai ristampato tutti gli album degli Auteurs. Posso chiederti cosa ne pensi riascoltandoli oggi? Credi che abbiamo passato la prova del tempo?

“Sì, assolutamente. Penso che tutti e quattro abbiano passato la prova. Il secondo (Now I’m a Cowboy, 1994) suona meglio ora di quanto facesse al momento della pubblicazione. Suppongo che l’unica cosa che non amo particolarmente sia la super produzione. Dovessi rifarli oggi adotterei un approccio più immediato e lo-fi. Ma in generale credo che siano invecchiati molto bene e sono molto affezionato a loro perché mi hanno permesso di fare tutti gli album che sono venuti dopo. Ci sono un sacco di cose di cui sono contento. Sono sinceramente felice del nuovo album. Rock’n’roll animal era un grande disco, così come il primo album dei Black Box Recorder. E Bader Mainhoff. Quello ormai è un classico (ride).

Credi che, vista la situazione politica attuale, sarebbe possibile oggi costruire un concept album del genere, attorno alla carriera di un gruppo terroristico?

“Sinceramente credo che non sarebbe possibile. Provocherebbe immediatamente l’isteria dei tabloid.  Quasi certamente sarebbe male interpretato e strumentalizzato”.

Il tuo songwriting è sempre stato oscuro e angolare. Ad un certo punto però ha iniziato ad essere bizzarro e provocatorio. C’è un punto di svolta o è stato un cambiamento progressivo?

“Non saprei. Credo che il primo album degli Auteurs sia un disco perfetto così com’era. Con il secondo sono andato un po’ fuori dalle righe e per un po’ ero convinto di avere perso la strada. Diciamo che il primo disco in cui mi sono sentito di aver fatto quello che realmente volevo è che ha anticipato gli altri miei album è stato quello dei Baader Meinhof. È l’esperienza più importante, insieme alla realizzazione di After Murder Park perché mi ha confermato quello che sapevo di già, ovvero che non c’è mai un compromesso nell’arte. La realizzi e basta. Non ci possono essere pressioni di alcun tipo. Devi registrare solo quello che ti sembra valido. È quello che ho imparato a quel tempo. Anche oggi, io non sono affatto un perfezionista. Io registro tutto quello che ho e che mi sento di esternare”.

A proposito di After Murder Park, quell’album conteneva un singolo abbastanza discusso dal titolo Unsolved Child Murder. Sei ancora convinto che avrebbe dovuto essere una grande hit?

“(Ride) In realtà non era stata mia l’idea di farne un singolo. Era stato voluto dall’etichetta. Ma sono convinto ancora che sia una grande canzone, anche se non la suono più tanto spesso”.

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