Intervista: SoKo

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Soko

Di Mavi Mazzolini

Braccia lungo i fianchi e gambe accavallate; seduta scomposta sulla sua sedia, dall’alto delle sue Creepers bianche, per i primi dieci minuti dell’intervista SoKo mi sembra più una strafottente che una timida. Gli occhi sono perlopiù bassi, dritti sul bordo della scrivania su cui fa tamburellare le dita di tanto in tanto o sull’orologio da cui tiene d’occhio l’ora. Il volo con cui doveva rientrare in Francia è stato cancellato, e nonostante il manager tenti di convincerla più volte (una di queste anche durante la nostra intervista), non ne vuole sapere di prendere mezzi alternativi per il rientro. È quando parla del booklet che inizia a cambiare atteggiamento. Accenna a un sorriso prima, si ricompone sulla sedia, e poi alza gli occhi: orgogliosa mi dice di averlo fatto tutto lei, ed è molto soddisfatta del risultato. È quando parla della sua famiglia, però, che ho un’epifania: alza gli occhi, mi guarda, e vedo due bottoni foderati di una tristezza densissima. Languidi e allo stesso tempo opachi, armonizzano con la voce bassa e spezzata. Un secondo, forse due, prima che si riprenda – d’altronde è un’attrice, e in un attimo si ricompone. Quando le faccio i complimenti per i film in arrivo (cinque, quest’anno) e la nomination al Prix César del 2010, mi blocca per farmi vedere i suoi migliori crazy eyes. È un quadro complesso, quello di SoKo. Nata in Francia, di tendenza più americana che europea, si spiega meglio nelle sue parole che in quelle di altri. Ha un’attitudine provocatoria, anche nel modo di porsi, che di primo acchito risulta antipatica – ma in realtà non si può dire che lo sia. È dispettosa come un’adolescente, certo – ma infondo infondo, indifesa com’è, sembra più una bambina. Mentre mi parla della sua infanzia, dei suoi trascorsi, inizio ad empatizzare con lei e a capirla. E poi non è nemmeno la prima, nell’industria musicale, ad avere un ritorno all’adolescenza.

Ci sono tantissime collaborazioni che spiccano nel tuo disco: una fra tutte è quella con Ariel Pink.

Sono collaborazioni casuali, devo dire. Ariel Pink è un mio grandissimo amico, e avevo già collaborato con lui per il suo disco, Pom Pom, per cui canto cinque o sei canzoni. La collaborazione sul mio disco è venuta di conseguenza – non sono stata lì a scegliere o studiare con una mossa di marketing chi sarebbe stato il miglior artista da includere. Ho preso dei miei amici, musicisti, e li ho coinvolti. È stato così con Ariel come con Leo Abrahams (produttore e chitarrista per i Pulp durante la loro reunion, ndr). Per me è tutto spontaneo, e deve essere tutto riconducibile a me, alla mia vita e alla mia visione. Per questo cerco di curare tutto io, dal booklet ai video alle foto promozionali. Alla fine sono rientrata anche nella moda: all’inizio ero restia, facevo un po’ la dura e discriminavo tutta la moda, invece piano piano ho smesso di fare i capricci da pseudo-snob adolescente (ride).

A proposito: tu stessa dici spesso che stai rivivendo la tua adolescenza, dato che quegli anni non sono stati facili per te.

Da piccola mi succedeva una cosa strana: ogni volta che facevo un incubo, qualcuno moriva. Erano incubi terribili, me li ricordo ancora chiaramente, e pensavo che la colpa di quella morte fosse mia. Non la vivevo bene, come puoi immaginare; ero sempre a terra, mi tormentavo dal senso di colpa.

A un certo punto qualcuno ha ipotizzato che potessi essere un Indigo Child: bambini nati negli anni ’80 e connessi spiritualmente al futuro, di matrice chiaramente new age. La descrizione vuole che perdano i loro poteri una volta diventati adolescenti, attorno ai tredici anni. Informandomi, ho scoperto che gli Indigo si caratterizzano per essere iperattivi, molto intelligenti, con pochi amici, dislessici o con l’ADHD – e sono cose che in gran parte ho. Unendoci poi i sogni che facevo, la descrizione combaciava perfettamente. Per me non era niente di positivo, però – anzi, era una condanna. La situazione è peggiorata quando è morto mio padre. Anziché lasciarmi essere una bambina, questa serie di eventi mi ha resa più consapevole e mi ha spinta nella dura realtà degli adulti. Situazioni e questioni che a quell’età non dovrebbero nemmeno toccare un bambino. E invece, tutto quello che volevo da bambina era essere un’adulta. Non avevo molto amici, mentre i miei coetanei erano spensierati io ero già più oscura, ed ero senza una precisa appartenenza.

Molto di questo è nei tuoi testi: usi spesso termini duri come “monster” e “alien”.

Arrivata a questo disco mi sembrava d’obbligo guardare negli occhi quello che sono oggi e cosa mi ha reso così. Era il momento giusto per farlo. Mi sono guardata e mi sono vista vulnerabile ma forte, cresciuta ma giovane, ho ripercorso i miei fallimenti e non è stato facile parlarne. Ma nonostante ciò era quello che volevo. Volevo esporre ed esplorare questo mio lato d’essere, illuminarlo e scoperchiarlo fino a renderlo arte.

Da I Come in Peace sembra che tu abbia iniziato ad accettare questo tuo lato…
Sicuramente. I Come in Peace è l’apice di un processo iniziato con Ocean of Tears, che non a caso è il primo brano dell’album. Per la prima volta ho iniziato a parlare del mio trauma anziché evitarlo. Da adolescente ho continuato sulla scia oscura della mia infanzia – sentendomi davvero già adulta, a sedici anni sono andata via di casa per andare a vivere da sola, mantenendomi. Però dopo cinque anni, a ventun’anni, ero stanca, la situazione era troppo pesante – così ho iniziato a suonare e a volerlo fare per vivere. Ho iniziato a viaggiare, sono partita per Londra e passando poi da New York a Seattle ad LA, dormendo sui divani dei miei amici e realizzando sempre di più un’ostilità verso qualcosa di fisso. Sto avendo un rigetto totale di quello che può essere l’età adulta, come dicevo prima; ma ho fatto dei passi avanti enormi. Uno di questi è stato appunto accettare il mio passato come parte di me. Per questo ho deciso di parlarne liberamente, in maniera molto onesta e ruvida, senza lasciare nulla indietro e senza falsificare nulla. Tutto questo mi ha aiutato a stare a mio agio con i miei mostri e con il mio passato. Quindi sì, ho accettato che sia parte di me –  ma non penso accetterò mai quello che ho vissuto.

Non è dura salire sul palco e cantare di tutto questo davanti a un pubblico?

All’inizio lo era, soprattutto quando c’era un arrangiamento minimal con solo una chitarra – lì appena scesa dal palco volevo andare a casa e spararmi (ride). Ora invece sul palco sono spalleggiata dalla mia band, quindi sono più tranquilla. Il problema per me è la promozione. Non solo per dover parlare con i giornalisti, degli sconosciuti, ma perché giro da sola, viaggio da sola, incontro persone della mia casa discografica che non ho mai visto prima e che mi dicono cosa fare: fare tutto questo per me è terribile e fastidioso. Mi sento molto strana e la sera, dover tornare in una camera d’hotel buia e in solitudine, mi intristisce.

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