Intervista: Lightning Bolt

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Lightning Bolt 1

di Federico Sardo

I Lightning Bolt non suonano a Milano da undici anni, una serata memorabile con gli Zu e Mats Gustaffson, in un Cox stipato all’inverosimile con la gente che si lanciava sulla batteria di Chippendale, posta sul pavimento e non sul palco, come era loro tradizione. Sono in Europa a presentare il nuovo album Fantasy Empire – ed è l’occasione per ripercorrere un po’ della loro ormai ventennale storia, approfondire le loro idee sulla musica e scoprire quali sono stati i cambiamenti in tutti questi anni. Partendo dall’inizio: i Lightning Bolt sono in giro dal 1994 (anche se le prime uscite discografiche risalgono a un po’ di anni dopo) e si sono formati alla Rhode Island School of Design di Providence. Inizialmente erano un terzetto, alla voce Hisham Bharoocha – che avrebbe però presto (non restano sue tracce su disco se non per un pezzo su una compilation) lasciato per diventare batterista dei Black Dice fino al 2005. Dal ’96 i Lightning Bolt sono quindi un duo: Brian Chippendale alla batteria e voce (tramite un microfono a contatto tenuto in bocca e inserito in una maschera) e Brian Gibson al basso.

Esponenti più in vista dell’esperienza Fort Thunder, una fabbrica occupata dal 1995 al 2001 fucina di infinite band, mostre, fumetti, concerti, performance e esperienze di vita in comune – il tutto legato a doppio filo alla forte presenza artistica in città per via della sopracitata RISD – contribuiscono a creare quello verrà poi ricordato come il cosiddetto Providence Sound. In questo contesto nascono band quali Forcefield (vero collettivo prima che band), Mindflayer (sempre con Chippendale alla batteria, e alle macchine Mat Brinkman, cioè probabilmente la persona più responsabile di tutta l’estetica Fort Thunder, fatta di mostri, riferimenti fantasy, spazi riempiti all’inverosimile e in qualche modo alcuni richiami all’illustre concittadino H.P. Lovecraft) e progetti come Kites, Pleasurehorse e Prurient. L’etichetta sicuramente più rappresentativa di tutto questo ambiente, e benemerita per avere documentato molta di questa vitalità è la Load Records, attiva dal 1993, che ha pubblicato tutti gli album dei Lightning Bolt tranne l’ultimo Fantasy Empire, uscito per Thrill Jockey. Ciononostante, i LB sono diventati probabilmente il gruppo più popolare di tutto il cosiddetto “nuovo noise americano”, anche più degli amici Black Dice o Wolf Eyes (che pure con il tempo sono approdati a etichette più indie o hip), questo forse anche per via della loro maggiore vicinanza a certi stilemi rock e metal.

Come da lezione della scuola di Providence, i due Brian sono molto attivi sia con progetti musicali paralleli (Gibson con Megasus e Wizardzz, Chippendale come abbiamo già visto con Mindflayer e poi principalmente con l’esperienza solista a nome Black Pus) che nel campo delle arti visive. Chippendale ha fatto mostre e pubblicato vari fumetti, il più famoso dei quali è Ninja, mentre Gibson è animatore, cartoonist e lavora come sviluppatore per l’importante casa di produzione di videogiochi Harmonix (Guitar Hero, Rock Band…), oltre ad essere co-fondatore della piccola Drool, che sta per pubblicare Thumper, presentato come un “rhythm violence game”. Li incontriamo appena scesi dal palco del Leoncavallo per il soundcheck e li troviamo molto amichevoli e loquaci, al contrario di quello che vorrebbe la leggenda.

Vi ho visto suonare qui a Milano undici anni fa, e mi chiedevo che cosa è cambiato, se c’è lo stesso spirito. Siete rimasti sempre piuttosto estremi, ma rispetto alla botta dei primi dischi è un po’ come se fosse diventato tutto più normale – anche per chi vi ascolta. Forse perché avete cambiato il mondo, e quindi poi ci siamo tutti un po’ abituati a certi suoni?

