Intervista: Chambers

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di Elia Alovisi

Il nuovo disco dei toscani Chambers, La guerra dei trent’anni, è un album difficile, divisivo e diverso da quello a cui eravamo abituati da loro – soprattutto dal loro album precedente, La mano sinistra, che si era rivelata un’ottima e meritata spinta a livello di visibilità e supporto. Ci sono toni più scuri, c’è molta meno melodia. Parlare con Cela (voce), Theo (chitarra) e Gigi (basso) significa confrontarsi su tutto quello che è stata la loro esperienza finora: un’esperienza nella scena DIY nostrana degli anni 90 fatta di screamo e post-HC (Cela, Theo e Nicola suonavano nei Violent Breakfast) che non si è mai interrotta e ora cerca di trascendere da una qualsiasi etichetta di “genere”- il che è un ottimo proposito nell’approcciarsi alla musica e un discorso assolutamente positivo. Perché se esistono dischi che alcuni considerano capolavori, altri non apprezzano e altri ancora giudicano con qualsiasi sfumatura nel mezzo tra i due estremi, la musica va avanti. E lo farà sempre, indipendentemente da tutto, finché il punto resta continuare a suonare, e scrivere, nonostante l’incedere dell’età e le spinte che il mondo ci dà per tentare di farci smettere di esprimerci. Sono questi i punti attorno a cui si crea l’immaginario del disco – le difficoltà che la vita ci mette progressivamente di fronte, la chiusura mentale e i suoi rischi, le prospettive troppo ristrette che ci impediscono di avere un’idea chiara del mondo che ci circonda e del mondo che è la nostra persona. Ne abbiamo parlato su Skype, e questo è quello che ne è uscito.

Qual è il significato del titolo La guerra dei trent’anni? C’è un riferimento anagrafico, oltre che storico?

Cela: Sì, questo è il primo disco in cui abbiamo tutti più di trent’anni. Però non vuole essere un titolo di propaganda generazionale da “Noi trentenni facciamo la guerra, bla bla bla”. È una cosa più leggera, c’è un po’ un gioco tra un fatto storico conosciuto e importantissimo legato poi alla nostra età. Vero e fittizio, collegati insieme, con ironia.
Gigi: “Di base è l’unico calembour che c’è nel disco, al contrario de La mano sinistra dove il titolo era l’unica cosa seria e tutto il resto erano calembour. Non è una roba da cantautorato italiano di un certo tipo dove i trentenni fanno la guerra e tutti i giorni c’è questo malessere della nostra generazione che dobbiamo portare avanti. È più una presa di coscienza del fatto che tutti i giorni c’è l’impegno a portare avanti un determinato tipo di cose che quando hai trent’anni assumono il tono di una battaglia. Vai spesso contro a quello che ti succede intorno, a quello che ci si aspetterebbe da un trentenne medio. A vent’anni è molto facile fare la rivoluzione, a trent’anni devi inventarti ogni giorno una maniera per farlo. Devi stare sul pezzo, cercare di portare avanti le tue cose. Assume il significato, l’impatto di una battaglia, di una guerra. Ed è bene che sia così, che non sia una roba presa male contro cui non puoi fare nulla. È giusto vivere in quella maniera lì. Volevamo dare un significato positivo a una cosa in generale vissuta in maniera completamente negativa.
Theo: È una cosa che è successa a tutti dall’ultimo disco. Mentre cercavamo un titolo ci siamo accorti che, facendo un po’ il punto della situazione, per ognuno c’è stato un passaggio nella propria vita. E quindi era una cosa che accomunava tutti e cinque.

Volevo infatti chiedervi che cosa era cambiato, in voi e nel gruppo, negli anni passati da La mano sinistra.

Gigi: Ci sono stati cambiamenti nella vita di tutti sotto ogni punto di vista. E in generale, come succede a quest’età, questi ti portano a prendere direzioni anche contrarie alla musica. È difficile portare avanti un gruppo. Hai impegni, una spinta che ti arriva dall’esterno a incanalarti in una direzione che va spesso in senso contrario rispetto all’andare a suonare, fare le prove, mettersi giù a scrivere delle cose. E questo si sente anche musicalmente. Il disco è molto diverso da La mano sinistra e da gran parte del roster di To Lose La Track, perché più invecchi più cerchi le cose che ti hanno portato ad arrivare a quel punto nella tua formazione, soprattutto musicale. Si è ripescato un sacco di roba molto più strettamente post-HC rispetto a quello che poteva essere La mano sinistra, che comunque aveva dei riferimenti molto più della scuola di Richmond: Malady, City of Caterpillar e quant’altro. Cose che ascoltavamo quando abbiamo più o meno tutti cominciato a suonare. E questo si sente molto nel disco.

