Live Report: Giant3 Sand @ Union Chapel, Londra, 02/06/2015

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Di Stefania Ianne

Howe Gelb è uno dei musicisti più prolifici che si possa immaginare sul pianeta. Sempre ai margini della scena musicale, la sua presenza eccentrica è una costante della storia musicale degli ultimi trent’anni in varie incarnazioni. Stasera è a Londra per un raro concerto nella versione Giant Sand o meglio Giant3 Sand, ribattezzati per celebrare 30 anni di storia musicale personale e collettiva. Le celebrazioni del trentennale sono iniziate con la pubblicazione a maggio di un disco intimo e poliedrico, Heartbreak Pass, caratterizzato da una serie di collaborazioni di grande effetto: da Jason Lytle (Grandaddy), passando per Grant Lee Phillips (Grant Lee Buffalo) e Steve Shelley (Sonic Youth); senza dimenticare i contributi bizzarri di Vinicio Capossela e, non ultima, Talula, la figlia dodicenne di Gelb.

Stasera le celebrazioni continuano con una serie impressionante di ospiti musicali nella cappella metodista del quartiere londinese di Islington, un edificio religioso storico che da anni vive una vita doppia da sala da concerti, probabilmente per aiutare con le spese di manutenzione. Mi piace venire alla Union Chapel. Lo spazio è intimo e stasera i raggi del sole basso all’orizzonte creano effetti speciali imprevisti passando per le vetrate colorate che decorano le pareti maestose. Non faccio in tempo a sedermi sui banconi di legno che Howe appare all’orizzonte, elegantissimo in giacca e cappello neri e cravatta di cuoio splendidamente decorata. Sale sul palco e si presenta come il nostro maestro delle cerimonie di stasera, il nostro pastore. E senza indugi ci presenta il tucsoniano Brian Lopez che alla chitarra acustica ci intona l’angosciosa I Pray for Rain. Con la sua voce melodiosa ci racconta l’incubo del deserto, la presenza ossessiva del sole e il bisogno maniacale della pioggia mentre il sole disegna sul suo viso beffarde ombre colorate. La canzone finisce fin troppo presto e Lopez lascia lo spazio al secondo chitarrista della serata, Gabriel Sullivan, un altro talento tucsoniano scoperto da Gelb. Anche lui ha pochi minuti a disposizione per raccontare la sua storia di dolore privato con una chitarra acustica e la canzone Fall Apart. Difficile fare un’impressione con i pochi minuti di una canzone, ma entrambi i chitarristi dei Giant Sand riescono in pieno. Gelb cerimoniosamente dichiara le due canzoni le sue preferite di sempre e mormora qualcosa sul fatto che è arrivato per lui il momento di dare, o di ripagare dato il suo stato di quasi saggio anziano.

È il momento di introdurre Lonna Beth Kelley, da Phoenix alle porte del deserto di Sonora. Kelley è ancora intenta ad accordare la chitarra e Gelb riempie il vuoto sonoro improvvisando qualche nota sul piano verticale che si intravede alla destra di un palco gremito di strumenti e microfoni. Kelley incanta con la sua voce sexy e le sue parole infuocate. Il suono è folk dalle tinte psichedeliche. Ma ancora una volta è il momento di cambiare. Gelb ci introduce la prima danese della serata, Maggie Björklund, nelle parole di Gelb la prima musicista a liberare finalmente la chitarra slide, la pedal steel guitar, dalla schiavitù della musica country. I Giant Sand al completo si presentano sul palco per accompagnare la virtuosa danese in un pezzo acustico tratto dal suo album prodotto da John Parish. La collaborazione sembra improbabile, mi chiedo cosa unisca la Danimarca all’Arizona – anche la sessione ritmica dei Giant Sand è molto scandinava – ma il suono è completo, penetrante, felice come il sorriso della Björklund, sotto una cascata di capelli biondissimi.

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Era semplicemente l’introduzione, tanti talenti da elencare, ma praticamente il concerto deve ancora iniziare. E ci pensa Gelb ad iniziare la sua festa con l’intima Eye Opening da solo alla chitarra acustica, bilanciata a malapena sul fianco, senza fascia. È un miracolo che riesca a completarla. Ha voglia di parlare, si sente che adora essere al centro dell’attenzione ed incanta il pubblico con le sue storie di vita ordinaria, storie vere, nella maggior parte dei casi, ci dice. O storie che diventano vere: “if you wait long enough” – il suo è un monito ai musicisti e cantastorie – “beware of what you write”. Le canzoni prendono una propria vita indipendente, sono lì indipendenti dal proprio creatore, probabilmente vagano ancora. L’umore leggero è ingannevole, come sempre con Gelb. Song so Wrong e Every Now and Then, aumentano il ritmo e ci fanno assaggiare l’influenza del deserto nella vena creativa di Gelb. “You can’t blame it all on Arizona!”, ci dice prendendo in giro le recensioni che definiscono la sua musica come scorched rock, rock bruciato dal sole. Non c’è scaletta come sempre, Gelb suona quello che gli viene in mente o quello che la sua memoria, il bassista danese, gli ricorda. Solomon’s Ride ci concede un primo tuffo nel passato con la voce di Gelb stasera più vicina a quella di Leonard Cohen rispetto all’originale reminiscente di Lou Reed.