Brian Chippendale: Abbiamo cambiato il mondo! (ride) Penso che il primo disco sia in effetti più estremo. Brian suona delle linee di basso superminimali, diverse canzoni hanno giusto due o tre note per lunghi periodi. Poi ci si è un po’ messa di mezzo la melodia, e col tempo sono arrivati riff un po’ più identificabili. Era come se il primo disco fosse la punta di un coltello, e ora siamo scesi un po’ nella parte più spessa del coltello, mentre quella era la più affilata, quella che ti entra nel petto. Quando abbiamo cominciato eravamo artisti che imparavano ad essere musicisti, e man mano siamo diventati musicisti – ma quasi per sbaglio. E questo comunque ci ha influenzato, non voglio dire che ci ha reso più conservatori ma penso che quando sei all’inizio comunque fai tutto in maniera più ingenua. Noi già suonavamo, però ci conoscevamo poco e per noi era una novità avere una specie di band seria, quindi era un po’ un mettere insieme cose, una sopra l’altra, quasi seguendo un approccio tipico delle arti visive, mentre ora abbiamo più strumenti per approcciare la cosa e…

Brian Gibson: …e quindi siamo peggiorati! (ride)

Siete entrambi artisti poliedrici – mi chiedevo quindi se la musica è solo uno dei vari modi in cui esplorate lo stesso mondo, le stesse fantasie, o se è proprio una cosa a parte. Penso per esempio al tuo (Chippendale) stile nel disegno, pieno di piccole cose, dettagli, mille colori, senza un centimetro vuoto… E questo un po’ ricorda il suono e la forza dei Lightning Bolt. Anche Thumper dà questa idea di potenza supersonica.

BC: Per me qualcosa è interessante solo se ci si può perdere al suo interno. Che siano arti visive, musica o qualsiasi cosa – ma le mie due attività sono quelle. Quindi l’approccio è lo stesso – le cose per me devono essere abbastanza grosse e vivide e onnicomprensive da potercisi perdere dentro. La musica però è diversa: l’arte in generale consiste anche nel costruire cose man mano, sia che tu stia pensando a una storia per un fumetto, o che tu stia lavorando a un videogioco come fa Brian. Sono processi lunghi in cui fare qualcosa per tre minuti non ti lascia niente. Invece con la musica è istantaneo, puoi realizzare qualcosa nell’attimo in cui cominci a farlo, quindi è un po’ come fosse una funzione diversa del cervello: la musica è più una cosa che ti succede, è molto immediata.

BG: Mi sembra sempre di stare costruendo un mondo, in entrambi i casi. Quando collaboro con qualcuno, quando si suona insieme, è un altro mondo che ha le sue regole e può essere esplorato. Tutto poi ottiene un senso in quel contesto. E anche nelle arti visive, più direttamente. Nei videogiochi puoi creare interi universi, immaginare un universo intero. Non so perché ma è quello che voglio fare nell’arte, quello che ha di piacevole per me: schiudere un mondo e poi esplorarlo. Ma se sto dipingendo un quadro, per esempio, da solo, c’è soltanto un mondo, che è più o meno sempre lì. Lo posso esplorare, si sviluppa e cambia nel tempo, ma è sempre quello, con la sua logica. Quando collaboro con persone diverse, come con Brian, abbiamo un altro mondo dove andare. Siamo intrappolati in questa realtà che creiamo tra di noi – e certo, l’abbiamo esplorata per bene. A volte ci chiediamo cosa manchi ancora da esplorare.

BC: Sì – sai, i Lightning Bolt in qualche modo si fondano su delle limitazioni.

Solo due persone, con uno strumento a testa.

BC: Esattamente. Quindi è un piccolo mondo, e ovviamente ci sono piccole strade, e ne abbiamo visitate un sacco, ma c’è ancora qualcosa da scoprire – ed è una sfida, di sicuro. Inoltre la musica è una cosa diversa perché, appunto, lavoro un sacco sulle arti visive, per conto mio, mentre per la musica c’è Brian. Da solo sei un po’ un tiranno, mentre in due ci sono altri stimoli e scoperte condivise. Ha i suoi pro e i suoi contro. Per me musica e arte lavorano insieme, non sono la stessa cosa ma si sposano bene.

Dopo tutti questi anni come va tra di voi? Vi piace ancora stare insieme, suonare insieme? Credo che alle volte possa essere pesante essere solo in due.

