Intervista: Eric Davidson (New Bomb Turks)

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I ragazzi venuti dall’Ohio
Mammaliturchi
Libri, giornalismo e gunk punk

di Andrea Valentini

Eric Davidson è stato la voce dei New Bomb Turks – formazione di punta del punk made in USA degli anni Novanta. La band, nonostante lo scioglimento avvenuto nel 2002, non si può considerare inattiva, visto che ogni anno riesce a fare qualche concerto: e infatti è passata in Italia per una data, il 1 novembre scorso.
Eric è uno dei grandi frontman del punk’n’roll contemporaneo, ma anche una firma piuttosto nota a livello di giornalismo (soprattutto) musicale. Ha iniziato quasi 30 anni fa – nel 1987 – a scrivere come penna freelance e non ha mai smesso: si è trasferito a New York (da Cleveland, città natale dei New Bomb Turks) nel 2004, ha lavorato per il Village Voice e ora è il caporedattore di CMJ.com. Qualche anno fa ha anche pubblicato un libro che può tranquillamente essere definito una Bibbia per chi ha amato e seguito l’esplosione del punk made in USA anni Novanta: We Never Learn, che narra l’epopea di tutti quelle band che Davidson definisce “gunk punk” (dai Teengenerate ai Chrome Cranks, passando per Rocket From The Crypt, Dwarves, Mummies, Gibson Bros, Billy Childish, Candy Snatchers e decine di altri nomi che in quegli anni infestavano playlist e stereo).
In occasione della data al Bloom di Mezzago dei New Bomb Turks, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Eric, che non ha smentito la sua fama da scrittore/narratore, regalandoci diverse migliaia di battute di aneddoti e storie. È chiaro che ora la musica suonata sul palco è un hobby per lui, piuttosto che un’occupazione, ma l’intensità della performance della band sul palco non lascia dubbi: il rock’n’roll è ancora vivo e vegeto.

Si può dire che i New Bomb Turks siano di nuovo operativi, o è solo una reunion sporadica come quelle degli ultimi anni?

In effetti no. Ogni anno qualche buon promoter europeo ci chiede di suonare o qualche amico negli Stati Uniti ce lo domanda: è difficile dire di no ed è bello ritrovarsi per un paio di concerti. Ma non siamo più in pista. Mi piace rivedere gli altri (io vivo a New York, loro stanno a Columbus e hanno famiglie, lavori e altri impegni…) ed è sempre bello dimostrare alla gente che siamo ancora in grado di reggere alla grande! Poi, nel caso specifico di quest’anno, la Crypt ha ristampato il primo disco nel 2013 e ci sentivamo di dare una mano nella promozione suonando un pochino.

Vi siete sciolti nel 2002 dopo 12 anni di grande rock’n’roll… cosa è successo?

C’erano in ballo alcune faccende personali un po’ noiose. Ma a parte questo, ci è sembrato il momento giusto per chiudere. Penso davvero che all’epoca i nostri concerti fossero il top e ci piaceva molto il nostro ultimo album… per cui era il momento migliore per finirla, mentre eravamo al meglio. In più tutti noi avevamo bisogno di fare cose diverse nelle nostre vite.

Negli anni Novanta, a un certo punto, avete goduto di una certa popolarità: ricordo accuse di esservi venduti al sistema… ma pensi davvero che i New Bomb Turks lo abbiano fatto? Come stavano le cose in realtà?

A ripensarci ora, dopo tutti questi anni, fa sorridere. Tutte quelle storie sul “vendersi”, che si sentivano tanto allora, ormai sembrano solo delle sciocchezze – soprattutto considerando che l’80% delle persone in gruppi che venivano accusati di quella roba oggi sono al verde o, peggio, in trattamento per disintossicarsi. Ma già allora ci sembravano obiezioni stupide. Devo dire che è passato troppo tempo e ai tempi se ne è discusso talmente tanto che forse è meglio non rivangare queste faccende… direi che è meglio lasciare tutto così come sta. Probabilmente chi diceva queste cose aveva delle buone intenzioni, a livello etico, ma essenzialmente prendevano di mira gente che era, in realtà, nella loro stessa barca. Poi ci sarebbe anche da definire bene il concetto di popolarità. Ad esempio noi siamo andati sempre meglio in Europa che negli USA. Se non ricordo male, i nostri due video sono stati trasmessi da MTV, negli Stati Uniti, solo un paio di volte e nel cuore della notte! Ma comunque la nostra idea di “successo” era il fatto di riuscire a pubblicare i dischi che volevamo, viaggiare e andare in tour per il mondo, incontrare altre band, amici, fan… e in questo modo siamo riusciti a guadagnare abbastanza denaro da riuscire a vivere di musica, guadagnando cifre modeste ma sufficienti a sopravvivere in Ohio. Siamo riusciti a uscire per molte etichette ottime – soprattutto la Crypt, che è la mia preferita di sempre. Sentivamo di essere riusciti a costruirci, in qualche modo, una vita da artisti in America. Nessuno di noi è diventato un tossicomane e siamo ancora ottimi amici. E comunque, di tutti i gruppi a cui ci paragonavano – Dead Boys, Saints, Pagans, Dwarves, Lazy Cowgirls, Devil Dogs – nessuno è mai diventato una star… quindi come avremmo potuto farlo noi? Se poi i Green Day sono il manifesto del gruppo punk di successo… che dire: non mi dispiacerebbe avere i loro soldi, ma nient’altro.

