Intervista: Nicolas Godin (Air)

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Come rileggere Bach aderendone allo spirito. Intervista con Nicolas Godin.

di Emanuele Sacchi

Gli Air non si sono sciolti. Non ancora, almeno. Perché nelle parole di Nicolas Godin, “quello alto” del duo francese, non si legge propriamente entusiasmo per i tempi belli con Jean-Benoît Dunckel. Nicolas racconta di una routine divenuta quasi meccanica, di una band troppo semplice per le aspirazioni di un musicista in età matura, di “magia che svanisce a poco a poco”. Ma qualunque sia il futuro del duo di Sexy Boy e Kelly Watch the Stars, a contare ora è il presente di Nicolas Godin, più che mai fitto di impegni. Mentre un nuovo progetto sugli architetti e la musica è in corso d’opera, Contrepoint è invece già concluso. Un album nato a seguito di uno studio approfondito di Johann Sebastian Bach e della rielaborazione dello stesso da parte di Glenn Gould, tramutatosi via via in un’opera che di accordi di Bach ne ha conservati pochini ma che dello spirito del Maestro non ha perso un’oncia. Godin cerca la contaminazione tra i decenni e le nazioni, tra gli idiomi e gli strumenti, attraverso le sue musiche preferite, già influenze alla base dell’Air touch: exotica, bossanova, Gainsbourg. Un progetto personale, ambizioso, colto. Totalmente Air insomma — dopotutto l’ultimo album consisteva in musiche per un film di Meliès — e totalmente Godin, che conferma le sue doti di brillante conversatore e ironico esteta nella lunga chiacchierata con Rumore.

Un album totalmente inaspettato e sorprendente. Nelle note stampa, molto ben scritte peraltro, hai spiegato con dovizia di particolari la sua genesi, ma magari ti senti di aggiungere qualcosa su come sia nato.

“Ho scritto l’articolo per una rivista francese, in realtà, ma il management mi ha detto che sarebbe stato ottimo per una press release e così è finito anche lì. Se lo avessi saputo prima, però, credo che avrei cambiato qualcosa rendendolo più semplice [ride]”.

C’è una frase in cui parli chiaramente del fatto di prendere coscienza del tempo trascorso e che quel che fai oggi necessariamente non possa essere una riedizione di quanto già fatto. Ossia è possibile concludere che una parte della tua carriera sia completata e che il futuro rappresenti una sfida continua, che tenga conto della tua maturazione come uomo e come artista?

“Agli Air è avvenuto quel che è successo in genere a ogni band che conosco: dopo un certo periodo di tempo quel che fai insieme diventa meno interessante e hai bisogno di un momento di riflessione in solitario. Qualcosa della magia se ne va a poco a poco… L’idea di dover incidere un disco a prescindere ogni due anni è così deprimente. Ho deciso quindi di rimettermi a studiare musica e di lì, a poco a poco, si è arrivati a un disco. La sola ragione per incidere un disco è per affermare qualcosa dal punto di vista artistico, perché è quello che vuoi dire su qualcosa. Puoi anche fare un disco per soldi, ma si tratta di business e non di arte”.

Hai deciso di utilizzare Bach come punto di partenza e da lì assorbire una serie di influenze che erano nel DNA degli Air e quindi anche nel tuo: bossanova, Lalo Schifrin, Lou Reed, Serge Gainsbourg. Hai trasformato una possibile riproposizione di elementi di classica in un viaggio nella popular music: un progetto ambizioso, non ha mai finito per spaventarti?

“È la mia visione di musica classica: quello che so della musica classica lo devo ai compositori di colonne sonore, è attraverso di loro che ho avuto accesso alla musica classica. Non avevo ascoltato Beethoven e Bach, bensì John Barry, Ennio Morricone e Nino Rota, Michel Laurent, Danny Elfman. Volevo rendere omaggio a loro a modo mio”.

Hai scritto di come la musica di Bach fosse quasi predisposta a una sua estensione, per queste porte d’accesso segrete fornite dalle sue composizioni. Quasi si trattasse di una grammatica da cui partire per elaborare qualcosa di proprio. Puoi dirmi di più su questo?