BC: Sì, è per quello che in tour ci portiamo sempre anche un’altra persona, per il merch e tutto quanto e anche per farci compagnia!

BG: È durissima! (ride)

BC: Durissima. Però suonare è come all’inizio: quando si suona si suona, e stranamente è una cosa senza tempo, per me. È strano che funzioni ancora.

Quando non suonate insieme vi vedete come amici o cercate di evitarvi fino al tour o alle prove successive?

BC: Dormiamo insieme nello stesso letto ogni sera (ride). No, ci vediamo qualche volta in giro, ma non usciamo spesso, però Providence è una città davvero piccola.

BG: Quando siamo in tour ci vediamo davvero troppo quindi a casa ci vuole un attimo di pausa, magari non ci vediamo per un paio di settimane poi lo incontro a una cena e sono felice di vederlo.

BC: Se sono passate due settimane però!

BG: Ma non capita mai che ci telefoniamo per vederci, perché tanto sappiamo che prima o poi ci sarà un tour in cui ne avremo le palle piene l’uno dell’altro (risate).

BC: Sì, inoltre le prove sono tipo un’ora di chiacchere e un’ora a suonare, quindi sì, ci vediamo un sacco.

Credo che nella vostra musica sia importante l’elemento del divertimento, della giocosità. Anche in come portate alcuni elementi all’estremo, per esempio alcuni aspetti presi dal metal o dall’hard rock, dando l’impressione però di uno spirito piuttosto divertito. La voce, melodie strane, filastrocche, gli effetti, la supervelocità, l’estremizzazione di tutto. È un po’ l’impronta della cosiddetta scuola di Providence, questa di avere uno spirito giocoso, prendere tutto divertendosi e quasi scherzando? E quanto c’è di parodia e quanto di omaggio in questi riferimenti, per esempio a certi generi musicali?

BC: Penso non siano né parodie né omaggi, più riferimenti. Nel senso che siamo fan di quei tipi di musica e quindi fanno parte di noi, ma quando suoniamo vogliamo solo suonare, e ci concentriamo su quello. Quindi camminiamo un po’ tra i generi perché non vogliamo arrivare in un punto preciso, vogliamo solo esplorare un po’ e capire come funziona, e un sacco di volte la roba più estrema funziona perché siamo una band potente, veloce, e alcune delle idee di base del metal funzionano molto bene in questo contesto. Per quanto riguarda il divertimento, io penso addirittura ai Lighting Bolt, nel profondo, come a una party band, anche se piuttosto feroce.

Lightning Bolt 2

Sì, hai dichiarato “Non posso dire che siamo una dance band, ma non siamo una non-dance band”.

BC: Sì! Per me un buon concerto è quando la gente si diverte e noi ci divertiamo, di certo il fulcro è quello. Ci possono essere alcuni concerti in cui c’è una linea sottile tra divertimento e follia e suoniamo come pazzi ed è un po’ shoccante ma è ok, le nostre radici sono quelle.

BG: Non siamo molto attenti e consapevoli riguardo quello che facciamo, suoniamo e basta, sempre.

BC: Sì, non vogliamo essere una band intelligente

Anche se fate parte di un giro, quello noise/underground, che a volte si prende molto sul serio.

BG: È vero.

BC: Penso c’entrino anche le nostre origini. Providence, che comunque resterà sempre il mondo da dove veniamo, all’inizio si basava su queste feste pazze e assurde, è un aspetto che si è perso un po’ ma per noi è un elemento fondante, un mattone di base di quello che siamo. Se non fosse divertente non penso saremmo qua. Non so, non ci percepisco per niente come due tizi supercattivi, che suonano musica cattiva per fare incazzare la gente.

Stasera suonate sul palco. È una novità? Ricordo i vostri concerti in mezzo al pubblico, che erano un po’ un marchio di fabbrica, e qualcosa di memorabile. Ma a volte non è possibile, immagino.

