Intervista: Juggernaut

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Di Luca Minutolo

C’era una volta (ed esiste tutt’oggi sotto forma di community online) Neuroprison, un blog nato come fan base per i sostenitori italiani della scena postcore d’oltreoceano (dai Neurosis ai Converge, passando per Breach e Cult of Luna) agli albori degli anni 2000, ma mutato nel tempo in vero e proprio punto di ritrovo per il nuovo fermento heavy che animava lo stivale italiano d’inizio millennio. Uniti dalla comune passione e ispirazione dei maestri sopraccitati, il blog si trasformò in breve tempo in fucina e promotrice di band unite dal comune denominatore di un roboante umor nero. Del giro presero parte band come i Lento, Morkobot, passando per Ufomammut, Viscera/// e tantissimi altri, inclusi i romani Juggernaut. Gravitando nella scena postcore capitolina, i Juggernaut fecero il loro ingresso nel panorama heavy italiano nel 2006. Tra EP (Facial Sacrilege: Ballads by the Fireplace), partecipazioni a svariate compilation (tra cui il mixtape Stones from the Sky realizzata dal blog Neuroprison),  la band germinò nel ventre molle di un fiorente rinascimento metal italiano. Una volta ingaggiati dalla italiana Subsound Records, i Juggernaut realizzarono il proprio debutto …Where Mountains Walk nel 2009, a cui fecero seguito una serie di date su e giù per lo stivale. Dopo un discreto successo, la band cadde nell’oblio totale.  Silenzio interrotto lo scorso ottobre con Trama!, disco interamente strumentale e seconda prova per la band. Ampliando il proprio raggio d’azione e tagliando fuori completamente testi e apporti vocali, i Juggernaut saldano più che in passato una potenza strumentale priva di limiti stilistici. Dalla bossa nova al trash metal, la miscela dei Juggernaut si è fatta allo stesso tempo più tecnica ed imprevedibile. Abbiamo approfittato di Trama! per scambiare due chiacchiere con il batterista Matteo D’amicis e conoscere il percorso che ha ispirato la varietà stilistica del loro ultimo disco.

Partendo dal principio, quando e come ha mosso i primi passi la creatura dei Juggernaut?

Reduci da una precedente esperienza di hardcore matematico e metallizzato, abbiamo sentito la necessità di provare a battere nuovi territori e nuove soluzioni compositive senza però cambiare totalmente campo di gioco. Così presero vita gli Juggernaut, conservando quel nucleo dalla precedente formazione del quale Roberto e Luigi hanno fatto parte. Siamo partiti dal diminuire la frenesia ritmica e ampliare lo spettro sonoro, timbrico e compositivo. Era il 2006 e da questi primi passi nacque un EP dal titolo Facial Sacrilege: Ballads by the Fireplace che ci ha messo in pista facendoci guadagnare il contratto con la Subsound Records che a fine del 2009 produsse il primo full lenght …Where Mountains Walk.

Dopo il vostro primo disco avete deciso di abbandonare i testi per dedicarvi interamente al versante strumentale dei vostri brani. Da dove arriva questa brusca decisione?

Per quanto brusca possa sembrare, la decisione di rimanere strumentali è stata presa in maniera estremamente naturale. L’idea in realtà balenava nelle nostre menti da un po’ di tempo. Un timbro vocale così caratteristico purtroppo ci ghettizzava all’interno di una scena e di un pubblico che iniziava ad andarci stretto. Una volta trovata la formazione ideale, con l’ingresso in pianta stabile di Matteo alla batteria e di Andrea alla chitarra, abbiamo cominciato a comporre e da subito ci siamo resi conto che potevamo comunicare molto anche senza l’ausilio di testi e cantante. Inoltre l’assenza della voce ci ha dato molta più libertà espressiva e se vogliamo anche più visibilità sui singoli strumenti, oltre che rendere la nostra musica più universale e meno di genere.

Il vostro nuovo disco arriva dopo quasi cinque anni da …Where Mountains Walk. Praticamente un secolo rispetto ai ritmi frenetici che la rete ci ha imposto in questi ultimi anni. Cosa è successo in questo lasso di tempo?

Nel mondo 2.0 tutto è frenetico e l’intera esistenza virtuale si basa sul ritmo che dai ai tuoi click, ma in questi secolari cinque anni i Juggernaut non si sono mai fermati e da poco tempo dopo l’uscita del primo disco al 2012, quando si è finalmente stabilita la formazione attuale, la caparbietà di alcuni membri del gruppo ha tenuto a galla la nave. Dal 2012 in poi, il bisogno viscerale di ricominciare a scrivere ci ha chiusi in sala per quasi un anno e mezzo fino all’inizio del 2014, quando siamo entrati in studio per registrare Trama!.