Nei primi anni Novanta siete venuti in Italia un paio di volte (coi Devil Dogs e ci Teengenerate)… cosa ricordi? Hai qualche aneddoto?

Mi ricordo di un concerto coi Teengenerate in uno squat vicino a Roma. Era affollatissimo, ci saranno state più di 300 persone e un quarto del pubblico aveva l’aria del motociclista attempato, mentre il resto erano ragazzini che facevano casino. È stato grandioso. Dopo il concerto il promoter è venuto nel backstage e ha iniziato a impilare delle banconote sui materassi su cui avremmo dovuto dormire la notte stessa… fece due mucchi di denaro, uno per noi e l’altro per pagare il pizzo alla “mafia locale”. Noi gli chiedemmo di spiegarci di più, ma non ottenemmo risposta… comunque fu un concerto bellissimo!

I vostri dischi sembrano segnare un arco evolutivo nel sound… come cambiava il vostro modo di scrivere?

Eravamo tutti grandi collezionisti di dischi con gusti molto vari. E poi se nel furgone ascolti Otis Redding e la roba della Stax ti viene voglia di provare a mettere i fiati come fecero gli Stones e i Saints. Poi ci piacevano le chitarre stratificate degli Union Carbide Productions, le follie di Prince, i Geto Boys… e tanto rockabilly e gruppi femminili. Le idee erano lì nell’aria, quindi perché non fare degli esperimenti? Siamo riusciti a restare attivi abbastanza da poter provare un po’ di cose differenti e cercare di dimostrare che il punk non è solo fatto di pezzi veloci e testi contro lo Stato. Sarebbe stato noioso per noi e per il pubblico, se avessimo sempre fatto la stessa roba. Anche se – onestamente – penso che i nostri album siano tutti belli furiosi: non abbiamo mai registrato con un’orchestra di 30 elementi o un coro di bambini (anche se forse qualcuno lo ha proposto a un certo punto)!

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I tuoi testi sono sempre stati piuttosto complessi e articolati: ti ispiravi a qualcuno in particolare, nello scriverli?

Mi ricorderò sempre di quando Joe Strummer disse che tutti i grandi testi d’amore erano già stati scritti, quindi valeva la pena tentare qualcosa d’altro. E i Clash di certo hanno sempre tentato di fare testi interessanti – secondo me sono etichettati troppo spesso come band politica, in realtà avevano testi molto più profondi e interessanti, non era solo tutto un “la polizia fa schifo!”. Mi piacevano tanto lo slang del vecchio rockabilly e le metafore che usava Paul Westerberg; ma anche la poesia folle di Dylan, il modo che avevano Iggy Pop e i Ramones di dire cose profonde e buttarci subito dietro “Gabba Gabba Hey” o qualcosa di sciocco. Ma mi piaceva tanto anche il modo di scrivere dei primi artisti hip-hop. Comunque, in media, non ci pensavo troppo e scrivevo quello che mi passava per la testa. Per me era importante non essere banale, ma la cosa più importante era che la metrica dei testi fosse perfetta per la musica. E comunque penso di non avere imparato a scrivere davvero un testo fino a At Rope’s End.

Il vostro amico Bela Koe-Krompecher ha detto di voi: “Il loro suono arriva da Cleveland. È chiaro che adoravano gente come Prisonshake e Death of Samantha. Columbus non aveva alcun sound proprio. Loro erano influenzati da Cleveland”. Sei d’accordo?

Bela è un grande amico! Ha ancora una bella etichetta, la Anyway Records. Comunque sì, eravamo tutti ragazzi del nord dell’Ohio, della rust belt, siamo cresciuti in mezzo ai sindacati e ai politici liberali, ma anche in un ambiente molto cattolico, un meteo sempre orribile e squadre che perdevano sempre in ogni tipo di sport. Io da ragazzino abitavo a Cleveland… Columbus è solo a due ore di viaggio, ma quando mi ci sono trasferito per studiare ho subito notato gli accenti diversi. È una grande città universitaria e all’epoca era più un ambiente hippie e folk; se mai c’era un sound di Columbus era più vicino al folk rock un po’ bizzarro. Però erano attivi gruppi come Gibson Brothers, Scrawl e Great Plains e ci piacevano molto, anche se erano più roots, meno frenetici. Ma alla fine è tutta roba tipica dell’Ohio, ci sono delle connessioni strane e delle influenze sotterranee in tutta la musica di quella zona. È quello che Matt Reber chiama il fattore “what the fuck”!