BG: Già. Abbiamo suonato un sacco sul palco negli ultimi anni, perché gli show sono cresciuti. C’è stato un po’ di dibattito tra di noi ma alla fine l’abbiamo accettato. Potremmo tornare un po’ sui nostri passi però, perché ora finiamo sempre a suonare sul palco – in contesti come stasera non funzionerebbe per niente suonare giù. Siamo solidali con tutti quelli che stanno dietro e non vedrebbero e capirebbero nulla. Però c’è una magia nel suonare in mezzo al pubblico che mi manca un po’. Per me è abbastanza difficile stare sul palco, anche se all’inizio quello più rigido sulla questione era Brian.

BC: Sì, ero molto dogmatico. Per me si doveva stare in mezzo al pubblico, punto.

BG: Ma con gli anni ci siamo lentamente trovati di sopra. Per natura io ho un po’ di paura del palco, e mi piace stare giù con la gente quando suono, guardare il pubblico negli occhi per me è rilassante, mi mette più a mio agio, e inoltre mi sembra di suonare per dieci persone.

Il palco è più da rockstar?

BC: “Noi siamo qui e voi siete lì”: ma noi non siamo rockstar, per qualche motivo ci siamo trovati qui sopra. Al limite preferisco palchi bassi, dove puoi toccare la gente. Per un po’ per me doveva essere per forza in mezzo alla gente: è quello che fanno i Lightning Bolt, e non mi importava se funzionava o meno; ora invece penso più a cosa ha senso, a quale situazione darebbe il risultato migliore, che sia una o l’altra. Dopo che abbiamo cominciato a suonare in mezzo alla gente mi è capitato di vedere un sacco di altre band farlo, ma spesso non mi divertivo per niente: “oh, c’è qualcuno che suona là, ma non li vedo”. Quindi ho cominciato a vederla dal punto di vista di chi non ha voglia di combattere per arrivare davanti, cioè l’85% del pubblico. Però quando è possibile suoniamo giù dal palco volentieri, penso che in questo tour ci sarà qualche data senza palco.

Dicevate che i vostri album erano documentazioni di dove stavano andando, i vostri live fotografie del momento. È ancora così o è cambiato qualcosa? Anche perché so che il nuovo disco è il primo che registrate in digitale in studio, separatamente, con una produzione vera.

BG: Per tutti i dischi il processo di registrazione era soprattutto essere fedeli all’esperienza del live, facevamo un sacco di take ma poco mix, cercavamo di averne una ottima e poi ce la tenevamo più o meno così. Credo che cerchiamo tuttora di ottenere uno spirito live ma è più come se cercassimo di valorizzarlo. Ascoltiamo una take e poi ci lavoriamo assicurandoci che tutti i suoni siano come li vogliamo sentire in un concerto.

BC: È buffo che ci abbiano detto che suona come il più live dei nostri dischi, quando è il meno live: provi a rendere l’autentica esperienza del live e ne ottieni un disco che non suona molto live, poi invece vai in studio e lavori sui suoni e ne esce un disco che suona live. Solo che invece sono i trucchi dello studio. Ma eravamo anche arrivati a un punto di arrivo con il nostro vecchio metodo. Ci piaceva molto, funzionava bene: registrare come fosse un concerto, senza separazioni, con un sacco di live mixing. Ha funzionato benissimo per un sacco di tempo. Poi, negli ultimi cinque anni, abbiamo più o meno provato a lavorare a questo disco e continuavamo a sbattere la testa: non ci suonava più “nuovo”. Pensavamo che i pezzi fossero buoni, ma il modo in cui li stavamo registrando li faceva suonare proprio come nel disco precedente.
È stata quasi una mossa disperata. Volevamo reinventare il nostro modo di lavorare – abbiamo questi amici che gestiscono uno studio, e alla fine in gran parte la scelta è stata dovuta anche al fatto che ci sentivamo davvero a nostro agio con questi due ragazzi. È comunque un disco che documenta le canzoni che abbiamo fatto in questi anni – anche se alcune, tante, sono rimaste fuori. Quindi nonostante le novità comunque non è un disco scritto in studio, alcune cose sì, ma per la maggior parte è sempre una documentazione di canzoni venute fuori live.

Ho anche letto che stavolta hai fatto un lavoro diverso sui testi, ti sei preparato di più.