In A largo cantate, “Collezioniamo dischi introvabili che un giorno venderemo per comprarci qualche cosa da bere”. Che significato ha questa frase?

Cela: Quella è una frase che mi è venuta pensando a una cosa che fanno in tanti, soprattutto alla nostra età. Si ritrovano dei dischi usciti quindici anni fa – anch’io ne ho a casa un po’, figurati – che non ascolti più, e ti fanno comodo i 50 euro di un disco, perché sono tutti stampati in 300 copie. E poi ci vai a bere una birra per non pensarci.
Gigi: C’è lo scontro che ti dicevo prima. Arrivato a una certa età tendenzialmente certe cose si ridimensionano da sole, o comunque senti la spinta a ridimensionarle. Quando hai il mutuo, la casa, il lavoro e la famiglia va in culo il rock ‘n roll di base. Questa cosa succede a un sacco di gente, e lì si riparte: bisognerebbe provare a dargli un po’ più di importanza piuttosto che venderseli per andare a farsi le birre. Cosa che tra l’altro supportiamo (ride). Ci vorrebbero i soldi per tutte e due in realtà. È un discorso di spinta e pressione a cui sei sottoposto quando hai mille cose che vanno oltre a un certo tipo di interesse e sono prettamente da ventenni.
Cela: Quello che magari dieci anni fa era un disco fuori stampa che cerchi da tutte le parti del mondo e finché non lo trovi non ti dai pace, oggi dici: “Sì, se ce l’ho son contento”. Però può anche capitare che te ne puoi liberare, non è una tragedia e nessuno fa il collezionista di dischi di lavoro.

Dato che stiamo parlando di dischi, qual è IL disco che avete e non mollereste mai?

Theo: Disintegration dei Cure.
Cela: It’s Me God dei Breach.
Gigi: Quello a cui tengo di più è How Could Hell Be Any Worse? dei Bad Religion, prima stampa americana dell’82.
Theo: Che Gigi venderà per comprarsi un Sassicaia.
Gigi: (Ride) Sì, Pregevolissimo.

Qual è invece il senso di Un’isola? “Metti il mare sulla montagna, là vicino verso il sole, da qua possiamo vedere la sabbia, il vuoto e le isole delle isole più grandi.”

Gigi: Certi eventi a cui dai molta importanza condizionato dai sentimenti, da quello che ti succede, in realtà sono delle parti più piccole di un discorso più ampio sul quale non ti soffermi. Le isole sono parte di isole più grandi. Se uno avesse sempre la lucidità di guardare il masterplan spesso non darebbe così tanta importanza a cose più piccole, che succedono sempre e in tutto. Nelle relazioni, nella vita quotidiana. Il punto è non vivere sempre in uno stato di pre-allarme. Se lo ridimensionassi un secondo, tutto avrebbe un senso. Se riuscissi a guardare l’isola più grande.
Theo: Per me è un frattale. O comunque un pezzetino del puzzle. L’isola è un pezzo della Pangea.
Cela: I continenti sono isole più grandi in mezzo a un mare. Parliamo dell’Italia: la Sicilia è un’isola a tutti gli effetti, però anche l’Europa attaccata all’Asia diventa un isola.
Gigi: È una questione di prospettiva. O di zoom su Google Maps (ride).

Come mai avete scelto di pubblicare In viaggio come primo estratto dal disco? E qual è il nesso tra il video e la canzone?

Theo: Era quella un po’ più – uso una parola brutta – radiofonica per noi, in termini di lunghezza del pezzo e semplicità di metabolizzazione del ritornello. Il nesso col video non c’è, abbiamo lasciato carta bianca ai ragazzi che l’hanno pensato e sviluppato. Si chiamano InFlux. Erano già un po’ di volte che si parlava di fare qualcosa assieme, e stavolta ci siamo fidati.
Gigi: Loro lavorano molto sulla fotografia, la dinamica ambientale. È un tono più documentaristico che narrativo in un certo senso. Anche se poi assume un tono narrativo con l’interpretazione e col fatto che un video musicale richiede un minimo di narrazione.