Avete la capacità di evocare un immaginario molto forte e definito attraverso i vostri pezzi, ma a volte il messaggio che volete trasmettere, senza l’ausilio della parola, può essere travisato per una miriade di motivi. Cosa avete voluto esprimere attraverso Trama?

L’immaginario di Trama! non è nato a tavolino, ma dalle sensazioni che ci dava il primo materiale che stavamo scrivendo. Con Egregoro, il primo brano scritto con la nuova formazione, ci siamo ritrovati calati in un’atmosfera particolare, fatta di salotti sfarzosi e belle acconciature, intrise però di oscurità. Affidandoci anche a un immaginario cinematografico, siamo entrati in questo mondo e abbiamo cercato di raccontare una storia attraverso le note e non solo (qui potete leggere il racconto connesso alle musiche del disco, nda). Il fatto che un discorso musicale non sia così didascalico da avere una sola chiave di lettura per noi è  un grande pregio, perché significa che quello che abbiamo scritto può incuriosire ed essere letto in maniere diverse. L’immaginario per noi conta più del messaggio, e anche il fatto che alcune persone ci abbiano riferito di essere state stimolate dall’ascolto del disco durante attività artistiche come pittura e scrittura ci ha riempito di gioia.

Cosa è cambiato nella creazione e stesura dei vostri pezzi con Trama!?

Trama! è il frutto dell’incontro di quattro personalità musicali vicine e lontane al tempo stesso. Pur avendo molto in comune venivamo da esperienze molto differenti con background diversi. Ognuno ha messo sul piatto la sua personalità musicale, le proprie idee e il proprio carattere e insieme ci siamo confrontati su ogni aspetto in maniera più che certosina. Non c’è singola nota, titolo o scelta grafica che non sia stata discussa a fondo e ogni tanto anche in maniera piuttosto animata. Sicuramente questo disco è l’esperienza più democratica che ognuno di noi abbia mai fatto in vita sua

Siete attivi come band dal 2006, muovendovi nella scena postcore italiana. Cosa è rimasto e cosa invece è cambiato in questi anni nella scena heavy sia italiana e, più nello specifico, romana?

Di buono sono rimaste alcune ottime band alle quali se ne sono aggiunte altre con cui ci sentiamo affini come spirito musicale e come umanità. Sicuramente il livello tecnico di chi suona si è incredibilmente innalzato, cosa che non è andata di pari passo con quello compositivo. In un panorama, in particolare quello heavy, dove i dischi suonano ormai come quelli di Katy Perry e si tenta di stupire con funambolismi tecnici, trovo che una cosa che sia cambiata molto è la reale necessità di voler dire qualcosa con la propria musica. Vedo gruppi che a seconda di dove tira l’hype del momento cambiano stile, look e sonorità, cosa che io reputo una vera e propria non-progressione, un’esplorazione che non riesce mai ad arrivare a compimento.

Ci sentiamo vicini ai gruppi sinceri, a quelli che quando sono sul palco glielo leggi negli occhi che sono quello che stanno suonando senza pose o stereotipi. Gruppi come Three Steps to the Ocean o The Haunting Green e più in particolare della scena romana come Si Non Sedes Is, INFERNO Sci-Fi Grind’n’Roll, NoHayBanda, Lili Refrain e Cayman the Animal ci piacciono molto e ognuno di loro esplora con genialità e sincerità un diverso aspetto della musica al quale possiamo attaccarci il suffisso -core. Che poi in romanesco vuol dire cuore.

Affrontare l’ascolto di un disco heavy e strumentale in questo periodo è una sfida ardua da lanciare all’ascoltatore medio. Come credete che il vostro disco, e più in generale la musica heavy, possa colpire nel segno e attirare nuovo pubblico? Specialmente quello più giovane.

Noi facciamo la musica che ci sentiamo di fare senza pensare troppo al pubblico che potremmo raggiungere. Con ciò non voglio dire che facciamo musica di nicchia per essere un gruppo di nicchia che suona in ambienti di nicchia, ma sappiamo che purtroppo l’ascoltatore medio è spesso e volentieri vittima di quello che il mercato musicale gli impone e noi, non seguendo logiche di mercato, ci sentiamo liberi di dire e fare quello che vogliamo. L’unica ambizione che abbiamo è una fruizione sincera e consapevole della nostra musica da parte di chi ascolta. Nel nostro suono sono presenti molte sfaccettature, puoi sentirci echi di bossa nova come alcuni accenni death metal, la musica da balera e il jazz come l’hardcore. La sfida che proponiamo potrebbe essere quella di invitare un’amante di Jobim a fare del sano headbanging. Come prendere per mano un metallaro e provare a fargli fare due passi di samba, tutto nella stessa serata.

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