BC: È la prima volta che non le ho cantate tutte live. Alcune delle voci in alcune canzoni sono live, ma ci sono Horsepower e Runaway Train, che avevano testi ben precisi, e quindi le ho registrate a casa su una cassetta invece che in diretta. Ma anche in questo disco ci sono un paio di canzoni in cui ho dovuto poi mettermi lì ad ascoltare cosa stavo dicendo e cercare di scriverlo, con pessimi risultati, e quindi inventarmi cose per il foglio dei testi. Che è un po’ quello che faccio di solito. Ma le voci su quelle due canzoni sono probabilmente le più pulite che ci siano mai state sui nostri dischi perché le ho rifatte. Non l’avevo praticamente mai fatto prima – c’era stata giusto una sovraincisione anni fa, in Dracula Mountain, era tipo il 2002.

Quindi è la prima volta che ti sei scritto qualcosa a casa.

BC: La prima volta che dico di averlo fatto! Ahah, ho mentito su questa cosa per tutti questi anni. Seriamente, ci sono sempre stati dei testi, ma è la prima volta che li ho ricantati e ho provato a farli funzionare davvero: credo che in passato abbiamo sempre fatto un solo take e veniva fuori una cosa pazza e feroce e selvaggia e piena di errori. Ma ce ne fregavamo, se suonava pazza e suonava bene ci dicevamo “sì, ok, abbiamo fatto un po’ di cazzate o ho sbagliato tutte le parole ma chi se ne frega”. Ma quando vai in studio capisci che “oh, non mi devo accontentare di averci quasi azzeccato, possiamo davvero modellare le canzoni come dovevano essere!”. Quindi per esempio in queste canzoni le voci mi convincevano per il 75%, che è più o meno come le lascio di solito, però mi sono reso conto che, wow, potevo davvero provare a farle suonare bene piuttosto che lasciarle soltanto passabili. Quindi ho dato molta più importanza all’approccio vocale. Ma solo in un paio di pezzi.

Una domanda sulla libertà. Venite dall’ambiente dell’underground, che in teoria è quello dove c’è la libertà maggiore, come dimostra anche la vostra musica, ma penso che qualche volta ci sia il rischio di ritrovarsi ad avere semplicemente dei cliché diversi, seguire regole diverse. Come fate a evitare questo rischio?

BC: Ci buttiamo dentro proprio a capofitto e sbagliamo tutto quello che si può sbagliare (ride). Siamo in effetti un po’ intrappolati nel nostro stesso mondo. Ci sono alcune cose specifiche dei LB nelle quali siamo intrappolati, e credo che la nostra fortuna sia che ci divertiamo ancora a lavorare all’interno di questo formato, ma è un impegno essere creativi al suo interno. Perché la gente comunque ha delle aspettative, vuole una certa cosa dai Lightning Bolt – e sentiamo un po’ il peso di questa cosa, credo. Ma allo stesso tempo, anche se sentiamo un po’ di pressione, non c’è nessuno che davvero ci dica qualcosa. È solo nella nostra testa: pensare a quello che potrebbero pensare gli altri, e voler soddisfare noi stessi e gli altri. Quindi c’è una buona dose di libertà perché alla fine dipende del tutto da noi. Il titolo dell’album è un po’ complicato perché Fantasy Empire può significare entrambe le cose, per me: può essere un impero della fantasia, in cui tutto può succedere, ma mi fa anche pensare a un posto come gli Stati Uniti, che pensa di essere questo impero invincibile, questa cosa gigantesca.

“Pensi di essere libero ma non lo sei”, un po’ come i cliché nell’underground.

BG: Sono molto d’accordo con questo discorso, e penso che la cosa più importante sia già soltanto riconoscere che nessuno è davvero libero. Lavoriamo tutti per un pubblico e siamo tutti rivolti a questa cosa, quindi mostra un po’ di umiltà e non definirti libero solo perché fai musica pazza o qualcosa del genere. È una sfida e uno sforzo. Ma è già una buona cosa capirlo e riconoscerlo.

Quindi vi divertite ancora?

BC: Sì è piuttosto divertente. Guidare oggi non è stato proprio il massimo, ma sai, ce l’abbiamo fatta, quindi alla fine, sì, ci divertiamo.

Redazione Rumore
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