Live Report: Billy Idol @ Fabrique, Milano – 23/11/2014

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BILLY IDOL

di Stefano Morelli / fotografie di Fabio Izzo

Spontaneità, magnetismo, energia. Volendo rintracciare una ideale triade d’intenti idonea a spiegare le ragioni che rendono ancora oggi il rocker biondo crinito così popolare, queste vanno ricercate anzitutto nella summa poc’anzi espressa. Dalle nostre si era già tastato il polso della contemporanea ridefinizione dell’originaio nucleo idoliano (che vede ancora la sei corde Steve Stevens porsi come ideale e irrinunciabile partner in crime), esattamente tre anni orsono, in occasione del primo rientro in terra italica nella cornice estiva padovana. A seguito poi del riscontro ottenuto lo scorso giugno nella doppia tappa Roma-Padova, eccoci a registrare il sold out nel capoluogo lombardo all’interno della cornice del neonato Fabrique, segno che un pubblico memore di quell’esperienza esiste ancora e non risulta composto solo da cinquantenni e trentenni, tutt’altro.

Doveroso il positivo rimando alla location, visto la condizione odierna dei locali ‘live’ nel territorio milanese (ottimale nella resa acustica e strutturato in un ibrido azzeccato tra il vecchio Rolling Stone e l’Alcatraz dei Novanta) e ring ideale per condensare la vecchia indole da mattatori di Idol e compagni. Performance capace di equilibrare al meglio non solo le architetture prettamente rock-neo punk del nostro (non sono mancati cenni fulminei verso le scorribande dell’era Generation X, con sanguigne ridefinizioni di anthem quali Ready Steady Go, Dancing With Myself, più trascinante del solito in quest’occasione e anticipata da un simpatico sketch tra i musicisti, e King Rocker), ma di esaltarne al meglio pure le rifiniture intimiste, sensuali o più prosaicamente votate a un’elegante andatura da crooner maledetto (Eyes Wihtout A Face, Save Me Now, Flesh For Fantasy e Sweet Sixteen, in particolar modo).

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Ad aprire le danze è stato il trascinante ricavo neo Rebel Yell (quest’ultima lasciata sul finale in un botta e risposta da stadio col pubblico) di Postcards From The Past, doppiata nell’immediato dalle pulsioni blues di Cradle of Love, invero da annoverare, insieme alle cover di L.A. Woman e Mony Mony, tra le punte di diamante nella vivace interazione interna alla band e con un Idol più volte proteso ad imbracciare la chitarra. Spiace che dall’ultimo lavoro siano state sacrificate Bitter Pill, Ghosts In My Guitar e One Breath Away, sicuramente più idonee in una scaletta dove Can’t Break Me Down è parsa quasi una forzatura (unico neo, specie nella resa svogliata, in una serata costantemente febbricitante). In compenso la veste noir di White Wedding (la cui verve acustica nella sua prima parte resta ancora da brivido) e la luccicante riproposizione di Blue Highway hanno pareggiato il conto svelando soprattutto l’estro tenico mai placato sia di Stevens sia dell’asse ritmico sostenuto da Mc Grath, Morrison e Eldenius (esemplare la corsa a rotta di collo di Whiskey And Pills, summa ideale tra hard rock e accelerazioni punk heavy), oltre alla sagace abilità interpretativa di Idol.

Scorrendo le interviste più recenti, William Broad non ha mai celato il suo stupore nei confronti degli odierni tributi a suo favore provenienti da molteplici ambiti sonori o artistici e quel “grazie a tutti voi per aver reso la mia vita così incredibilmente grande”, posto quasi a conclusione del concerto, proveniva indubbiamente dal cuore, lasciando trapelare un’onesta commozione. Sincerità e passione, le altre due chiavi da includere per comprenderne la risonanza: niente male per lo spirito guerriero di un pervicace Worlds Forgotten Boy.

Erlend Oye

Redazione Rumore
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