Intervista: A Winged Victory for the Sullen

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di Elia Alovisi

Adam Wiltzie è metà degli Stars of the Lid. I suoi dischi assieme a Brian McBride hanno preso la chitarra e l’hanno resa drone, in una serie infinita di piccoli crescendo e ripetizioni che raccontano storie senza parole, capaci sia di inquietare che di cullare. Dustin O’Halloran è un pianista e compositore di grande classe, capace ugualmente di uscirsene con dischi per pianoforte solista come di lavorare su complesse colonne sonore per film e televisione. Insieme, i due si chiamano A Winged Victory for the Sullen: una chitarra effettata, un pianoforte, delle tastiere e degli archi. Nient’altro. I loro pezzi sono esercizi di riflessione, lunghe meditazioni sul sole che circola attorno alla terra portando gioia, sinfonie autodichiarate patetiche, requiem per re di rumore bianco.

Il loro nuovo, secondo disco è piuttosto particolare: si chiama Atomos, ed è stato composto su commissione. L’ideatore del progetto è Wayne MacGregor, immenso nome della danza contemporanea con la sua compagnia Random Dance – ma anche con il Royal Ballet inglese, su tutti. Le coreografie di MacGregor sono decisamente particolari, sconnesse – “casuali”, come il nome che portano. Quella degli A Winged Victory for the Sullen, nello specifico, ha dentro un sacco di scienza. Il minuscolo e l’enorme, l’infinitesimale e l’infinito. “Ballabile” non è sicuramente il primo aggettivo che viene in mente ascoltando gli AWVFTS, ma è esattamente questo il punto – per quanto Wiltzie e O’Halloran possano cercare di inserire una sorta di ritmo nelle loro composizioni, MacGregor ci crea sopra movimenti apparentemente sconnessi ma che sembrano solo naturali e spontanei. Proprio come la composizione della piece, avvenuta nel giro di qualche mese. Proprio come la sensazione che lascia l’ascolto, di liberazione e catarsi.

Incontro Adam e Dustin nella hall di un hotel in zona Angel a Londra, un pomeriggio di fine ottobre, appena prima del loro concerto alla Milton Court del celebre Barbican (qua delle foto via The 405). Dustin è lì ad aspettarmi, e iniziamo a parlare (in italiano, dato il suo passato nel nostro paese – vedi la prima domanda). Adam ci raggiunge poco dopo, ordina un hamburger a due piani (che poi divide con il compagno) e si beve una media chiara durante l’intervista.

È strano che non abbiate mai suonato in Italia prima, dato che in Italia vi siete conosciuti e tu, Dustin, ci hai vissuto per un po’ di anni.

Dustin O’Halloran: “Ho vissuto in Italia 6 anni, in Romagna. E poi mi sono trasferito a Berlino, e sono 6 anni che sono lì. Adoro l’Italia, ma sono momenti difficili. Se vuoi che il tuo lavoro possa crescere… non devo nemmeno dirti quanto possa essere difficile. Sentivo il bisogno di essere di nuovo in una città. E in Italia non c’era una città in cui sentivo avrei potuto lavorare. Lavoravo molto con Francesco Donadello, che ha uno studio a Bologna. Ed ero molto triste di andarmene, perché stavamo lavorando benissimo insieme e sentivo di poterne fare di migliori. Quando anche lui ha deciso di trasferirsi a Berlino, allora mi sono sentito sicuro della mia scelta. Ha aperto uno studio fantastico, ed è parte praticamente di ogni mio progetto. Il mio lavoro solista, le colonne sonore, questo progetto. Lì poi lavorano artisti con cui lavoro come gli Efterklang e Jóhann Jóhannsson.”

Atomos è stato scritto in un lasso di tempo molto più breve rispetto al vostro esordio.

Adam Wiltzie: “Non avevamo scelta. Essendo un pezzo commissionato c’era una scadenza decisamente a breve termine – ottobre, e abbiamo iniziato a lavorarci in estate. Quindi avevamo solo quattro mesi. Non avevamo scelta. A volte cose come queste semplificano la vita. Riesci a vedere la linea d’arrivo e devi correre il più veloce possibile per arrivarci”.

È stato stressante lavorare in questo modo?

A: “No, non particolarmente”.
D: “Abbiamo dovuto capire come comprimere tutto il lavoro in quattro mesi. Avevamo fatto solo un disco insieme prima di questo, e la situazione allora era completamente rilassata. Era un esperimento.
A: “C’è stato un po’ di stress verso la fine, appena prima della premiere”.
D: “Siamo andati avanti a comporre fino alla sera prima del debutto! Ma sono soddisfatto del risultato”.