Avete ancora qualcosa, in archivio, che volete pubblicare?

No. Cioè forse c’è qualche vecchissimo demo su nastro che si sente da schifo, o magari qualche registrazione di sala prove con delle jam caotiche. La Crypt però l’anno scorso ha pubblicato un bel 10” con dei demo che ci piacevano…

E di materiale nuovo non se ne parla?

No, per ora no. Ma chi può sapere…

Hai fondato un’altro gruppo, i Livids, a New York: suonate ancora?

No, ci siamo sciolti lo scorso dicembre. È stato divertente finché è durato – abbiamo suonato un po’ lì nella zona, poi al SXSW. Abbiamo anche fatto un piccolo tour e abbiamo suonato con bei gruppi (Hives, OBN IIIs, Giuda, Foster Care, Weird Womb). Abbiamo anche fatto qualche buon singolo, di cui vado fiero.

Lavori come giornalista freelance da anni. Di cosa ti occupi, principalmente?

Soprattutto di musica e – sporadicamente – di cinema. Al momento sono caporedattore di CMJ.com e oltre a scrivere faccio molto lavoro di editing sui testi dei collaboratori più giovani, faccio planning e… mi piace molto. Avevo già lavorato per loro fra il 2006 e il 2009. Poi li ho lasciati e mi sono messo a scrivere il mio libro We Never Learn, ho fatto il tour promozionale; ho anche lavorato per un po’, a un certo punto, da un parrucchiere alla moda di New York… lì ho incontrato diversi attori e sportivi. Ha! Comunque, CMJ ora è più solida di quanto non fosse all’epoca e stiamo lavorando per migliorare il sito entro il 2015. Ad ogni modo, mi piace andare al lavoro ogni giorno, non posso lamentarmi!

Sei soddisfatto del tuo libro, We Never Learn? Ci hai messo molto per completarlo?

Sono molto contento di come è venuto. Sapevo che non era materiale da Premio Pulitzer e non avevo mai scritto qualcosa di così esteso. Ma alla fine sono felice e orgoglioso del risultato. C’è qualche refuso e qualche errore qua e là, ma è una lettura divertente. Ci ho messo un paio d’anni a finirlo e ora mi piacerebbe ripubblicarlo con un capitolo in più, ma non ci sono piani definiti al momento.

Stai scrivendo un altro libro?

No, non ora. Mi piacerebbe però lavorare a un romanzo breve o a un documentario. Ma chissà…

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Quale è stato il tuo ingaggio più bizzarro, nella tua carriera di giornalista?

A parte il funerale di Stiv Bators, a cui mi mandarono, all’epoca, ho appena intervistato John Waters sulla musica dei suoi film – ed è stato grandioso! Mi hanno anche mandato una volta sul set di un porno, ma io dovevo intervistare solo i tecnici delle luci… e queste persone ti fanno davvero capire quanto sia noioso il porno. Comunque me ne sono andato prima della prima eiaculazione!

C’è un’altra icona punk dell’Ohio che si occupa di giornalismo e scrive… Mike Hudson dei Pagans. Lo conosci? Cosa pensi dei suoi lavori?

Certo, lo conosco. Tre anni fa abbiamo fatto un reading insieme, con Cheetah Chrome e Bob Pfeiffer degli Human Switchboard. Siamo rimasti in contatto da allora. Ho appena preso il suo nuovo libro Fame Whore e ho letto il primo, Diary Of A Punk, che mi è piaciuto tanto. Sto cercando di convincerlo a ristamparlo con più foto. Ha anche fatto un nuovo disco e quello che ho ascoltato è ottimo. È un personaggio molto interessante e un esempio magistrale di ciò che Cleveland può fare a una persona, nel bene e nel male.

Di cosa si occupano gli altri New Bomb Turks? C’è qualcuno che ancora suona di professione?

Se la cavano tutti alla grande! Jim è il preside del dipartimento di lingua inglese nella scuola superiore in cui lavora, a Columbus. Lui e la sua bella moglie hanno un bimbo che si chiama Elliot. Matt gestisce il negozio all’interno dello Wexner Center, lo spazio esposizioni della Ohio State University; anche lui e sua moglie Alisa hanno un bel bimbo, Auggie. Sam Brown è felicemente sposato con Jenna e ha un figlio: Garvey. Sam è di sicuro il più attivo sul fronte musicale – è il batterista dei Divine Fits e degli Operators. Jim e Matt ogni tanto suonano con qualche amico a Columbus. Io ho registrato delle cose per conto mio e prima o poi farò il “temutissimo” disco solista. Per ora me la passo bene nel Queens, dove vivo con la mia ragazza Shannon! Insomma, non ci possiamo lamentare…

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