La natura sembra però una costante nei vostri video. Se andate a vedere quelli di Chiuso per fiere e Salita tornano sempre i boschi. È una scelta conscia o è semplicemente capitato così?

Cela: A me piace molto. La mano sinistra parla di non-luoghi, e parlandone indirettamente parli anche dei luoghi. La matura è assolutamente un luogo, per natura (ride). È intrinseco che lo sia. La natura ritorna anche nei testi e c’è sicuramente affinità con il mondo che circonda alla musica che facciamo. Banalmente chi fa videoclip, o fotografia, ha anche una vicinanza di gusti con noi. Però sì assolutamente, su quattro video tre sono girati in un contesto molto forte.
Theo: E poi Gigi sta in fissa con le scampagnate.
Gigi: Sì, col fare la brace (ride). La natura è sia luogo che non luogo. Un McDonald’s è un non luogo, perché viene costruito per essere lo stesso in tutto il mondo. Un centro fiere è progettato dalla mano dell’uomo per essere uguale e spersonalizzato. Un bosco è un bosco da tutte le parti ma nasce indipendentemente dall’intervento esterno. Quindi è sia luogo per sua natura sia non luogo perché lo puoi trovare ovunque.

E Pisa è luogo o non luogo?

Theo: Pisa è luogo.
Gigi: Se togli gli studenti è non luogo. Con le feste diventa luogo per il weekend, di solito.

Che cosa vi ha lasciato Pisa come città in cui crescere come gruppo?

Theo: In realtà di Pisa strettamente siamo solo io e Cela.

Certo, è il discorso della “Strada di Grande Comunicazione che collega i posti dove viv[ete]” che avete nella bio.

Cela: Sì, adesso siamo a Pistoia ad esempio.
Theo: In termini di città: se vuoi chiedermi se c’era una scena o dei posti dove andare a sentire musica la risposta è no. Non c’è niente e nessuno da cui imparare, l’unica cosa che c’era era un centro sociale, il Macchia Nera, che è stato bruciato a fine anni 90. Tra la fine degli 80 e i 90 era abbastanza un punto saldo in regione, però a essere onesti noi ci siamo beccati proprio il colpo di coda. Quando ci sono andati i Nirvana eravamo troppo piccoli, per intenderci. Quindi onestamente non ci sono mai stati dei gruppi di riferimento negli anni in cui cominciavamo a suonare, o persone da cui imparare come fare le cose. Quando ci siamo poi avvicinati a tutto il mondo delle etichette e dell’autoproduzione per vedere come funzionavano le cose, prendevamo la macchina e andavamo fuori.
Cela: Ci può avere influenzato di più come una città piccola che ti mette un po’ quell’urgenza di fare un gruppo e di suonare. Poi gli anni dopo ti guardi indietro e dici, “Sono stato quindici sabati fuori a suonare”: magari aver passato gli stessi giorni nella tua città ti avrebbe limitato per un sacco di cose. Una città grossa non ti dà l’urgenza di suonare, ti dà l’opportunità di suonare.

Un live dei NoMeansNo al Macchina Nera, nel 1990.

Stiamo parlando dei vostri inizi, quindi vi vorrei chiedere che cosa vi ha lasciato l’esperienza Violent Breakfast e Nient’altro che tempo.

Theo: Non è rimasto niente in termini di cordone ombelicale, o tragedia greca per cui dovremmo essere in qualche modo legati al rimpianto che quel gruppo è finito. In realtà è rimasto tutto. Nel senso che le cose come le abbiamo sempre fatte nei Chambers le facevamo già prima dei Violent. Il network di contatti, l’approccio DIY ci sono sempre stati. Un modo di intendere l’andare in tour, suonare, fare uscire i dischi con le persone che conosci. Non è che passiamo delle giornate a dare le testate nel muro. È una cosa finita, però nei Violent abbiamo cominciato a fare le cose nel modo in cui abbiamo poi proseguito. E le persone che sono sempre state nei Chambers vengono da quel background, gravitavano nell’orbita dei gruppi che suonavano con noi ai tempi. È semplicemente cambiato il progetto a livello musicale perché sono cambiate le persone.