Conoscevate Wayne McGregor prima che vi contattasse per lavorare con lui?

A: “Io no, ci ha semplicemente contattati.”
D: “Io ne avevo sentito parlare perché Ben Frost aveva collaborato con lui in precedenza [per un balletto intitolato FAR, ndr], così come Max Richter [per la sua opera Sum, ndr].
A: “Non l’avevo mai sentito nominare. Ed ero un po’ imbarazzato mentre cercavo di entrare nel suo mondo, soprattutto quando mi sono reso conto di quanto fosse un grosso nome nel campo della danza contemporanea. Ma questo ha soldificato in me l’idea di quante persone ci siano al mondo che creano splendide opere d’arte, e come fai a restare al passo? Wayne sta probabilmente lavorando da più tempo di noi, abbiamo più o meno la stessa età ma solo ora ci siamo connessi, siamo entrati in collisione dopo aver passato 40 anni su questa terra.”

Dato che ne hai parlato, come fate a restare al passo con l’arte?

A: “Non lo facciamo realmente. Ne abbiamo parlato recentemente.”
D: “Io uso Spotify!”
A: “Io no.”
D: “Entrambi stiamo passando un periodo in cui lavoriamo molto alla nostra musica, e quindi fatichiamo ad ascoltare nuove cose. La tua testa è piena. Guardo molti film, e adoro la visual art, ma più lavoro con la musica meno riesco ad ascoltarla. Riesco di più ad ascoltare brani del passato che mi possono dare una mano nella composizione, ecco”.

MacGregor vi ha dato una serie di materiali su cui lavorare e da cui prendere ispirazione per Atomos, giusto?

A: “Principalmente erano immagini basate sul colore, figure che avevano un’aria “spaziale”, molecole. Dei brevissimi video di YouTube che aveva trovato interessanti – tra cui questo vecchio documentario che mostrava come le cose potessero accadere esponenzialmente partendo da un atomo arrivando fino all’universo. È stato molto bello secondo me, è stata la cosa che mi ha fatto capire la direzione che dovevamo prendere.”
D: “Ingrandisce cento volte la mano di qualcuno, e poi si allontana le stesse cento volte arrivando nello spazio. Quindi capisci come le particelle più piccole possano essere collegate alle cose più grandi. Atomos è basato sul rapporto tra il nostro corpo e il cosmo, dal piccolo all’enorme. Per me è stata un’ispirazione. Dato che non si trattava di raccontare una storia non eravamo legati da alcun dramma, potevamo esplorare qualsiasi cosa volevamo. È il miglior tipo di progetto che puoi affrontare. Abbiamo scritto tutta la musica prima che lui componesse la coreografia.”

Che reazioni avete avuto quando avete potuto guardare la coreografia assieme alla musica?

D: “Sono rimasto sorpreso da quanto le due cose funzionassero bene assieme. Non abbiamo mai immaginato la nostra musica come sottofondo di una danza, e non avrei mai potuto nemmeno pensare a come sarebbe potuto essere fatto. Quando l’abbiamo visto… ha un modo di lavorare sulla musica che non ho capito del tutto.
A: “È difficile da spiegare a parole, ma per noi aveva completamente senso. Mentre prima di vedere il tutto ci stavamo ancora grattando il mento chiedendoci come avrebbero potuto farlo”.
D: “Le sue opere hanno dentro così tanta scienza che ti sembra di guardare la scienza dispiegarsi attraverso il corpo umano”.

Dustin, puoi provare a spiegare a parole che cosa si sente a comporre essendo sinestetici?

D: “Penso sempre più in colori piuttosto che in accordi. La mia è una ricerca di colori che stiano bene l’uno con l’altro, e di note che comunichino i colori che ho in mente. Specialmente con il tipo di musica che facciamo, c’è un grande elemento di attesa. Lavoriamo con il tempo, usiamo distensioni. E lavoriamo in colori minimali – cerchiamo attivamente di raggiungere una tavolozza minimale. In Atomos c’è molto blu scuro, nero opaco, bianco e un po’ di rosso. Il mio studio è sempre verde, perché è un colore con cui mi trovo molto a mio agio quando devo scrivere.”

Come mai avete deciso di non dare singoli titoli alle varie parti della pièce?