Home Sweet Home con un beffardo arpeggio alla chitarra interpretato da Lopez, vede l’arrivo sul palco delle Psycho Sisters, nome d’arte per Susan Cowsill, ex Cowsills, e Vicky Petersen, ex Bangles. Cowsill si chiede chi si ricorderà mai dei Cowsills. Gelb imperturbabile risponde che c’è un bel numero di capelli grigi in sala. La sala imbarazzata risponde con un sorriso. Il duo viene lasciato sul palco con le proprie chitarre e le proprie armonie gioiose. Mi ricordano i Beatles prima maniera. Ci cantano le loro canzoni finanziate con Kickstarter tra cui Never, Never Boys e Fun to Lie, stasera dedicata a Gelb. “He is a good boy, now”, sottolinea Cowsill. L’atmosfera è da festa di famiglia, una family reunion, commenta Cowsill. “Thank you Howe, this is fun!” Ma la girandola di ospiti sul palco è appena iniziata. Ritorna Lonna Kelly. L’idea era di risentirla da sola ma ha un problema con il tuning della chitarra. Prova la chitarra elettrica di Gelb ma non è soddisfatta. Chiede a Gelb di raccontarci la barzelletta della piovra mentre manovra. Gelb cade dalle nuvole. Non ha idea di cosa stia dicendo la Kelley. La situazione potrebbe essere imbarazzante, ma non per Gelb. “Dovrei essere preoccupato, but I don’t care”. Ci dice. È il frutto di tanti anni vissuti in Arizona, anche se è nativo della Pennsylvania, sfrattato da un alluvione, ci racconta. “Nel deserto se sei ambizioso o hai successo” – pausa strategica – “sei un repubblicano”.

L’atmosfera rallenta e Gelb improvvisa un duetto al pianoforte con Lonna Kelley alla voce per le atmosferiche Pen to Paper e Gypsy Candle, sempre tratte da Heartbreak Pass. Leonard Cohen si trasforma in Paolo Conte. Kelley riesce a creare un’altra piccola crisi prima della fine della serata quando imbroglia le parole di Forever and Always, la canzone co-scritta dalla figlia dodicenne di Gelb. Gelb blocca la canzone quando Kelley pronuncia il verso sbagliato. Dovrebbe essere: “That’s already new” non “That’s just what I do”. È preoccupato qualcuno possa postare il video su Internet e sua figlia lo veda. Ricominciano, Kelley fa attenzione, ma d’ora in poi sembra più imbarazzata che felice di essere sul palco.

Gli ospiti successivi sono a dir poco inattesi, gli olandesi: The Common Linnets di fama eurovisiva, a quanto pare secondi con Calm After the Storm un anno fa. Un altro gruppo scandinavo affascinato dalla musica americana. Qualcuno mi deve spiegare il link! Un gruppo o un ensemble votato alle armonie. Gelb li introduce dicendo che non vede l’ora di sentire la canzone che li ha resi famosi dal vivo ed accenna il primo verso, come se fosse sotto la doccia a cantare spensierato. I Linnets sul palco sono in tre, le voci cantano in armonia, la vena è country popolare. Il pubblico apprezza.

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Dopo l’interludio olandese, i Giant Sand nella loro totalità ritornano sul palco per Transponder e Texting Feist – con Gelb preoccupato di alzare il volume e rovinare la disposizione perfetta dei mattoni che costituiscono l’edificio storico che li ospita stasera. Ma il gruppo, elegantissimo, lo sprona. Tutti raffinatissimi con cravatte di cuoio e completi dal taglio perfetto. L’unica eccezione all’atmosfera desertica le imperdibili sneakers verde shocking del bassista danese Thøger T. Lund, prontamente segnalate al pubblico dai suoi colleghi. Particolarmente divertente il duello giocoso tra le due chitarre, Lopez e Sullivan, alla fine di Texting Feist. Le chitarre che scambiano dei messaggi SMS, dice Gelb. Adesso tutti i musicisti sul palco e anche i Linnets ritornano per Man on String con la parte vocale elegante di Ilsa DeLange e un eccelso assolo di chitarra del suo compagno JB Meijers: “we keep each other sane”, ci dice. Gelb, a parte chiede a Meijers se ha apprezzato il duetto alla chitarra in Texting Feist, “you can use it if you want”, gli dice sornione.

La festa è quasi finita, dopo quasi tre ore seduti su un banco di chiesa di legno massiccio, la resistenza del pubblico è ammirevole. Gelb salta il cerimoniale dell’encore e ci regala un’altra perla del passato, Tumble and Tear, fresca dagli anni ottanta, dall’esordio Valley of Rain. Fossero stati gli anni ottanta il pubblico sarebbe saltato a ballare su quei banchi da chiesa. Invece ringraziano applaudendo per una standing ovation, con un Gelb quasi commosso. Domani sera li attende Liverpool, per la prima volta nonostante i trent’anni di carriera, senza gli ospiti.

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