“Quando ho cominciato ad approfondire lo studio di Bach, mi sono reso conto di come ogni musica ascoltata in giro, in radio o nei locali, in fondo fosse sua; in quello che senti puoi sempre riconoscere una frase o un motivo che lui ha già scritto. Sostanzialmente Bach aveva già previsto e composto tutte le melodie tecnicamente possibili! Quindi in realtà il gioco, o l’esercizio di stile se vuoi, è agevolato dal fatto che ibridare Bach con qualcosa di apparentemente estraneo sia in realtà un processo piuttosto naturale”.

Ibridazioni che si traducono in eclettismi: lo spettro attraversato, da Orca a Bach Off, è piuttosto ampio.

“Non volevo qualcosa che suonasse pretenzioso, ma qualcosa che avesse diversi livelli di lettura. Un bambino può apprezzare Orca perché gli ricorda la musica di Super Mario Bros o di Zelda, così come per un musicista maturo ed esperto altri brani possono suggerire qualcosa di completamente diverso”.

Parlando di Orca, il brano ha un impatto incredibile ed è un’apertura azzardata per l’album: richiama i videogame così come Colosseum o Procol Harum, band che quasi nessuno oggi ricorda. La clip rappresenta un contrasto interessante, cosa puoi dirmi del concept di Sean Pecknold?

“Ho pensato che il trattamento visivo fosse perfetto, amo il lavoro di Pecknold e volevo che il videoclip fosse adatto a essere visto da un ragazzino”.

Nell’album suoni tutto o c’è qualche campionamento?

“Uso tutto quello che sappia suonare, come piano, synth, computer, chitarre, iPad, percussioni, voce, oltre a un’orchestra. All’inizio ho pensato che tutto ciò che potesse emettere un suono dovesse trovar posto nell’album, poi il progetto si è evoluto coinvolgendo altri musicisti”.

Qual è il brano che ha richiesto più lavoro prima di uscire così com’è?

“Buona domanda. Direi Bach Off, perché nella struttura globale c’erano diversi buchi, avevo iniziato a registrare al sintetizzatore pedissequamente il lavoro di Glenn Gould ma risultava estremamente noioso. Ho gettato tutto diverse volte finché non ho trovato la chiave per il brano”.

In Widerstehe Doch Der Sünde va in scena una curiosa combinazione di lingua tedesca e atmosfere alla Gainsbourg. Insomma sei riuscito a rendere il tedesco una lingua sexy. Se riuscissi a renderla anche divertente, probabilmente saresti un mago.

“[Ride sonoramente] Buona questa! Spero di esserci riuscito, sì… All’inizio di Widerstehe Doch Der Sünde c’è un accordo che è anche nell’originale Cantata di Bach, e che trovo stupendo. Volevo usarlo e non sapevo come, volevo incidere questo accordo in Mi bemolle perché tutti lo potessero ascoltare. Poi volevo avere una canzone perché volevo almeno due canzoni sul disco: e così Widerstehe Doch Der Sünde è diventata una di queste. Ero stanco dell’inglese, esistono altre lingue che nessuno usa e così ho pensato al tedesco e a Thomas [Mars, dei Phoenix – nda]. Se fosse stato un brano sexy gainsbourghiano in francese sarebbe stato un abbinamento ovvio… Poi proprio per quel che dicevo prima, ossia che Bach è un po’ in tutto, Bach è anche in quel tipo di melodie lente anni ’60 e questo è un perfetto esempio. Pensa a Hey Jude dei Beatles, che ha un inizio che assomiglia tremendamente a Bach: sono certo che non sia stato un plagio, i Beatles erano dei geni e non ne avevano bisogno, ma è così che funziona la musica. E Bach ne ha carpito e spiegato le regole grammaticali”.

Forse per una coincidenza o forse no le lingue che utilizzi sono gli idiomi della musica classica: italiano e tedesco.

“Esatto!”.

Parlando del brano in italiano, non conosco la voce femminile, Flavia Eusepi. Cosa puoi dirci di lei?

“A dire il vero non la conoscevo neanch’io fino a qualche minuto prima che registrasse il brano. Avevo bisogno di una voce italiana e il mio ingegnere del suono me l’ha presentata”.

Perché ha un forte accento del sud, non so se fosse un effetto voluto nel brano.

“Probabilmente è colpa mia, perché l’ho costretta a parlare molto lentamente. Nel romanzo [Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, a cui il brano si ispira – nda] si parla così in fretta e ho il mito di Brigitte Bardot che parlava lentamente, quando invece le ragazze francesi sono solite parlare sempre così in fretta. Flavia ha cominciato a parlare alla maniera italiana, molto velocemente, e quindi ho dovuto rallentare fortemente la sua cadenza”.