In Per strada e in Ora piano ripetete “Ora basta”: “Da quando ti han detto “ora basta”, quanta voglia hai ancora? Da quando ti han detto “ancora”, che ti manca per dire basta?”  Ma “Ora basta” cosa?

Cela: Quel testo parla della situazione in cui secondo me viviamo oggi, in cui siamo privati di tante libertà che ci sono sempre state. Del concetto stesso della piazza come punto di aggregazione, che è una cosa che sostanzialmente viene sempre minata da ordinanze comunali e cose varie. “Ora basta” è sia detto dalla parte di chi si affaccia dal terrazzo e dice a tutti di smetterla di fare confusione perché la strada non è fatta perché ci stia la gente – che è una cosa assurda – sia dal punto di vista di chi subisce questa cosa, e si dovrebbe stufare di questa situazione e riprendersi degli spazi che sono per natura punti di aggregazione. Ho parlato della piazza ma potrei farlo per mille cose. Per i locali, per i volumi. È molto più facile lamentarsi sempre di qualcosa che è sempre stato fatto così e non capire perché certe cose finiscano: come appunto il ritrovarsi, o il suonare a un determinato volume”.

Parlatemi un po’ di quello che stavate ascoltando durante la scrittura de La guerra dei trent’anni, e ora che siete in tour per il decennale di To Lose La Track.

Gigi: Quello che abbiamo ascoltato nelle date precedenti alla scrittura del disco è stata la base del disco. Quindi un tipo di suono che si rifà ad ascolti che non sono necessariamente contemporanei o nuovi. Un suono diverso da quello de La mano sinistra. C’è un retaggio del post-HC dei primi anni duemila. Per dire qualche gruppo: These Arms Are Snakes, Botch, Cave In, Breach, Converge. Gran parte del suono del disco nuovo l’hanno fatto anche gli Young Widows. Sonorità più lente, cadenzate e ripetitive. Non c’è l’urgenza di partire nel pezzo e mettere il suono in faccia com’era ne La mano sinistra.Sono ascolti che non si possono definire “di genere”, cosa di cui ci siamo resi conto durante le date con gli altri gruppi di TLLT. C’è una certa differenza a livello di suono. E questa è una cosa che anche a livello di ascoltatore esterno si percepisce abbastanza bene, ascoltando La guerra dei trent’anni. Penso ci sia un certo tipo di pubblico che si aspettava un suono molto più vicino agli altri compagni di etichetta, a una sonorità più emo, legata al college, più scanzonata. Quel tipo di scena che ha dato un suono caratteristico nelle produzioni TLLT. Ma in realtà crediamo che l’etichetta stia facendo un po’ la differenza, basandoci anche sulle ultime uscite. Luca sta producendo un sacco di roba diversa.

Il fatto che La guerra dei trent’anni sia un disco divisivo e diverso è assolutamente un più. Intendo dire, il supporto che si dà a un gruppo non dovrebbe essere necessariamente legato al fatto che un disco in particolare piaccia o meno. Il filo conduttore che unisce tutto è l’approccio DIY. 

Gigi: Sicuramente il filo conduttore è quello. Luca sta facendo cose molto diverse, come Crimea X. Sembra, e questa è un’impressione nostra più che un confronto diretto con Luca, che si sta cercando di differenziare di più e di scavallare un po’ la matrice di suono che l’etichetta ha avuto fino adesso.
Theo: L’etichetta sta cercando di ramificarsi, ma la scelta di fare un disco come La guerra dei trent’anni è stata nostra e non un diktat dell’etichetta. Il problema che ci siamo posti quando abbiamo scritto questo disco nuovo è che, onestamente, tante volte parliamo tra di noi e quando veniamo via dai concerti altrui una delle cose di cui discutiamo spesso è che sembra manchi un po’ il passo in avanti. Quindi quello che avevamo tenuto a fare con questo disco, anche a costo di pestare una merda, ti dico la verità, era cercare di spingerci in una direzione. Questo spesso significa magari perdere alcune persone, e magari prenderne di nuove. Sicuramente non volevamo fare La mano sinistra 2. Quando abbiamo iniziato a discutere, la cosa più semplice sarebbe stata quella. Però nulla vieta alle persone di ascoltarsi Chiuso per fiere per una settimana di fila. Sapevamo che ci stavamo assumendo un grandissimo rischio. Magari ci piace poco la ripetizione, ecco. Il primo timore che avevamo era quello della staticità.

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