A: “Perché non è realmente qualcosa di nostro. Ai titoli del primo disco, invece, abbiamo lavorato insieme. Ogni canzone ha una storia dietro di sé, ed è collegata ai luoghi in cui l’abbiamo registrata.”
D: “C’è molto di personale in quei titoli”.
A: “Anche se non stavamo nemmeno provando a fare un disco, è semplicemente una cosa che è capitata. Il titolo di una canzone è molto importante per me, era così anche negli Stars of the Lid. Mi piacciono quelle cose che non significano nulla se non per un paio di persone.”

Il vostro nome viene invece da una statua, giusto? Una vittoria alata.

A: “Inizialmente volevamo solo usare i nostri nomi ma il nostro manager ci ha consigliato di trovare un nome, il che ci ha portato a sei assurdi mesi passati in cerca di un nome. È stato piuttosto frustrante per un po’.”
D: “La musica, in un certo senso, può essere una statua. È minimale, ma ha una struttura. La statua è bella e potente allo stesso tempo, e quindi era un buon punto da cui partire.”

Pensate che ci sia un parallelo tra l’arte contemporanea e la musica classica contemporanea? Forse l’assenza di una formazione nel senso classico del termine?

D: “Specialmente con questo disco, abbiamo dovuto seguire una curva di apprendimento piuttosto elevata. Soprattutto per quanto riguarda gli archi. Ci sono state molte cose che non funzionavano bene e si sono poi evolute. Stiamo studiando, in un certo senso, ma è la vita a insegnarci qualcosa. Fortunatamente i nostri musicisti sono molto pazienti e ci hanno aiutato a mettere in pratica le nostre idee”.
A: “Non penso sia giusto associare le due cose. Ci sono nostri pari con una formazione classica, ecco”.
D: “Penso che in fondo sia tutta questione di trovare quali sono gli strumenti con cui lavori meglio. Molti artisti contemporanei si inventano i concetti, ma non sono poi loro a eseguire materialmente il tutto. Molte persone li aiutano a mettere insieme la loro arte. E penso che questo possa essere un paragone tra le due cose, sì”.

In che modo vi siete approcciati alla composizione di Atomos?

D: “Passiamo molto tempo a sviluppare ogni singolo suono. Partiamo ogni tanto dal pianoforte, traslando il suono attraverso diversi effetti – non sembra neanche più pianoforte – lo registriamo su nastro, mandiamo il nastro al contrario. Ci sono molti livelli. Ogni suono diventa un mattoncino. Wayne ha creato una coreografia modulare, piccole scene che avrebbe potuto riassemblare. Ci ha chiesto di sperimentare con la stessa idea in musica, creare strutture per poi prenderne un piccolo pezzo e provare a costruire qualcosa partendo dal piccolo. Lo chiamava “atomizzare” qualcosa. Così abbiamo fatto, ed è stato un bel modo di pensare alla musica e di lavorare. Non ci ha detto nulla sulla struttura della musica, ci ha dato solo un’idea e poi ci ha lasciato carta bianca. È stata una grande ispirazione.”

Come avete iniziato, crescendo, ad apprezzare la musica classica?

A: “Io sono cresciuto ascoltando classica grazie a mia madre. Mi è sempre piaciuta. Prendendo in mano la chitarra, però, non ho mai pensato in termini di “musica classica” componendo. Ero più influenzato dal drone, dal minimalismo. Non mi sono mai considerato un vero e proprio musicista. Ho solo più o meno raggiunto un punto in cui mi sentivo “a posto”. Ogni volta che fai qualcosa a livello musicale stai imparando a fare un piccolissimo passo che però ti porta sempre più avanti. È questione di accumulo negli anni. È imparare una nuova lingua. Alcuni vanno a scuola per imparare una lingua, noi ci siamo immersi in un ambiente per capire come parlarla.”
D: “Mio fratello è sempre stato un grande ascoltatore di rock, suonava la batteria mentre io studiavo pianoforte. Odiavamo la musica l’uno dell’altro. Ma il mio desiderio di suonare il pianoforte scaturiva da quelle situazioni in cui avevo visto altri suonare dei brani. È stato il mio primo amore, in un certo senso. Poi ho provato a comporre musica nel contesto di un gruppo con i Devics. Ma il pianoforte è sempre rimasto con me. La classica è l’unico genere che riesce a sconfiggere il tempo per me. È probabilmente il modo meno egoistico di scrivere musica. Puoi scriverla e non suonarla affatto. Puoi distaccare l’ego, la persona dal brano. E questo vive di vita propria. Una buona composizione deve restare in piedi da sola.”

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