Sei soddisfatto della tua performance di ieri [Al Castello Sforzesco di Milano, il 21 giugno – nda] e come pensi di trasporre Contrepoint in versione live?

“È la seconda volta che suono questi brani dal vivo ed è una faccenda impegnativa. Sono show di riscaldamento, anche per vedere se tecnicamente riesco a riprodurre tutto ciò”.

In quello che hai scritto a proposito dell’album e degli Air lasciavi intuire di essere stanco della routine live e quindi sono rimasto sorpreso quando ho saputo che avresti suonato prima dell’intervista.

“Più che altro ero stanco di suonare la stessa canzone ogni sera per quindici anni. La mia vita ha finito per non rappresentare più una sfida. Non potevo più sbagliare, anche perché Sexy Boy è piuttosto facile da eseguire, no? Diventa qualcosa di monotono. Gli Air non sono Jimi Hendrix, che ogni sera suonava un assolo diverso, sostanzialmente non riproducibile: la possibilità di variazioni è enormemente ridotta. Ci sono band come i Radiohead ad esempio che non suonano mai le stesse canzoni due sere di fila, o Prince, che addirittura non sa cosa suonerà e la band quindi deve conoscere a memoria tutti i brani perché scoprirà solo all’ultimo quello che dovrà suonare. Qualcosa di incredibile, ma al di là delle possibilità degli Air. Ma non fraintendermi, ricordo ancora la prima volta che suonammo Sexy Boy in studio e sentimmo uscire la musica dai diffusori, eravamo orgogliosi consapevoli di aver realizzato qualcosa destinato a durare”.

Hai per caso visto il film Eden di Mia Hansen-Løve? Cosa pensi della ricostruzione di quegli anni?

“Benché facessi parte del cosiddetto french touch non avevo mai sentito parlare di Sven Hansen-Løve e mi pare strano: vedevo quasi ogni sera nei locali i Daft Punk, Phoenix o Étienne De Crécy ma non ho mai sentito parlare di lui. Il lato sfortunato della scena elettronica non l’ho mai conosciuto perché a noi fondamentalmente è andata bene; nel giro di pochissimo tempo avevamo un contratto con una importante casa discografica, mentre il film si concentra sugli alti e bassi di chi è parte della scena ma non riesce a sfondare. Non avevo idea che ci fosse un lato oscuro. In un certo senso mi ha ricordato un altro film, quello dei fratelli Coen sul cantante folk [A proposito di Davis – nda]: quando alla fine compare Bob Dylan e capisci chiaramente chi ce la farà e chi no, anche se a volte non ne comprendi la ragione”.

In questo sovraccarico di musica e informazioni, un album come Contrepoint rappresenta qualcosa in controtendenza: il fatto di costringere in fondo a una ascolto attento e privo di interruzioni, con dei riferimenti così alti, rappresenta qualcosa di anacronistico?

“Può darsi ma sono innocente quando faccio musica, penso che i miei sogni siano la realtà; posso fare qualcosa di strano pensando che sia commerciale. Se guardo alla mia carriera c’è un 50% che funziona e un 50% che non funziona, ma non cambierei nulla, quando ho realizzato qualcosa ho pensato che funzionasse, sempre. Sono di vedute così aperte su queste cose che non vedo differenze tra lavoro artistico e commerciale, per me qualcosa di artistico che realizzo è anche commerciale”.

L’effetto collaterale di questa incapacità di ascoltare un album come prima dall’inizio alla fine rappresenta una perdita per tutti noi?

“È più di così. Fondamentalmente l’album non esiste più, è un concetto virtuale, quindi perché fare qualcosa che non esiste più? Ma il potere della musica è così forte che se credi fortemente in un concetto superi questa realtà e ti concentri sull’album”.

Intanto si parla già del tuo prossimo progetto, un album sull’architettura: cosa ci puoi anticipare?

“Sta procedendo bene, ho scritto i temi ma trasformarli in canzoni sta richiedendo molto lavoro. È un tributo agli architetti che amo, come Le Corbusier. Un lungo processo, cominciato tre anni fa con delle installazioni allo scopo di separare l’architetto dall’edificio da lui progettato. Voglio rendere sexy l’architettura dopo aver reso sexy il tedesco, costi quel che costi. Ho dei grandi progetti per quel che riguarda le esibizioni live che seguiranno.”.

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