Londra: Siamo andati a vedere Junun, il film su Jonny Greenwood e Shye Ben Tzur in India

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junun

di Elia Alovisi

Jonny Greenwood, da sempre chitarrista dei Radiohead, non è il primo a ritirarsi in India per scrivere musica – il grandissimo precedente ce l’hanno i Beatles, che nel 1967 si fecero da dieci giorni (Starr) a sei settimane (Lennon ed Harrison) a meditare assieme al Maharishi Mahesh Yogiceleberrimo guru indiano. Risultato? Alcune delle canzoni migliori del White Album, tra cui Back in the USSR, Blackbird Revolution; e alcune delle peggiori, vedi Why Don’t We Do It in the Road? e The Continuing Story of Bungalow Bill. Detto terra terra: i quattro si tenevano impegnati facendosi di acidi; litigarono con il Maharishi, credendo anche di aver ricevuto una maledizione; abbandonarono l’idea di un film sull’esperienza per il litigio di cui sopra. Quindi ok la meditazione, il distacco dal mondo, la creatività e il fascino d’oriente e tutti i tòpoi che girano attorno all’India, ma quel viaggio rappresentò soprattutto una versione in miniatura delle tensioni che poi avrebbero portato i quattro a sciogliersi, pochi anni dopo.

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Ecco, il viaggio di Greenwood sembra qualcosa di totalmente diverso. Junun, risultato dei suoi giorni indiani, nasce assieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur (che in India ci vivacchia e canta in ebreo, urdu e hindi) e ai Rajahstan Express, un gruppo tradizionale qawaali. Il tutto, registrato da Nigel Godrich e filmato da Paul Thomas Anderson (Boogie NightsMagnolia, There Will Be Blood). L’impressione, alla prima inquadratura, è quella di “ok, è esattamente quello che mi aspettavo”. Tappeti per terra? Check. Testi spiritual/mistici? Check. Tutti seduti in tondo senza scarpe? Check. Shye Ben Tzur che sembra voglia fare il Devendra Banhart de noantri? Check. Trombe che la fanno da padrone? Quelle non me le aspettavo, ad esser sincero. Non che siano un male, anzi, ma inizialmente è strano – uno vede Greenwood tutto arricciato in sé stesso, la frangia a coprirgli il viso, con in mano un basso che suona due/tre note su un mare di percussioni e poi inizia un pa-ra-pa-ppa-ppa che manco Goran Bregović. La cosa inizia ad avere senso, con il passare dei minuti, quando ti rendi conto che a tenere le redini della composizione non sono i due occidentali nella stanza ma l’enorme gruppo di indiani più o meno sbattuti dalla vita che sono i Rajahstan Express. Sono loro a scandire il ritmo dei pezzi, a dettare la strumentazione, a fermarsi quando non c’è elettricità (cosa che, stando al film, accade molto spesso) e a parlare all’interno della pellicola. Resta che i dialoghi sono pochissimi, così come è solo una la fuga della telecamera dal set principale – una serie di inquadrature in città, a seguire uno dei membri della band mentre va a far accordare il suo armonium, come sottofondo il pezzo più elettronico e, stranamente, da club di Junun.

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Fuga, diciamo, perché il disco è stato registrato interamente al Forte Mehranghar, una fortezza vicino a Jodphur, quasi al confine con il Pakistan su cui sono concentrati quasi tutti i 60 minuti del film. Inquadrature candid, un piccione che entra nella stanza dove stanno gli strumenti, time-lapse della costruzione e decostruzione dello studio, panoramiche della fortezza riprese con un drone, una performance dal vivo alla fine del tutto con annesso discorso del maharajah locale a lodare l’incontro tra culture appena avvenuto. A parte questo, le inquadrature si concentrano totalmente sulla musica: da diverse prospettive, il cameraman riprende le canzoni prendere vita, soffermandosi di volta in volta sui vari strumenti sempre all’interno della stessa stanza, unica variabile le ore del giorno e i musicisti coinvolti. Se il film durasse più di un’ora sarebbe, forse, pesante. La ripetitività delle canzoni non aiuta, se non per i momenti in cui Ben Tzur e Greenwood prendono un ruolo più di primo piano, ma de gustibus. Ma Junun risulta invece una visione che scorre via liscia, un mini-filmato delle vacanze più che un documentario a tutti gli effetti. Non che, penso, gli obiettivi di Anderson fossero molto diversi: è più che altro un ricordo su pellicola, un campionario di esseri umani e suoni creati in un tempo e in un luogo definiti che non racconta nulla se non sé stesso. Non che sia necessaria una narrazione per risultare piacevoli.

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